Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 34886 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 34886 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 30/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 349/2019 R.G. proposto da :
COGNOME, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
INPS, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE), COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 813/2018 depositata il 20/06/2018.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 14/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE
La Corte d’appello di Milano, in riforma della sentenza del Tribunale della stessa sede, rigettava la domanda proposta da NOME COGNOME, già dirigente della società RAGIONE_SOCIALE per il riconoscimento della prestazione ASpI a seguito della cessazione del rapporto di lavoro, avvenuta con verbale di conciliazione sindacale del 21 ottobre 2013.
2.La Corte territoriale esponeva che il primo giudice aveva riconosciuto la prestazione sul presupposto dello stato di disoccupazione involontaria dell’RAGIONE_SOCIALE, risultante dal fatto che la società aveva avviato, in data 11 marzo 2013, la procedura di licenziamento collettivo ed intendeva chiudere la sede di Milano, dove l’RAGIONE_SOCIALE lavorava, senza possibilità di un suo reimpiego. Aveva disatteso le difese dell’INPSfondate sul fatto che l’accordo conciliativo non era avvenuto nel corso della procedura di cui all’ art. 7 l. n. 604/1966, come richiesto dall’art. 2 l. n. 92/2012sul rilievo che la procedura del richiamato articolo 7 non era applicabile ai dirigenti.
Il giudice dell’appello non condivideva la valutazione del Tribunale, ritenendo che non fossero state adeguatamente considerate alcune circostanze decisive: il fatto che era stata prodotta la sola comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo, che non considerava la posizione dell’RAGIONE_SOCIALE, in quanto dirigente; il tempo intercorso tra detta comunicazione e l’accordo di conciliazione sindacale; la mancanza di dati precisi circa la effettiva chiusura della sede di Milano e la impossibilità di reimpiego; il fatto che nel verbale di conciliazione si richiamasse in più punti la circostanza che l’RAGIONE_SOCIALE era consigliere di amministrazione di varie società del gruppo ed, in relazione alla carica rivestita in una di esse, era indagato in sede penale; il fatto che con la conciliazione fossero state rinunciate le rivendicazioni risarcitorie reciproche, con manleva dell’RAGIONE_SOCIALE rispetto ad ogni pretesa di terzi derivante dalla sua attività di amministratore.
4.Tali elementi, secondo il giudice dell’appello, attestavano la intenzione comune di risolvere il rapporto di lavoro, indipendentemente dalla riduzione del personale.
5.Inoltre, il verbale di conciliazione prevedeva la erogazione, oltre ad una somma a titolo transattivo, di un incentivo all’esodo, che presupponeva la adesione volontaria del dipendente alla risoluzione del rapporto di lavoro, semplicemente «proposta» dalla società.
6.Gli elementi di fatto acquisiti al processo indicavano la volontà di entrambe le parti di porre fine al rapporto di lavoro e non una determinazione riconducibile al solo datore di lavoro; del resto, in caso di soppressione del posto di lavoro ed impossibilità di reimpiego non avrebbe avuto giustificazione la erogazione dell’incentivo all’esodo.
7.Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza COGNOME articolato in sei motivi di censura. L’INPS ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO CHE
1.Con il primo motivo la parte ricorrente ha denunciato -ai sensi dell’art. 360 n.4 cod.proc.civ. -la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 167 cod.proc.civ. nonché dell’art. 2697 cod.civ.
2. Si imputa al giudice del gravame di avere affermato che i fatti posti dal Tribunale a fondamento dell’accoglimento della domanda non erano pacifici (la chiusura della sede di Milano; la soppressione del posto di lavoro; la impossibilità di una sua ricollocazione); si sostiene che tali fatti non erano stati in alcun modo contestati nella memoria difensiva dell’Istituto in primo grado, trascritta nel presente ricorso in Cassazione.
3.Si addebita, inoltre, al giudice dell’appello di avere dato rilevanza ad altri fatti, risultanti dagli atti del giudizio di primo grado, non menzionati dall’INPS nelle difese del primo grado ma soltanto nel grado di appello (e cioè: il tempo trascorso tra la apertura della procedura di licenziamento collettivo e la risoluzione del rapporto di lavoro; la sua qualità di consigliere di amministrazione in più società del gruppo; il fatto che nei suoi confronti pendesse indagine penale).
4.Infine, si assume che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, il Tribunale non aveva mancato di considerare la
circostanza del pagamento di un incentivo all’esodo, ritenendola irrilevante.
5.Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
6.La riforma della sentenza di primo grado è dipesa da un apprezzamento delle risultanze istruttorie diverso rispetto a quello compiuto dal Tribunale, nell’esercizio della funzione di riesame del merito che compete al giudice dell’appello. La Corte territoriale non ha imputato al Tribunale né una erronea interpretazione della condotta processuale dell’INPS (di contestazione ovvero di non contestazione) né il mancato esame dell’incentivo all’esodo; piuttosto, ha ritenuto «non adeguata» la valutazione delle risultanze istruttorie. Peraltro, il giudice dell’appello è tenuto al riesame del merito anche nel caso in cui rilevi vizi di attività del giudice del primo grado.
Non ricorrono i presupposti della dedotta violazione del principio di non contestazione, posto che, rispetto a circostanze di fatto interne al rapporto di lavoro, quali la effettiva chiusura della sede della società e la effettiva possibilità di reimpiego del dirigente, un onere di contestazione specifica dell’ente di previdenza neppure può ipotizzarsi.
8.Il motivo è infondato anche nella parte in cui si assume che il giudice dell’appello non avrebbe potuto considerare i fatti, risultanti dagli atti di causa, che non erano stati indicati tempestivamente negli scritti difensivi di controparte. Il giudice, infatti, ben può considerare i fatti portati alla sua cognizione, quale causa petendi della domanda, alla luce dell’intero corredo probatorio, indipendentemente dalla sua provenienza e dal suo richiamo negli scritti difensivi (principio di acquisizione). Nella specie, il fatto portato dall’AUTIERO alla cognizione del giudice, quale causa petendi , consisteva nel suo stato di disoccupazione involontaria e su tale condizione il giudice dell’appello si è pronunciato , alla luce degli elementi di prova raccolti.
9.Con la seconda critica, proposta ai sensi dell’art. 360 n. 4, cod.proc.civ., si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 345 cod. proc.civ. nonché dell’art. 2697 cod.civ.
10.Si addebita al Giudice del gravame di avere fondato la decisione su fatti non indicati dall’INPS nel precedente grado di giudizio ma soltanto in grado di appello, benché a conoscenza dell’Istituto e risultanti dagli atti di causa (verbale di conciliazione) ed, in particolare: la titolarità di numerose cariche sociali (da cui, peraltro, egli si era dimesso con il verbale di conciliazione) e l’indagine penale a suo carico nella qualità del componente del CdA della società RAGIONE_SOCIALE
11.Si assume che soltanto in grado di appello l’INPS aveva contestato non solo la involontarietà del suo stato di disoccupazione ma lo stesso stato di disoccupazione, ampliando il perimetro del giudizio. Si imputa, infine, alla Corte d’appello di avere indebitamente affermato che la conciliazione aveva anche lo scopo di definire reciproche pretese risarcitorie, circostanza, questa, mai allegata dall’INPS.
12.Il motivo è infondato.
Come già esposto nell’esame del primo motivo, il fatto dedotto in causa dall’RAGIONE_SOCIALE consisteva nel proprio stato di disoccupazione involontaria, contestato dall’INPS sin dal primo grado.
14.Tutti i fatti di cui in questa sede si lamenta la novità costituivano fatti secondari con funzione probatoria, che il giudice ben poteva esaminare, anche se non costituenti oggetto di espressa e tempestiva attività assertiva; si tratta, infatti, di mere difese, alle quali non si applica il divieto dei nova in appello, sempre che, come nella fattispecie di causa, esse riguardino fatti principali o secondari emergenti dagli atti, dai documenti o dalle altre prove ritualmente acquisite al processo (Cass., sez. I, 11 giugno 2021, n.16560 e giurisprudenza ivi citata).
15. Il terzo motivo di impugnazione è articolato -ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod.proc.civ. -sotto il profilo della violazione e/o falsa applicazione artt. 1362 cod.civ. e dell’art. 2769 (rectius: 2729) cod.civ.
16. Viene censurata la interpretazione dell’accordo di risoluzione stipulato dall’RAGIONE_SOCIALE con la società datrice di lavoro, assumendo che la Corte di merito non avrebbe considerate le relative premesse, nelle quali si esponevano i fatti posti poi a fondamento della domanda (la soppressione della posizione lavorativa, la impossibilità di reimpiego dell’RAGIONE_SOCIALE). Si aggiunge che la sentenza impugnata dava invece rilievo a fatti neppure
rilevanti come presunzione semplice, per mancanza dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.
17.Il motivo è inammissibile.
18.La censura non indica alcun passaggio della sentenza in cui sarebbe stato commesso un errore di interpretazione, per violazione del canone di cui all’art. 1362 cod.civ.
19. Nella sostanza, il ricorrente, piuttosto che dedurre un vizio di violazione dei canoni ermeneutici, si duole della mancata valorizzazione delle premesse del verbale come mezzo di prova e, dunque, dell’attività di valutazione del materiale probatorio, rimessa al giudice del merito. La Corte territoriale, peraltro, ha preso in considerazione le premesse della conciliazione raggiunta ed ha ritenuto che il verbale nel suo complesso non fornisse la prova della riconducibilità della risoluzione del rapporto di lavoro alla sola volontà o condotta datoriale («il verbale di conciliazione si limita a premettere genericamente una riorganizzazione aziendale in Italia e la soppressione della posizione lavorativa del dirigente nonché l’impossibilità di reperire nuove posizioni lavorative, ma…»).
20.Analoghe considerazioni valgono per le ulteriori censure mosse con il motivo, posto che il ricorrente, piuttosto che dedurre un vizio di violazione di legge, contesta l’esito della valutazione degli elementi istruttori compiuto dal collegio giudicante, così devolvendo a questa Corte un non-consentito riesame del merito.
21.Il quarto ed il quinto ed il sesto motivo di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi.
22.La quarta censura -proposta ai sensi dell’articolo 360 n. 3 cod.proc.civ. -addebita alla sentenza impugnata la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 l. 28 giugno 2012 n. 92, in combinato disposto con l’art. 10 l. n. 604/1996, anche alla stregua dell’art. 12 delle disp.prel. cod.civ.
23.Si contesta la interpretazione dell’art. 2 l. n. 92/2012 accolta nella sentenza impugnata, che avrebbe erroneamente negato la spettanza dell’ASpl nelle ipotesi di risoluzione del rapporto di lavoro in sede
sindacale (piuttosto che secondo la procedura di cui all’art. 7 L. n. 604/1996).
24.Con il quinto motivo del ricorso è lamentata -ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod.proc.civ. -la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 cod.proc.civ. e dell’art. 2 l. n. 92/2012, in combinato disposto con l’art. 10 l. n. 604/1996, anche alla stregua degli artt. 3 e 38 Cost.
25.Si assume che a voler accogliere la interpretazione dell’art. 2 l. n. 92/2012 contestata con il quarto motivo si determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento in danno della categoria dei dirigenti, che, non potendo accedere alla risoluzione del rapporto di lavoro ex art. 7 L. n. 604/1966 (per quanto dispone l’art. 10 della stessa legge) non potrebbe fruire del trattamento di disoccupazione nei casi in cui la conciliazione rappresenta una soluzione necessitata.
26.Con la sesta ed ultima censura si denuncia -ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod.proc.civ. -la violazione e/o falsa applicazione art. 112 cod.proc.civ. e della normativa in materia di licenziamenti collettivi di cui alla l. n. 223/1991, a seguito della sentenza della Corte di Giustizia UE 13 febbraio 2014, causa C-596/12.
27.Si censura la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sulla questione posta rispetto alla posizione dell’INPS, che aveva negato la spettanza dell’ASpI sostenendo che la procedura di licenziamento collettivo avviata non trovava applicazione ai dirigenti.
28. La parte ricorrente afferma che la domanda della prestazione avrebbe dovuto essere accolta, poiché alla data di rigetto della domanda amministrativa la Corte di Giustizia aveva già dichiarato l’inadempimento del nostro Stato all’ obbligo di conformazione alla direttiva sui licenziamenti collettivi, per avere escluso dall’ ambito applicativo della l. n. 223/1991 i dirigenti.
29. I tre motivi sono inammissibili, perché non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata.
30.Il diritto dell’odierno ricorrente a percepire la prestazione previdenziale ASpI è stato escluso in quanto «gli elementi di fatto
acquisiti al processo conducono a ritenere in effetti sussistente una volontà bilaterale delle parti di porre fine al rapporto di lavoro, piuttosto che la volontà unilaterale in tal senso della datrice di lavoro…» (pagina 5 della sentenza d’appello).
31.La decisione non è basata sulla interpretazione dell’art. 2 comma 5 l. n. 92/2012 -nel senso che rientrerebbe nella copertura previdenziale soltanto la conciliazione raggiunta nell’ambito della procedura di cui all’art. 7 l. n. 604/1966come il ricorrente sostiene nella quarta e quinta censura né si fonda sul fatto che l’RAGIONE_SOCIALE, in quanto dirigente, fosse estraneo alla procedura di licenziamento collettivo, contrariamente a quanto si argomenta nel sesto motivo.
32.Il ricorrente impropriamente richiama le premesse della parte motiva della sentenza, nella quale il giudice dell’appello si limita a riportare il testo della disposizione di legge ed ad individuarne la ratio , senza alcun riferimento ai fatti di causa.
33.Anzi, il collegio di merito ha valutato la fattispecie in concreto e secondo la ratio della norma e non sulla base del mero dato testuale.
34.Il fatto, poi, che la posizione dell’RAGIONE_SOCIALE non fosse venuta in rilievo nella procedura di licenziamento collettivo è stato richiamato dalla Corte territoriale soltanto per escludere che la procedura potesse ex se provare la riconducibilità dell’accordo conciliativo ad una scelta necessitata.
35.Nell’esprimere il proprio convincimento circa la libera scelta dell’AUTIERO di risolvere il rapporto di lavoro, la Corte territoriale ha valorizzato altri elementi istruttori (la esistenza di ulteriori ragioni del contendere tra le parti, la mancanza di prova della impossibilità di reimpiego, la percezione di un incentivo all’esodo), con ciò compiendo un tipico apprezzamento di merito.
36.Le questioni rispetto alle quali la parte si duole del vizio di omessa pronuncia non riguardano, da ultimo, una autonoma domanda o eccezioni sostanziali ma, piuttosto, argomenti difensivi tesi a corroborare l’unica domanda proposta, che è stata esaminata e respinta.
37.Il ricorso deve essere nel complesso rigettato.
38. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
39. Stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 200 per spese ed € 2.500 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale del 14 novembre 2024