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Discriminazione stranieri bonus: no a residenza lunga

La Corte di Cassazione ha confermato il carattere discriminatorio di due delibere di una Regione che imponevano lunghi periodi di residenza (5 o 10 anni) per l’accesso di cittadini stranieri a un ‘bonus bebè’ e un ‘bonus affitti’. La Corte ha stabilito che tale requisito di residenza prolungata viola il principio di parità di trattamento sancito dalla normativa nazionale ed europea, confermando la decisione della Corte d’Appello che aveva ordinato la rimozione della clausola discriminatoria. Si tratta di un’importante pronuncia sulla discriminazione stranieri bonus.

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Pubblicato il 8 settembre 2025 in Diritto Civile, Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Discriminazione Stranieri Bonus: la Cassazione Boccia il Requisito di Lunga Residenza

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha riaffermato un principio fondamentale in materia di accesso alle prestazioni sociali: il requisito della residenza prolungata non può essere utilizzato per escludere i cittadini stranieri regolarmente soggiornanti. Questo caso di discriminazione stranieri bonus riguarda delibere regionali che subordinavano l’erogazione di aiuti economici per le famiglie e per l’affitto a un lungo periodo di permanenza sul territorio, una pratica giudicata illegittima in quanto viola la parità di trattamento.

I Fatti del Caso

Una Regione italiana aveva istituito due importanti misure di sostegno economico: un ‘bonus affitti’, per aiutare le famiglie a sostenere il costo della locazione, e un ‘bonus bebè regionale’, un contributo una tantum per la nascita di un figlio. L’accesso a questi benefici era però condizionato da requisiti di residenza molto stringenti. Per il bonus affitti, i cittadini di paesi extra UE dovevano dimostrare una residenza di almeno 10 anni sul territorio nazionale o 5 anni in quella Regione. Per il bonus bebè, era richiesta una residenza di almeno 5 anni nella regione per entrambi i genitori.

Alcune associazioni per la tutela dei diritti degli immigrati hanno agito in giudizio, sostenendo che tali requisiti costituissero una forma di discriminazione basata sulla nazionalità. La Corte d’Appello aveva dato loro ragione, dichiarando il carattere discriminatorio delle delibere e ordinando la riapertura dei bandi senza tali requisiti. La Regione ha quindi proposto ricorso in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso della Regione, confermando la sentenza di secondo grado. Gli Ermellini hanno stabilito che i requisiti di residenza prolungata imposti dall’ente pubblico realizzano una discriminazione indiretta, in quanto, pur essendo apparentemente neutri, di fatto penalizzano in modo sproporzionato i cittadini stranieri.

La Corte ha inoltre chiarito che il giudice ordinario ha piena giurisdizione in questi casi, potendo disapplicare gli atti amministrativi illegittimi e ordinare all’amministrazione di rimuovere gli effetti della discriminazione, senza che ciò costituisca un’indebita ingerenza nei poteri della pubblica amministrazione.

Le Motivazioni: la Violazione del Principio di Parità di Trattamento

Le motivazioni della Corte si fondano su un solido quadro normativo nazionale, europeo e internazionale. La decisione ribadisce che il diritto a non essere discriminati è un diritto soggettivo assoluto.

1. Normativa Europea e Costituzionale: La Corte ha richiamato la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (art. 34), la Direttiva 2011/98/UE sulla parità di trattamento per i lavoratori di paesi terzi e la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE. Tali fonti impongono agli Stati membri di garantire parità di trattamento nell’accesso alla sicurezza sociale e all’assistenza sociale. A livello nazionale, il principio è tutelato dagli articoli 2, 3 e 38 della Costituzione.

2. Irrazionalità del Requisito di Lunga Residenza: I giudici hanno sottolineato, citando precedenti della Corte Costituzionale (in particolare la sent. n. 166/2018), che un requisito di residenza di 5 o 10 anni è palesemente irragionevole e sproporzionato. Non esiste una correlazione logica tra la durata della residenza e il soddisfacimento di bisogni primari come l’alloggio o il sostegno alla natalità. Tali benefici sono destinati a chi si trova in una condizione di bisogno attuale, indipendentemente da quanto tempo risieda in un luogo.

3. Illegittimità della Discriminazione Stranieri Bonus: La Corte ha concluso che subordinare l’accesso ai bonus a una lunga residenza si traduce in una discriminazione stranieri bonus vietata dalla legge. Il legislatore può definire criteri per l’accesso alle prestazioni sociali, ma questi devono essere ragionevoli e non possono mai tradursi nell’esclusione di un non cittadino dal godimento di diritti fondamentali legati ai ‘bisogni primari’ della persona.

Le Conclusioni: un Principio Chiaro per le Pubbliche Amministrazioni

Questa ordinanza invia un messaggio inequivocabile a tutte le pubbliche amministrazioni, regionali e locali. I requisiti di residenza non possono essere utilizzati come strumento per limitare l’accesso alle prestazioni assistenziali per i cittadini stranieri legalmente residenti in Italia. La parità di trattamento non è un’opzione, ma un obbligo derivante dalla Costituzione e dal diritto dell’Unione Europea. Le politiche di welfare devono essere inclusive e basarsi sulla condizione di bisogno effettiva delle persone, senza creare barriere fondate sulla nazionalità o sulla durata della permanenza sul territorio. La decisione rafforza la tutela dei diritti fondamentali e promuove una maggiore equità sociale.

Una Regione può richiedere 5 anni di residenza per concedere un ‘bonus bebè’ a cittadini stranieri?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che tale requisito è discriminatorio e contrasta con la disciplina europea, la Costituzione e la legge nazionale, poiché penalizza ingiustamente gli stranieri regolarmente residenti.

È legittimo richiedere a un cittadino extra UE 10 anni di residenza in Italia o 5 nella Regione per accedere a un contributo per l’affitto?
No. Anche in questo caso, la Corte ha ritenuto il requisito irragionevole, sproporzionato e discriminatorio, in quanto non esiste una correlazione logica tra la durata della residenza e il bisogno abitativo primario.

Il giudice ordinario può ordinare a una Regione di modificare un bando pubblico se lo ritiene discriminatorio?
Sì. La Corte ha confermato che il giudice ordinario, nelle cause di discriminazione, ha il potere non solo di ‘disapplicare’ l’atto amministrativo illegittimo, ma anche di ordinare all’ente pubblico di adottare tutte le misure necessarie a rimuovere gli effetti della discriminazione, come la modifica di un bando.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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