Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23381 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23381 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22299/2019 R.G. proposto da : REGIONE LOMBARDIA, elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME NOME (CODICE_FISCALE, COGNOME NOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
APN AVVOCATI PER NIENTE ONLUS, ASGI ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI GIURIDICI SULL’ IMMIGRAZIONE, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE, COGNOME (CODICE_FISCALE
-controricorrenti-
nonchè contro
ASGI ASSOCIAZIONE PER GLI STUDI GIURIDICI SULLIMMIGRAZIONE, COMUNE DI MILANO
-intimati- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO MILANO n. 463/2019 depositata il 14/05/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
causa numero 11 R.G. 22299 del 2019
RITENUTO CHE:
Con sentenza del 14.5.19 la corte d’appello di Milano, in riforma dell’ordinanza 11.3.16 del tribunale di Milano, ha dichiarato il carattere discriminatorio del provvedimento della giunta regionale (delibera regionale n. X/4152 pubblicata sul buRL il 14.10-15, avente ad oggetto misure di sostegno alla famiglia per favorire il benessere e l’inclusione sociale, istitutiva di un contributo economico una tantum per sostenere le famiglie durante la crescita dei bambini nati nel periodo previsto dalla delibera), nella parte in cui prevede per l’accesso alla misura ora detta (c.d. bonus bebè regionale) il requisito di cinque anni di residenza nella regione di entrambi i genitori, ed ha ordinato la riapertura del bando con abolizione del detto requisito.
La corte d’appello ha, invece, confermato la sentenza impugnata nella parte in cui questa aveva ritenuto discriminatoria
la delibera regionale disciplinante il c.d. bonus affitti (delibera X/4145 dell’8.10.15, che, ai fini dell’accesso al contributo sul canone di locazione prevede per i soli cittadini di paesi extra UE il requisito di una regolare attività di lavoro autonomo o subordinato nonché il requisito della residenza da almeno 10 anni nel territorio nazionale o almeno 5 anni in Lombardia).
In particolare, con specifico riferimento al c.d. bonus bebè, la corte territoriale ha ritenuto che il requisito della residenza lunga realizzasse una discriminazione indiretta ed ha riformato la pronuncia di prime cure (che aveva invece qualificato l’emolumento quale intervento straordinario di natura assistenziale, per il quale era legittima l’introduzione di condizioni per l’accesso in relazione ad esigenze di bilancio dell’ente).
Con riferimento al c.d. bonus affitti, la corte territoriale ha affermato che (mentre la delibera impugnata sarebbe stata legittima se avesse seguito altri criteri, ad esempio basati sul reddito complessivo dell’istante) la delibera ha operato una discriminazione diretta sulla base di motivo espressamente vietato.
Avverso la detta sentenza ricorre la Regione Lombardia per cinque motivi, cui resistono RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE è rimasto intimato il Comune di Milano. Le parti costituite hanno presentato memorie.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta ed ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il Collegio, all’esito della camera di consiglio, si è riservato il termine di giorni sessanta per il deposito del provvedimento.
CONSIDERATO CHE:
Il primo motivo di ricorso deduce violazione di varie disposizioni normative per avere la corte territoriale ritenuto la giurisdizione, sebbene la causa fosse stata rappresentata come azione di annullamento e riguardasse questioni inerenti un servizio pubblico.
Il secondo motivo deduce questione di giurisdizione per non essersi la corte limitata a disapplicare ma aver ordinato un facere all’amministrazione, modificando proprie determinazioni ed adottandone ulteriori.
Il terzo motivo deduce violazione di legge per avere la corte territoriale ritenuto che la Regione non potesse introdurre restrizioni all’accesso ai contributi per la famiglia e per non aver considerato la legittimità dell’introduzione del requisito legale del lungo soggiorno in prestazione assistenziali che non erano essenziali.
Il quarto motivo deduce violazione di diverse disposizioni per aver qualificato assistenziali le prestazioni richieste, sebbene fossero misure di sostegno al reddito (come tali passibili di restrizioni nell’accesso).
Il quinto motivo deduce vizio di motivazione per non aver considerato i dati forniti in giudizio, che escludevano la discriminazione anche indiretta.
Le questioni di giurisdizione possono essere esaminate da questa Sezione, alla stregua della ormai consolidata giurisprudenza della Corte in materia. Invero, ai sensi dell’art. 374, comma 1, ultima parte, c.p.c., le sezioni semplici della Corte di cassazione possono conoscere della questione di giurisdizione oggetto del ricorso, non essendo necessaria la sua devoluzione alle Sezioni Unite, quando queste ultime si siano già espresse sulla medesima questione, ancorché non sullo specifico caso, affermando sul punto chiari e precisi principi informatori, suscettibili di rappresentare una guida orientativa per le sezioni semplici (Sez. U , n. 1599 del 19/01/2022 Rv. 663733 – 01 ; Sez. 1, Ordinanza n. 7152 del 17/03/2025, Rv. 674501 – 01).
In argomento, le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Ordinanza n. 7186 del 30/03/2011, Rv. 616794 – 01) hanno
affermato da tempo che, in tema di azione ai sensi dell’art. 44 del T.U. sull’immigrazione (d.lgs. n. 286 del 1998), il legislatore, al fine di garantire parità di trattamento e vietare ingiustificate discriminazioni per “ragioni di razza ed origine etnica”, ha configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell’ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo, restando assicurata una tutela secondo il modulo del diritto soggettivo e con attribuzione al giudice del potere, in relazione alla variabilità del tipo di condotta lesiva e della preesistenza in capo al soggetto di posizioni di diritto soggettivo o di interesse legittimo a determinate prestazioni, di “ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”.
I primi due motivi di ricorso, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati, essendo l’azione antidiscriminatoria prevista dalla legge anche nei confronti delle pubbliche amministrazioni senza i limiti della legge abolitrice del contenzioso.
Come precisato da Sez. U, Ordinanza n. 3670 del 15/02/2011 (Rv. 616573 – 01), l’azione proposta in relazione alla denunziata natura ritorsiva del provvedimento con cui un Comune – dopo l’istituzione di un c.d. “bonus bebè” riservato a famiglie con almeno un genitore italiano, ed a seguito di ordine giudiziale di estensione del beneficio anche alle famiglie composte da genitori stranieri aveva, viceversa, deliberato di revocarlo per tutte le famiglie, sia italiane che straniere, appartiene alla giurisdizione del giudice
ordinario, sia nella fase cautelare rivolta all’ottenimento di un provvedimento anticipatorio urgente, sia nella successiva fase della cognizione piena, così come previsto nell’art. 44 del d.lgs. n. 286 del 1998, in considerazione del quadro normativo costituzionale (art. 3 Cost.), sovranazionale (Direttiva 2000/43/CE) ed interno (art. 3 e 4 del d.lgs. 9 luglio 2003, n. 215 nonché l’art. 44 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286) di riferimento, che configura il diritto a non essere discriminati come un diritto soggettivo assoluto; né la giurisdizione può essere negata ai sensi degli artt. 4 e 5 del r.d. n. 2248 del 1865 all. E, in quanto il giudice ordinario è tenuto alla disapplicazione incidentale del provvedimento emesso in violazione del principio di parità ai fini della tutela dei diritti soggettivi controversi, pur non interferendo nella potestà della P.A..
L’odierna controricorrente ha invero agito in giudizio sull’assunto del carattere discriminatorio delle delibere della Giunta cd. bonus affitti e bonus bebè, per sentirne accertare tale carattere, nonché per ottenere la riapertura dei termini del procedimento di accesso ai bonus e l’adozione di un piano di rimozione volto ad evitare il reiterarsi della discriminazione.
La qualificazione -operata dall’odierno ricorrente -della domanda proposta dalla controparte quale azione di annullamento di atti amministrativi o di domanda volta ad imporre un facere infungibile all’amministrazione o ad imporre servizi sociali a carico dell’amministrazione è dunque priva di pregio e va disattesa, non solo per la ragione processuale che è l’attore che specifica i termini ( petitum e causa petendi ) della propria domanda, ma più a monte per la ragione sostanziale che l’azione contro la discriminazione è strumento di tutela che opera a prescindere dalla qualificazione delle posizioni giuridiche soggettive sottostanti, come precisato dalle Sezioni Unite.
Invero, con l’azione ex art. 44 d.lgs. n. 286 il legislatore ha inteso configurare, a tutela del soggetto potenziale vittima delle
discriminazioni, una specifica posizione di diritto soggettivo qualificabile come «diritto assoluto», in quanto posto a presidio di una area di libertà e potenzialità del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione della stessa (cfr. di recente Cass.Sez.U. Ord. n. 3057 del 2022), a prescindere dalla natura giuridica delle posizioni giuridiche sottese (interesse legittimo/diritto soggettivo), rende conseguentemente irrilevante che la discriminazione denunciata si realizzi nell’ambito di una delle materie che rientrano nell’ambito della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (art. 133 cod.proc.amm.).
20. L’azione contro la discriminazione prevista dall’art. 44 d.lgs. n. 286 del 1998 può essere esperita anche quando il comportamento pregiudizievole sia posto in essere da un ente pubblico mediante l’adozione di un atto amministrativo, potendo in questo caso il giudice ordinario disapplicare l’atto denunziato assumendo i provvedimenti idonei a rimuoverne gli effetti, senza che ciò comporti alcuna interferenza nell’esercizio della potestà amministrativa (Cass. Ord. n. 3842 del 2021).
21. Né sembra fondata la doglianza della ricorrente secondo cui la sentenza impugnata avrebbe illegittimamente inciso sulle sue prerogative amministrative, ordinando la modifica della delibera sul cd. bonus bebè e la riapertura dei termini per la presentazione delle domande.
22. Si tratta, invero, di ordini che declinano in concreto il potere che l’art. 44 conferisce al giudice ordinario di ordinare la «cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione», anche alle pubbliche amministrazioni, e con i quali il giudice non si è sostituito all’amministrazione nell’adozione di alcun atto di sua competenza e non ha perciò violare i consueti limiti esterni che, nel vigente ordinamento, connotano il riparto di attribuzioni tra autorità giudiziaria ordinaria e la pubblica amministrazione.
Nel merito, i motivi di ricorso sono infondati.
Con riguardo al terzo motivo, si osserva preliminarmente che lo stesso si risolve in una critica indistinta alle conclusioni del giudice di merito che non tiene conto delle diversa natura delle prestazioni in questione e delle diverse argomentazioni spese dalla sentenza impugnata nei due casi, specie in ragione del diverso effetto discriminatorio (diretto nel caso del c.d. bonus affitti ed indiretto nel caso del c.d. bonus bebè) delle due delibere impugnate.
Ad ogni modo, distinguendo opportunamente le questioni nelle due diverse fattispecie, va ricordato sul piano normativo che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea prevede all’art. 34, rubricato Sicurezza sociale e assistenza sociale, che:
L’Unione riconosce e rispetta il diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale e ai servizi sociali che assicurano protezione in casi quali la maternità, la malattia, gli infortuni sul lavoro, la dipendenza o la vecchiaia, oltre che in caso di perdita del posto di lavoro, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali.
Ogni persona che risieda o si sposti legalmente all’interno dell’Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali, conformemente al diritto dell’Unione e alle legislazioni e prassi nazionali.
Al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà, l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa volte a garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali.
Per altro verso, l’art. 30 della Carta sociale europea riveduta, promossa dal Consiglio d’Europa, fatta a Strasburgo il 3 maggio 1996, ratificata e resa esecutiva in virtù della legge 9 febbraio
1999, n. 30, prevede poi il diritto alla protezione contro la povertà e l’emarginazione sociale, per rendere effettivo il quale gli Stati si impegnano sia “a prendere misure nell’ambito di un approccio globale e coordinato per promuovere l’effettivo accesso in particolare al lavoro, all’abitazione, alla formazione professionale, all’insegnamento, alla cultura, all’assistenza sociale medica delle persone che si trovano o rischiano di trovarsi in situazioni di emarginazione sociale o di povertà, e delle loro famiglie” sia “a riesaminare queste misure in vista del loro adattamento, se del caso”.
27. L’art. 31 della Carta in particolare per garantire l’effettivo esercizio del diritto all’abitazione impegna gli Stati a prendere misure destinate: 1. a favorire l’accesso ad un’abitazione di livello sufficiente; 2. a prevenire e ridurre lo status di “senza tetto” in vista di eliminarlo gradualmente; 3. a rendere il costo dell’abitazione accessibile alle persone che non dispongono di risorse sufficienti.
28. In ambito eurounitario, la direttiva 2011/98 del 13 dicembre 2011 relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato membro, prevede all’art. 12 che i lavoratori dei paesi terzi di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere b e c, (ossia i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento CE n. 1030/2002, nonché i cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale) beneficiano dello stesso trattamento riservato ai cittadini dello Stato membro in cui
soggiornano per quanto concerne -tra l’altro – i settori della sicurezza sociale definiti nel regolamento CE n. 883/2004, e l’accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e al l’erogazione degli stessi, incluse le procedure per l’ottenimento di un alloggio, conformemente al diritto nazionale, fatta salva la libertà contrattuale conformemente al diritto dell’Unione e al diritto nazionale.
29. Il considerando 20 della direttiva 2011/98, dispone che tutti i cittadini di paesi terzi che soggiornano e lavorano regolarmente negli Stati membri dovrebbero beneficiare quanto meno di uno stesso insieme comune di diritti, basato sulla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro ospitante, a prescindere dal fine iniziale o dal motivo dell’ammissione. Il diritto alla parità di trattamento nei settori specificati dalla presente direttiva dovrebbe essere riconosciuto non solo ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro a fini lavorativi, ma anche a coloro che sono stati ammessi per altri motivi e che hanno ottenuto l’accesso al mercato del lavoro di quello Stato membro in conformità di altre disposizioni del diritto dell’Unione o nazionale, compresi i familiari di un lavoratore di un paese terzo che sono ammessi nello Stato membro in conformità della direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare.
30. L’esclusione della legittimità di discipline differenziate emerge anche dalla giurisprudenza comunitaria, che ha chiarito che il principio di parità di trattamento, in diversi ambiti e con riferimento al settore della sicurezza sociale e alle prestazioni familiari, ha portata generale e le deroghe devono essere intese in senso restrittivo (cfr. ad esempio, di recente, CGUE 19 dicembre 2024, causa C-664/23).
31. In ambito nazionale, chiare indicazioni derivano anche dalla giurisprudenza costituzionale in sede di interpretazione degli art. 2,
3 e 38 Cost. (ed in particolare dalle numerose altre pronunce costituzionali in materia, in ordine all’illegittimità delle norme che stabiliscono requisiti per i soli stranieri ovvero un requisito di residenza).
A livello di legislazione ordinaria, infine, l’art. 41 del t.u.imm. prevede che gli stranieri titolari di carta o permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno sono equiparati ai cittadini italiani ai fini dell’accesso delle provvidenze anche economiche di assistenza sociale.
Ciò posto in linea generale, si esaminano nel dettaglio le singole prestazioni disciplinate dalle delibere regionali impugnate.
Quanto al bonus affitti, specifici ed utili argomenti possono trarsi dalla sentenza costituzionale n. 166 del 2018, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione dell’art. 3 Cost. – l’art. 11, comma 13, del d.l. n. 112 del 2008, conv., con modif., nella legge n. 133 del 2008, che richiedeva -per l’erogazione del contributo integrativo per il sostegno all’accesso alle abitazioni in locazione- i requisiti ulteriori del possesso del certificato storico di residenza da almeno dieci anni nel territorio nazionale ovvero da almeno cinque anni nella medesima Regione ai soli immigrati (cioè ai soli cittadini di Stati non appartenenti all’UE e agli apolidi). Secondo la Corte, la disposizione introduce una irragionevole discriminazione a loro danno, sia perché i termini indicati costituiscono una durata palesemente irragionevole e arbitraria, oltre che non rispettosa dei vincoli europei, sia per l’irrazionalità intrinseca del termine di dieci anni di residenza sul territorio nazionale, che coincide con quello necessario e sufficiente a richiedere la cittadinanza italiana.
Anche il termine di cinque anni nel territorio regionale risulta palesemente irragionevole e sproporzionato, considerato che i fondi
sono stati istituiti anche per favorire la mobilità nel settore della locazione.
Infine, non si può ravvisare alcuna ragionevole correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari della persona che versi in condizioni di povertà e sia insediata nel territorio regionale, e la lunga protrazione nel tempo di tale radicamento territoriale.
In tale contesto normativo, bene hanno fatto i giudici di merito a prendere atto che la norma presupposto della delibera impugnata era stata cancellata dall’ordinamento all’esito del citato intervento costituzionale, sicché risultava privo di giustificazione l’atto amministrativo che alla detta disciplina faceva implicito riferimento.
Né la Regione ha poteri di introdurre autonomamente requisiti ulteriori e diversi da quelli indicati dalla legge, ponendosi in contrasto con il quadro normativo omogeneo sopra delineato.
Può dunque affermarsi che la delibera Regione Lombardia disciplinante il c.d. bonus affitti (delibera X/4145 dell’8.10.15, che, ai fini dell’accesso al contributo sul canone di locazione prevede per i soli cittadini di paesi extra UE il requisito di una regolare attività di lavoro autonomo o subordinato nonché il requisito della residenza da almeno 10 anni nel territorio nazionale o almeno 5 anni in Lombardia) contrasta con la disciplina europea, la Costituzione e la disciplina legale nazionale.
Quanto al c.d. bonus bebè regionale, va ricordata preliminarmente la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) del 2 settembre 2021, causa C-350/20, che ha riguardato il diritto dei cittadini di paesi terzi titolari di un permesso unico di beneficiare delle prestazioni di sicurezza sociale, in particolare l’assegno di natalità e maternità, in base alla Direttiva 2011/98.
La Corte ha stabilito che l’esclusione di tali cittadini da tali benefici, come previsto dalla normativa italiana, è incompatibile con il diritto comunitario.
In dettaglio, la Corte, rispondendo a una domanda pregiudiziale della Corte Costituzionale italiana, ha chiarito che l’articolo 12, paragrafo 1, lettera e) della Direttiva 2011/98, che stabilisce il diritto alla parità di trattamento in materia di sicurezza sociale per i titolari di permesso unico, si applica anche agli assegni di natalità e maternità. Questo significa che i cittadini di paesi terzi che hanno un permesso unico, e che soddisfano i requisiti previsti dalla normativa italiana per tali prestazioni, non possono essere esclusi a causa della loro cittadinanza.
La decisione della CGUE ha quindi confermato che l’Italia deve garantire l’accesso a queste prestazioni anche ai cittadini di paesi terzi titolari di permesso unico, eliminando ogni forma di discriminazione basata sulla nazionalità.
Nella giurisprudenza costituzionale italiana, va poi ricordato che la sentenza n. 54 del 2022, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimi – per violazione degli artt. 3, 31 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 34 CDFUE – l’art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014, nella formulazione antecedente alle modificazioni introdotte dall’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021, e l’art. 74 del d.lgs. n. 151 del 2001, nel testo antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 3, lett. a ), della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui escludono dalla concessione – rispettivamente – dell’assegno di natalità (c.d. “bonus bebè”) e dell’assegno di maternità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e
che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002, il quale istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di Paesi terzi.
45. È stato dichiarato, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, costituzionalmente illegittimo l’art. 1, comma 248, della legge n. 205 del 2017, l’art. 23 – quater , comma 1, del d.l. n. 119 del 2018, come conv., l’art. 1, comma 340, della legge n. 160 del 2019, e l’art. 1, comma 362, della legge n. 178 del 2020, nella formulazione antecedente all’entrata in vigore dell’art. 3, comma 4, della legge n. 238 del 2021, nella parte in cui escludono dalla concessione dell’assegno di natalità (c.d. ‘bonus bebè’) i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del regolamento (CE) n. 1030/2002. Tali previsioni hanno prorogato fino al 31 dicembre 2021 il beneficio di cui all’art. 1, comma 125, della legge n. 190 del 2014 e, pur nella diversa modulazione, ne hanno condizionato l’erogazione al requisito, dichiarato costituzionalmente illegittimo, della titolarità del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
46. Secondo la giurisprudenza costituzionale, ferma restando l’illegittimità del ricorso a criteri discriminatori tipici nella selezione dei beneficiari di prestazioni, il legislatore può individuare altri indici di radicamento territoriale e sociale a cui subordinare l’erogazione in esame, nei limiti imposti dal principio di non discriminazione e di ragionevolezza; il legislatore può legittimamente circoscrivere la platea dei beneficiari delle prestazioni sociali in ragione della limitatezza delle risorse destinate al loro finanziamento, purché rispetti gli obblighi europei, che
esigono la parità di trattamento, e purché la distinzione non si traduca mai nell’esclusione del non cittadino dal godimento dei diritti fondamentali che attengono ai «bisogni primari» della persona, indifferenziabili e indilazionabili, riconosciuti invece ai cittadini.
Ogni norma che imponga distinzioni di varie categorie di persone in ragione della cittadinanza e delle residenza per regolare l’accesso alle prestazioni sociali deve pur sempre rispondere al principio di ragionevolezza, che può ritenersi rispettato solo qualora esista una causa normativa della differenziazione -quale, in astratto, un titolo che dimostri il carattere non episodico o di breve durata della permanenza sul territorio dello Stato -che sia giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui è subordinata l’attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio.
48. In sintesi, le disposizioni censurate ledono il diritto alla parità di trattamento nell’accesso alle prestazioni di sicurezza sociale, tutelato dall’art. 3 della nostra Carta Costituzionale e dall’art. 34 CDFUE in connessione con l’art. 12 della direttiva 2011/98 UE.
Esse infatti, nell’introdurre presupposti reddituali stringenti per il riconoscimento di misure di sostegno alle famiglie più bisognose, istituiscono, per i soli cittadini di Paesi terzi, un sistema irragionevolmente più gravoso, che travalica la pur legittima finalità di accordare i benefici dello stato sociale a coloro che vantino un soggiorno regolare e non episodico sul territorio della nazione.
50. Secondo la Corte costituzionale, invero, tale criterio selettivo nega adeguata tutela a coloro che siano legittimamente presenti sul territorio nazionale e siano tuttavia sprovvisti dei requisiti di reddito prescritti per il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, così pregiudicando proprio i lavoratori che versano in condizioni di bisogno più pressante.
Va dunque esclusa la fondatezza della distinzione proposta dal ricorrente tra prestazioni essenziali, riconoscibili agli stranieri con residenza da almeno un anno, e prestazioni assistenziali, da riservarsi -secondo la prospettazione proposta- ai soli lungo soggiornanti, dovendosi per converso riconoscere il diritto degli stranieri rientranti nella prima categoria sia a prestazioni volte al soddisfacimento di bisogni primari, quale quello abitativo, sia a prestazioni di tipo assistenziale poste a tutela della maternità.
Analoghe indicazioni, infine, vengono dalla giurisprudenza di questa Corte, che ha affermato che al cittadino extracomunitario, privo di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, spetta l’indennità di natalità ex art. 1, comma 125, della l. n. 190 del 2014, a seguito della sentenza n. 54 del 2022 con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della suddetta norma (nella formulazione vigente “ratione temporis” e, dunque, antecedente alle modificazioni introdotte dall’art. 3, comma 4, della l. n. 238 del 2021), nella parte in cui esclude dalla concessione dell’assegno di natalità i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi nello Stato a fini lavorativi a norma del diritto dell’Unione o nazionale e i cittadini di Paesi terzi che sono stati ammessi a fini diversi dall’attività lavorativa a norma del diritto dell’Unione o nazionale, ai quali è consentito lavorare e che sono in possesso di un permesso di soggiorno ai sensi del Regolamento (CE) n. 1030 del 2002′ (Cass. Sez. L, n. 32606/22; v. anche Sez. L, n. 4686 del 2023).
53. In tema, si veda anche la recente sentenza di questa Corte Sez. L, Sentenza n. 12971 del 14.5.2025, che ha dichiarato il carattere discriminatorio della condotta dell’INPS che, nel condizionare il riconoscimento del premio previsto dall’art. 1, comma 353, della legge 11 dicembre 2016, n. 232. al possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo, aveva
introdotto requisiti non previsti dalla legge, legati alla nazionalità, per l’erogazione del premio.
54. Secondo detta pronuncia, l’introduzione di un trattamento differenziato, che si riconnette in via esclusiva al fattore della nazionalità, non è sorretto da giustificazioni ragionevoli e si pone in antitesi con il chiaro e insuperabile precetto della legge nazionale, prima ancora che con le indicazioni vincolanti del diritto dell’Unione europea.
55. Può dunque affermarsi che la delibera della Regione Lombardia n. X/4152 avente ad oggetto misure di sostegno alla famiglia per favorire il benessere e l’inclusione sociale, istitutiva di un contributo economico una tantum per sostenere le famiglie durante la crescita dei bambini nati tra l’8.10.15 ed il 31.10.15 (c.d. bonus bebè regionale), nella parte in cui prevede per l’accesso alla misura ora detta il requisito di cinque anni di residenza nella regione di entrambi i genitori, contrasta con la disciplina europea, la Costituzione e la disciplina legale nazionale.
56. Non può essere accolta nemmeno la doglianza formulata con il quarto motivo di ricorso, fondata su un’interpretazione assai restrittiva della nozione di «prestazioni, anche economiche, di assistenza sociale» che l’art. 41 non autorizza; e che risulta in contrasto con l’incontestata natura «assistenziale» di molteplici prestazioni, cui non si attaglia l’interpretazione restrittiva della nozione propugnata dalla ricorrente.
58. Non va dimenticato, del resto, che la stessa sentenza costituzionale evocata ha ricordato che l’assegno di natalità e l’assegno di maternità assolvono ad una finalità preminente di tutela del minore, che si affianca alla tutela della madre, in armonia con il disegno costituzionale che colloca in un orizzonte comune di speciale adeguata protezione, sia la madre, sia il bambino; dette
prestazioni, dunque, al pari di quella per cui è causa, sovvengono a una peculiare situazione di bisogno, che si riconnette alla nascita o alla crescita di un bambino e che assicurano un nucleo di garanzie che non possono essere equiparati alle provvidenze aggiuntive che occasionalmente, e con diversi presupposti, sono state attribuite dalle norme regionali quale mero sostegno del reddito.
57. E’ infine inammissibile il quinto motivo di ricorso che, seppur formulato con richiamo al n. 5 del primo comma dell’art. 360 cod.proc.civ., non evidenzia l’omesso esame circa un «fatto decisivo» nel senso inteso dalla giurisprudenza della Corte -ossia un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico naturalistico, non assimilabile in alcun modo a questioni o argomentazioni che, se esaminati, avrebbe condotto con certezza o alta probabilità ad un diverso esito del giudizio -ma, appunto, l’asserito omesso esame o l’asserita errata valutazione di una serie di elementi istruttori; e ciò anche alla luce dei principi già affermati da questa Corte, secondo cui la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata» (ex pl. Cass. nn. 17702 del 2015, 13485 del 2014, 16499 del 2009, 21412 del 2006).
58. In via aggiuntiva, si rileva che la corte territoriale ha del resto opportunamente valorizzato i dati relativi alla mobilità territoriale degli stranieri (del tutto diversa da quella dei cittadini) e, per altro
verso, i dati inerenti la diversa residenza dei genitori extracomunitari prima del ricongiungimento, aspetti questi -ognuno dei quali peraltro in sé idoneo a sorreggere la decisione- che non sono stati censurati nel motivo di ricorso, che difetta dunque di decisività.
Ne consegue il rigetto del ricorso.
Spese secondo soccombenza.
Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto, a norma del comma 1 bis dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n.115/02.
p.q.m.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite, che si liquidano in euro 6.000 per compensi professionali ed euro 200 per esborsi, oltre a spese generali al 15% ed accessori come per legge. Dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 28 gennaio 2025.