Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 266 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 1 Num. 266 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 07/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 13016 R.G. anno 2023 proposto da:
NERONI NOME COGNOME NOMECOGNOME , rappresentati e difesi da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE;
ricorrente
contro
RAGIONE_SOCIALE rappresentata e difesa da ll’avvocato COGNOME NOME (BRBMZ40L29A271G);
contro
ricorrente avverso la SENTENZA n. 490/2023 emessa da CORTE D’APPELLO ANCONA il 20/03/2023
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del dal consigliere relatore NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
─ Il Tribunale di Ascoli Piceno, nel decidere sull’opposizione proposta da NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME avverso il decreto ingiuntivo pronunciato nei loro confronti su ricorso di Banca Monte dei Paschi di Siena , l’ha accolta .
2 . ─ In sede di gravame la Corte di appello di Ancona ha riformato la sentenza di primo grado e rigettato la detta opposizione.
─ I COGNOME hanno proposto un ricorso per cassazione articolato in cinque motivi, cui resiste RAGIONE_SOCIALE, procuratrice di RAGIONE_SOCIALE, succeduta all’originaria ingiungente.
E’ stata formulata una proposta di definizione del giudizio a norma dell’art. 380bis c.p.c.. A fronte di essa, il difensore della parte ricorrente ha domandato la decisione della causa. Sono state depositate memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
─ La proposta ha il tenore che segue.
« Il ricorso contiene i cinque motivi.
«Primo motivo. Violazione di norme di diritto, ex art. 360, n. 3 c.p.c., con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell’art. 216 c.p.c. anche in riferimento agli artt. 166 e 167 c.p.c. – Omessa presentazione della istanza di verificazione, sia esplicita che implicita, con preclusione della istanza stessa.
«Secondo motivo. Violazione di norme di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al limite imposto dall’art. 112 e 115 c.p.c. in riferimento agli artt. 166 e 167 c.p.c. ed anche, per quanto possa occorrere, all’art. 36 c.p.c. La Corte di Appello ha reso un giudizio ultra (o extra ) petita non avendo la RAGIONE_SOCIALE per RAGIONE_SOCIALE né la subentrante RAGIONE_SOCIALE, basato la domanda sul preteso riconoscimento di debito, né tantomeno in primo grado svolto domanda riconvenzionale.
«Terzo motivo. Violazione di norme di diritto, ex art. 360, n. 3
c.p.c., per violazione dell’art. 117 TUB, commi 1 e 3, in relazione agli artt. 1325 e 2697 – Omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, n. 5 c.p.c., in riferimento all’art. 117 TUB – Non attendibilità dei saldaconti prodotti.
«Quarto motivo. Nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c. con riferimento all’art. 156, co. II cpc e 132 comma 2 n. 2 c.p.c. Omessa indicazione nella sentenza della RAGIONE_SOCIALE per conto di Banca MPS.
«Quinto motivo. Violazione e falsa applicazione di norma di diritto ex art. 360 n. 3 c.p.c. e omessa decisione art. 360 n. 5 c.p.c., con riferimento agli artt. 91, 92 e 93 c.p.c. -Nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 156 comma II cpc e all’art. 132 co. II n. 2) c.p.c. -Omessa integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Avv. NOME COGNOME e nullità quantomeno della parte relativa alla disposizione nei confronti della citata COGNOME.
«Il ricorso è palesemente inammissibile.
«È palesemente inammissibile il primo mezzo, con cui si denuncia l’errore commesso dalla Corte territoriale nel ritenere l’equivocità del disconoscimento operato dai ricorrenti, opponenti al decreto ingiuntivo, delle fideiussioni fatte valere nei loro confronti.
«È difatti cosa nota che, ai sensi dell’art. 214 c.p.c. il disconoscimento di scrittura privata, pur non richiedendo l’uso di formule sacramentali, postula che la parte contro la quale la scrittura è prodotta in giudizio impugni chiaramente l’autenticità della stessa, nella sua interezza o limitatamente alla sottoscrizione, contestando formalmente tale autenticità, ove egli sia l’autore apparente del documento prodotto, ovvero nel caso di erede o avente causa dall’apparente sottoscrittore, dichiarando di non riconoscere la scrittura o la sottoscrizione di quest’ultimo; l’idoneità delle espressioni utilizzate dalla parte a configurare un valido disconoscimento costituisce giudizio di fatto incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivato (Cass. 20 agosto 2014, n. 18042; Cass. 27 maggio 2016, n. 11048;
Cass. 22 gennaio 2018, n. 1537). In breve, stabilire se una determinata dichiarazione proveniente dalla parte contro cui è prodotta una scrittura abbia o non abbia il carattere del disconoscimento è affare del giudice di merito, il cui giudizio è sottratto al controllo di legittimità, salva la verifica motivazionale, nei limiti in cui essa è oggi consentita.
«Nel caso di specie il motivo neppure denuncia il vizio motivazionale, essendo stato formulato come violazione di legge, peraltro erroneamente, in riferimento al numero 3 dell’articolo 360 c.p.c., versandosi viceversa in ipotesi di eventuale error in procedendo . Il principio dell’insindacabilità della valutazione del giudice di merito in ordine alla univocità del disconoscimento rende di per sé inammissibile il primo mezzo.
«Ma, anche a voler reputare che, indipendentemente dalla formulazione della rubrica, possa essere intravista nella censura una doglianza concernente la motivazione addotta dal giudice di merito, sta di fatto che essa motivazione è ampiamente plausibile, laddove la Corte territoriale ha posto l’accento sulla constatazione dell’insanabile contrasto esistente tra il disconoscimento delle fideiussioni e non della ricognizione di debito che pure alle fideiussioni faceva riferimento, così da pervenire al finale a ccertamento dell’equivocità del disconoscimento in discorso: è difatti evidente, come si accennava, che il controllo motivazionale spettante alla Corte di cassazione attiene esclusivamente all’osservanza del parametro del « minimo costituzionale », in ossequio al principio fissato dalla decisione numero 8053 del 2014 delle Sezioni Unite.
«A fronte di ciò, per di più, i ricorrenti altro non hanno fatto che contrapporre la propria lettura della vicenda a quella contenuta nella decisione impugnata – ‘ Non vi è alcuna situazione di insanabile contrasto tra il disconoscimento operato da un alto e, dall’altro, il documento del 29.11-3.12.2013 che la Corte ritiene essere un riconoscimento di debito e nel quale troverebbero conferma le
fideiussioni sottoscritte ‘ -, il che si colloca al di fuori del controllo di legittimità della Corte di cassazione. Del tutto fuor d’opera, poi, è il riferimento al principio secondo cui la « ricognizione di debito non può poi supplire alla mancata documentazione della pattuizione, soggetta alla forma scritta ad substantiam , da cui tragga origine il detto rapporto », riferimento che tradisce l’evidente fraintendimento della ratio decidendi svolta dalla Corte d’appello, la quale non ha fatto discendere l’accog limento della domanda spiegata in via monitoria, puramente e semplicemente, dalla ricognizione di debito, ma ha valutato il rilievo di essa per i fini della verifica dell’univocità del disconoscimento.
«Il secondo mezzo è assorbito.
«Esso difatti concerne un segmento della motivazione adottata dalla Corte territoriale svolto ad abundantiam .
« Il terzo mezzo è anch’esso è evidentemente inammissibile.
«Si tratta di un mezzo ampiamente cumulato, senza che sia possibile separare la censura di violazione di legge da quella di omessa considerazione di fatto decisivo e controverso. Ciò in manifesta violazione del principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’articolo 360, comma 1, nn. 3, 4 e 5, c.p.c. non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (Cass. 9 maggio 2018, n. 11222, Sez. I; Cass. 7 febbraio 2018, n. 2954, Sez. II; Cass. 20 novembre 2017, n. 27458, Sez. Lav.; Cass. 5 ottobre 2017, n. 23265 Sez. Lav.; Cass. 6 luglio 2017, n. 16657, Sez. III; Cass. 23 giugno 2017, n. 15651,
Sez. III; Cass. 31 marzo 2017, n. 8333, Sez. III; Cass. 31 marzo 2017, n. 8335, Sez. III; Cass. 25 febbraio 2017, n. 4934, Sez. II; Cass. 10 febbraio 2017 n. 3554, Sez. III; Cass. 18 ottobre 2016, n. 21016, Sez. II; Cass. 28 settembre 2016, n. 19133, Sez. Trib.; Cass. 2 marzo 2012, n. 3248, Sez. III; Cass. 23 settembre 2011, n. 19443, Sez. III). Una tale impostazione, che assegna al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente al fine di decidere successivamente su di esse, è inammissibile, perché sovverte i ruoli dei diversi soggetti del processo, e rende il contraddittorio aperto a conclusioni imprevedibili, gravando l’altra parte del compito di farsi interprete congetturale delle ragioni che il giudice potrebbe discrezionalmente enucleare dal conglomerato dell’esposizione avversaria.
« La combinazione del motivo, d’altro canto, è tutt’altro che causale ed anzi intrinsecamente dipendente dalla sua configurazione: giacché esso non ha ad oggetto il significato e la portata applicativa delle norme richiamate in rubrica, ma la concreta applicazione che il giudice di merito ne ha fatto, avuto riguardo al materiale probatorio analizzato. Costituisce difatti nozione elementare che dalla violazione o falsa applicazione di norme di diritto va tenuta nettamente distinta la denuncia dell’erronea ric ognizione della fattispecie concreta in funzione delle risultanze di causa, ricognizione che si colloca al di fuori dell’ambito dell’interpretazione e applicazione della norma di legge. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi -violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta -è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 4 aprile 2013, n.8315; Cass. 16 luglio 2010, n. 16698; Cass. 26 marzo
2010, n. 7394; Cass. Sez. U. 5 maggio 2006, n. 10313). Nella specie il motivo è cioè volto a ribaltare un accertamento di merito eseguito dalla Corte d’appello laddove essa ha motivatamente osservato che « le schede contrattuali, al contrario, riportano specificamente dette condizioni ».
« Quanto alla violazione dell’articolo 2697 c.c., è agevole constatare che esso non è affatto richiamato a proposito. La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi che il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne è gravata secondo le regole dettate da quella norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poiché in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 17 giugno 2013, n. 15107; Cass. 5 settembre 2006, n. 19064; Cass. 14 febbraio 2000, n. 2155; Cass. 2 dicembre 1993, n. 11949). E, nel caso in esame, la Corte d’appello ha ritenuto provata la domanda spiegata in via monitoria sulla base della documentazione prodotta, e cioè non ha deciso la causa sulla base del principio dell ‘onere della prova, e conseguentemente il ribaltamento del riparto degli oneri probatori in cui si compendia la violazione della norma non è neppure astrattamente configurabile.
«Nel corpo del motivo si discorre anche di usura, e si rammenta per di più l’affermazione svolta dal giudice di merito, secondo cui, alla stregua della stessa prospettazione dei COGNOME, si sarebbe trattato in ipotesi di usura sopravvenuta, giuridicamente irrilevante: ed a questa ineccepibile affermazione, riportata in ricorso, nulla di specifico e di comprensibile la censura obietta.
«È inammissibile il quarto mezzo.
«Contrariamente a quanto affermano i ricorrenti, la Corte di a ppello ha evidentemente ritenuto che, a seguito dell’intervento ex
articolo 111 c.p.c., RAGIONE_SOCIALE (quale mandataria di RAGIONE_SOCIALE) subentrata a Banca Monte dei Paschi di Siena S.p.a., la cui mandataria RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE aveva originariamente proposto l’impugnazione. Ma, aldilà di questa considerazione, il punto è che la questione concerne esclusivamente le domande risarcitorie e restitutorie spiegate dai Neroni, che sono state comunque respinte, sicché l’inammissibilità d iscende in ogni caso dalla carenza di interesse. E cioè versandosi in ipotesi di decisione che ha accertato l’esistenza del credito della Banca, ceduto ad RAGIONE_SOCIALE, e con conseguente conferma del decreto ingiuntivo in favore del successore a titolo particolare, nessun rilievo possiede la considerazione nella decisione della cedente RAGIONE_SOCIALE per conto della Banca Monte dei Paschi di Siena.
«Ciò senza dire che la presenza di NOME nel giudizio risulta dall’espositiva della sentenza, pagina 2, sicché l’omissione di cui ricorrenti si dolgono si riduce in fin dei conti ad un mero errore materiale per omissione.
«Palesemente inammissibile è infine il quinto mezzo.
« L’assunto secondo cui il giudice non avrebbe dovuto compensare le spese del giudizio di primo grado perché in quella sede i Neroni avevano vinto è totalmente fuori bersaglio, giacché, come ognun sa, la verifica della soccombenza va fatta in relazione all’e sito finale della lite, completamente sfavorevole agli opponenti a decreto ingiuntivo, tant’è che nemmeno la revoca del decreto ingiuntivo incide di per sé sulla statuizione in punto di spese (a mero titolo di esempio, tra le innumerevoli, Cass. 9 agosto 2022, n. 24482).
«Nella parte concernente il difensore dei COGNOME, infine, la censura è inspiegabile: il giudice di primo grado aveva condannato l’opposto, nel procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo, a pagare le spese al difensore antistatario dei COGNOME; il giudice di appello, viceversa, avendo riformato la statuizione sulle spese, ha condannato lo stesso difensore antistatario a restituire quanto percepito in esecuzione della
sentenza di primo grado. Ciò il giudice d’appello ha fatto richiamando il principio precedentemente affermato da questa Corte secondo cui: ‘ L’avvocato antistatario è legittimato passivo, nel giudizio d’appello, ai fini della ripetizione di quanto versatogli a titolo di spese legali in esecuzione della sentenza impugnata, ma non può essere condannato al pagamento delle spese del suddetto giudizio, in solido con la parte da lui assistita, atteso che non assume la qualità di parte e non può considerarsi tecnicamente soccombente solo in ragione del rigetto delle pretese del suo assistito ‘ (Cass. 24 febbraio 2022, n. 6225), decisione che specificamente chiarisce, a pagina 3, che il difensore antistatario è « tenuto a restituire quanto percepito in virtù della sentenza riformata ». E tale ultima pronuncia non si ferma qui, ma, a scanso di ogni equivoco, precisa ancora quanto segue: ‘ Al proposito vale il principio per cui ‘ In tema di distrazione delle spese ai sensi dell’articolo 93 c.p.c., allorché sia riformata in appello la sentenza, costituente titolo esecutivo, di condanna alle spese in favore del difensore della parte vittoriosa, il soggetto tenuto alla restituzione delle somme pagate a detto titolo è il difensore distrattario, quale parte del rapporto intercorrente tra chi ha ricevuto il pagamento non dovuto e chi lo ha effettuato, il quale ha diritto ad essere indennizzato dell’intera diminuzione patrimoniale subita e cioè alla restituzione della somma corrisposta, con gli interessi dal giorno del pagamento ‘ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8215 del 04/04/2013; Cass. Sez. L, Sentenza n. 1526 del 27/01/2016 ) ‘ .
«Ora, nel motivo in esame si afferma essere ‘ consolidato, l’indirizzo giurisprudenziale (da ultimo, Cass. 14 ottobre 2020 n. 22140) per cui il difensore che abbia chiesto la distrazione delle spese può assumere la qualità di parte, attiva o passiva, nel giudizio di impugnazione quando il gravame investa la pronuncia stessa di distrazione. Nello stesso senso anche la recente Ordinanza 24 febbraio 2022 n. 6225 sempre della Ecc.ma Corte ‘ . E cioè, il motivo richiama un principio, quello concernente i casi in cui il difensore antistatario può
assumere la qualità di parte, che non ha nulla a che vedere con il caso in esame, per poi invocare proprio la decisione già debitamente ricordata dalla Corte d’appello per fargli dire esattamente il contrario di ciò che essa in effetti dice».
Il ricorso è improcedibile ex art. 369, n. 2. c.p.c., essendo mancato il deposito della relata di notifica della sentenza, che si assume notificata il 30 marzo 2022: relata che non è nella disponibilità del giudice di legittimità (cfr. Cass. Sez. U. 2 maggio 2017, n. 10648 e Cass. 29 ottobre 2024, n. 27883), perché non è stata depositata nemmeno dalla parte controricorrente, né risulta tra i documenti oggetto di acquisizione processuale.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
Trovano applicazione le statuizioni di cui all’art. 96, comma 3 e comma 4, c.p.c. , giusta l’art. 380 -bis , comma 3, c.p.c., posto che ai fini delle nominate pronunce va dato atto che i rilievi esposti nella proposta sono comunque condivisibili. I relativi importi possono fissarsi, rispettivamente, nella stessa somma liquidata a titolo di spese giudiziali e in euro 2.500,00.
P.Q.M.
La Corte
dichiara improcedibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in euro 200,00, ed agli accessori di legge; condanna parte ricorrente al pagamento della somma di euro 8.000,00 in favore della parte controricorrente, e di una ulteriore somma di euro 2.500,00 in favore della Cassa delle ammende; ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione