Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25436 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25436 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 16/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 37003/2019 R.G. proposto da
CANTIERE NAVALE DI COGNOME RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata all’indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME nel cui studio in Roma, INDIRIZZO è elettivamente domiciliato;
– controricorrente –
NOME COGNOME
– intimato –
avverso la sentenza non definitiva della Corte d’Appello di Napoli, n. 1374/2018 del 26/3/2018 (riserva di gravame del 28/6/2018) e la sentenza definitiva resa dalla medesima Corte d’Appello n. 4665/2019 del 27/9/2019, depositata il 27/9/2019 e notificata il 14/10/2019;
lette le conclusioni del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’accoglimento del ricorso; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7
maggio 2025 dalla dott.ssa NOME COGNOME.
Rilevato che:
Con ricorso ex art. 702bis cod. proc. civ., NOME COGNOME chiese al Tribunale di Napoli di condannare la società COGNOME RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, sita in Ischia, INDIRIZZO alla restituzione di un’imbarcazione di sua proprietà, che NOME COGNOME in qualità di comodatario, aveva depositato presso il cantiere navale della predetta, rilevando che la società si rifiutava di rendergliela in quanto si reputava creditrice della somma di € 70.000,00, oltre Iva, e quindi titolare del diritto di ritenzione; aggiungeva che il natante si trovava in pessime condizioni di manutenzione e seriamente danneggiato.
Costituitasi in giudizio, la RAGIONE_SOCIALE COGNOME RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, previa chiamata in causa di NOME COGNOME chiese la condanna del predetto e del ricorrente, in solido tra loro, al pagamento della somma di € 70.500,00, oltre Iva, per le prestazioni di cui alla fattura n. 5 del 1/6/2009 e per quanto dovuto per il periodo successivo, sostenendo che nulla le fosse stato pagato per la custodia e il rimessaggio da quando il COGNOME, dicendosi proprietario, le aveva affidato nel 1990 l’imbarcazione e che avesse diritto di ritenzione ai sensi degli artt. 2756 e 2761 cod. civ.
Costituitosi in giudizio, NOME COGNOME eccepì la prescrizione quinquennale del credito e la mancata dimostrazione, da parte della società, dell’attività di manutenzione svolta, affermando che NOME COGNOME avesse assunto l’obbligo di chiedere, a sua cura e spese, la restituzione del natante e di corrispondere alla società quanto dovutole per il rimessaggio.
Con memoria del 29/1/2010, anche NOME COGNOME eccepì a sua volta la prescrizione del vantato credito, chiedendo la condanna della società al risarcimento dei danni provocati al natante.
Il Tribunale, con ordinanza decisoria del 16/4/2010, pronunciò disponendo la separazione del giudizio principale da quello riguardante la domanda riconvenzionale e la reconventio reconventionis , dichiarando la titolarità del natante in capo ad COGNOME NOME e l’illegittimità del rifiuto alla restituzione opposto dalla società, condannando quest’ultima alla restituzione dell’imbarcazione ad COGNOME Luigi e rimettendo la causa in istruttoria per le domande separate, che decise con la sentenza n. 1484/2016, pubblicata il 4/2/2016, con la quale dichiarò l’estromissione di COGNOME NOME dal giudizio, e, accertata la responsabilità della società in relazione all’azione per danni, la condannò al pagamento della somma di € 20.800,00 a titolo di risarcimento, mentre rigettò la domanda riconvenzionale proposta da quest’ultima alla corresponsione della somma di € 70.000,00, condannandola alla rifusione delle spese del giudizio, che compensò invece nei confronti del terzo chiamato.
La COGNOME NOME e NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE propose appello con distinti atti di citazione notificati il 20 aprile 2010 e il 14/5/2016 avverso, rispettivamente, l’ordinanza del 16/4/2010 e la sentenza n. 1484/2016, ribadendo, con il primo, il proprio diritto di ritenzione del bene.
Si costituirono, nel primo giudizio, NOME COGNOME e NOME COGNOME e, nel secondo, il solo NOME COGNOME che propose, a sua volta, appello incidentale sull’errata quantificazione dei danni patiti e chiese la condanna della società al pagamento, a tale titolo, dell’importo di € 111.000,00 o della somma maggiore o minore accertata, eccepì la prescrizione di ogni credito vantato dalla società per il periodo anteriore al quinquennio e chiese il rigetto della domanda proposta dalla medesima.
In seguito alla riunione dei due giudizi, disposta con decreto del 14/3/2017, si costituì anche NOME COGNOME che eccepì la prescrizione del diritto vantato dalla società.
La Corte d’Appello di Napoli definì il giudizio con due distinte sentenze, quella non definitiva n. 1374/2018, pubblicata il 26/3/2018, e quella definitiva n. 4665/2019, pubblicata il 27/9/2019.
Con la prima, accolse sia l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE, accertando il suo diritto al corrispettivo per i servizi di rimessaggio nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME in solido tra loro, sia l’appello incidentale proposto da NOME COGNOME contro la sentenza n. 1484/2016, accertando il suo diritto al risarcimento del danno, nei confronti della società, in relazione al contratto di rimessaggio, mentre rigettò l’appello proposto dalla società contro l’ordinanza decisoria del Tribunale di Napoli del 16/4/2010, disponendo, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio.
In particolare, reputato incontestato che l’imbarcazione fosse stata affidata in rimessaggio alla società, i giudici di merito ritennero che le relative operazioni non si esaurissero nella mera sosta in cantiere o in aree attrezzate, ma comprendessero anche le riparazioni meccaniche e di manutenzione dei motori o di altre parti, trattandosi di contratto misto di deposito e d’opera (o
appalto), con conseguente applicabilità della disciplina ex art. 1218 cod. civ., che il buono stato dell’imbarcazione alla consegna potesse essere presunto, spettando al custode dimostrare deterioramenti o avarie da attribuirsi a circostanze esterne o alla natura del bene, che non fosse necessaria la prova di uno specifico accordo sul punto, essendo sufficiente la mera consegna, che non fosse stata provata dal depositario la preesistenza di danni e che la lunga durata del rimessaggio (18 anni) avrebbe richiesto maggiore cura e attenzione, con conseguente addebitabilità al depositario anche dei danni derivanti dal degrado naturale e da urti e deterioramento.
Quanto alla posizione del proprietario e del comodatario, ritennero che quest’ultimo non potesse dirsi estraneo al rapporto, avendo affidato il bene in custodia alla società, che non rilevasse la scrittura intercorsa tra proprietario e comodatario, che il contratto fosse cessato con la richiesta di restituzione, che per il periodo di ritenzione a titolo di privilegio non spettasse un compenso, ma un risarcimento del danno, che la società non avesse dato prova della misura del compenso, né del danno occorso successivamente all’esercizio del diritto di ritenzione e che, quanto alla prima voce, andasse applicata la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948, primo comma, n. 4, cod. civ., trattandosi di obbligazione di durata o periodica.
Con la seconda, condannò NOME COGNOME e NOME COGNOME, in solido tra loro, al pagamento, nei confronti della società, dell’importo di € 16.950,00, a titolo di corrispettivo per i servizi di rimessaggio, e la società al pagamento, in favore di NOME COGNOME, della somma di € 84.679,00 a titolo di risarcimento del danno in relazione al contratto di rimessaggio, mentre compensò interamente le spese del processo tra tutte le parti.
Contro le predette sentenze, RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati anche con memoria. COGNOME NOME si difende con controricorso. COGNOME NOME è invece rimasto intimato.
La Procura generale ha depositato conclusioni scritte.
Considerato che :
1.1 Con il primo motivo di ricorso si lamenta la violazione e falsa, applicazione degli artt. 2946 e 2948 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e la violazione dell’art. 2948 cod. civ. in relazione all’art. 115 cod. proc. civ., in tema di prescrizione delle somme dovute al depositario cantiere COGNOME; nonché l’omesso esame e l’omessa valutazione di un documento decisivo in relazione all’affermata prescrizione quinquennale, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano affermato che la prescrizione del diritto al compenso decorresse di anno in anno, avesse durata quinquennale e fosse stata interrotta dalla società per la prima volta nei confronti di NOME COGNOME in virtù del disposto di cui all’art. 1310, primo comma, cod. civ., soltanto con la richiesta di pagamento del 6/6/2009, ricevuta da NOME COGNOME il 10/6/2009, e non con quella datata 6/6/2008 e ricevuta dal COGNOME il 7/6/2008.
Ad avviso della ricorrente, i giudici avevano errato sia in quanto il compenso per il contratto di deposito doveva dirsi unitario e dovuto alla cessazione della prestazione, sicché la prescrizione, oltre ad essere decennale e non quinquennale ex art. 2948, primo comma, n. 4, cod. civ., riguardando questa le prestazioni periodiche e di durata (locazione, enfiteusi, abbonamenti per forniture di energia), poteva decorrere solo da questo momento, essendo stato l’importo descritto in fattura parcellizzato solo per facilità di calcolo; sia in
quanto l’atto interruttivo doveva farsi risalire alla missiva del 6/6/2008, con la quale il difensore della società aveva messo in mora il Matarese.
1.2 Il primo motivo è fondato.
L’art. 2948 cod. civ., nell’elencare le fattispecie che si prescrivono in cinque anni, vi comprende altresì ‘ tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi ‘.
Sono, dunque, soggetti al termine di prescrizione quinquennale, ad esempio, i corrispettivi degli affitti o delle locazioni (art. 2948 n. 3 cod. civ), così come gli interessi e tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi (art. 2948 n. 4 cod. civ.), sempre che, come già chiarito da questa Corte, si tratti di prestazioni che costituiscono il corrispettivo della controprestazione resa per i periodi ai quali i singoli pagamenti si riferiscono e che maturano con il decorso del tempo, divenendo esigibili soltanto alle scadenze convenute e giustificandosi sia in quanto il rapporto, continuativo, richiede e consente un accertamento in tempi relativamente brevi dell’avvenuta esecuzione delle singole prestazioni, sia in quanto l’eventuale prescrizione di una singola prestazione non pregiudica il diritto all’adempimento delle rimanenti, per le quali la prescrizione non sia compiuta (quanto al leasing , si veda Cass., Sez. 3, 30/1/2008, n. 2086; quanto a due fattispecie in tema di mutuo, Cass., 30/8/2002 n. 12707; Cass., Sez. 3, 29/1/1999, n. 802).
Qualora, per contro, il corrispettivo contrattuale sia solo apparentemente periodico, nel senso che esso consiste in una prestazione unitaria, che la parte è tenuta ad eseguire per intero, pur se l’esecuzione possa essere frazionata nel tempo (si pensi al prezzo della compravendita, eventualmente pagabile a rate; alla restituzione in più soluzioni della somma mutuata, ecc.), il termine di prescrizione è, viceversa, quello decennale, applicabile in genere
alle azioni contrattuali ed in particolare alle azioni di adempimento o di responsabilità (quanto al leasing , si veda Cass., Sez. 3, 30/1/2008, n. 2086; quanto a due fattispecie in tema di mutuo, Cass., 30/8/2002 n. 12707; Cass., Sez. 3, 29/1/1999, n. 802).
In sostanza, per individuare il termine di prescrizione applicabile occorre avere riguardo alla prestazione concretamente dedotta in giudizio, non alla natura, tipica o atipica, del contratto da cui la prestazione deriva, se non nei limiti in cui tale natura si riverberi sulla prestazione controversa (Cass., Sez. 3, 30/1/2008, n. 2086), dovendo valutarsi il concreto atteggiarsi del rapporto intercorso tra le parti (in tema di lavoro si veda Cass., Sez. L, 19/1/2011, n. 1147).
Orbene, nel contratto di rimessaggio, la prestazione, che consiste nella custodia del bene, ha carattere unitario e continuativo e matura di giorno in giorno, analogamente a quanto accade per il sequestro giudiziario nell’ambito di un procedimento penale o per quello amministrativo (si vedano rispettivamente Cass., Sez. 2, 13/09/2018, n. 22362; Cass., Sez. 6-2, 6/2/2017, n. 3070; Cass., Sez. 2, 19/12/2011, n. 27328; Cass., Sez. U. pen. 24/04/2002, n. 25161, per il primo caso e Cass., Sez. 3, 17/9/2003, n. 13673, per il secondo), con la conseguenza che il termine di prescrizione è quello ordinario decennale, decorrente da ogni singolo giorno, salva naturalmente diversa pattuizione delle parti in ordine alla periodicità nella corresponsione del compenso.
Hanno, dunque, errato i giudici di merito allorché hanno ritenuto applicabile alla specie la prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948, primo comma, n. 4, cod. civ., sostenendo che la prestazione fosse periodica e di durata e che la determinazione del compenso per annualità fosse stata suggerita dalla stessa società nell’indicare la richiesta di pagamento divisa per annualità, senza verificare, in concreto, se il contratto stabiliva una periodicità nella
corresponsione del compenso, giacché soltanto in quest’ultima ipotesi il termine prescrizionale del diritto al compenso sarebbe stato quinquennale, mentre avrebbe dovuto altrimenti applicarsi quello ordinario decennale.
2.1 Con il secondo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2756 e 2761 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di merito escluso il diritto della società alla ritenzione del bene, sostenendo che fosse necessaria la sussistenza, nel credito, dei requisiti della liquidità, certezza ed esigibilità, non dimostrati nella specie. Ad avviso della ricorrente, tale affermazione era, invece, giuridicamente erronea, atteso che gli artt. 2756 e 2761 cod. civ. richiedevano, ai fini della ritenzione, la sola esistenza del credito, senza pretendere anche detti requisiti. Inoltre, i giudici avevano errato anche quando avevano affermato che, mancata la dimostrazione del danno, alla società non spettasse il compenso per il periodo in cui aveva esercitato il diritto alla ritenzione, giacché non avevano considerato che il depositario conserva detto diritto anche durante quel periodo, risolvendosi, altrimenti, il riconoscimento di esso in un pregiudizio per il creditore.
2.2 Il secondo motivo è parimenti fondato.
Il diritto alla ritenzione trova fondamento nel generale principio di autotutela stabilito dall’art. 1460 cod. civ. per effetto del quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, ciascun contraente può rifiutare la sua obbligazione, se l’altro non adempie contemporaneamente la propria.
Il rifiuto di consegnare la cosa oggetto della prestazione può trovare giustificazione anche nell’inadempimento di un altro contratto, purché i due contratti siano tra loro collegati da un nesso di interdipendenza fatto palese dalla comune volontà delle parti, la cui valutazione è rimessa al prudente e insindacabile
apprezzamento del giudice di merito (Cass., Sez. 2, 14/1/1998, n. 271).
Al diritto di ritenzione si accompagna un privilegio, come sancito dall’art. 2761, terzo comma, cod. civ., il quale stabilisce che ‘ I crediti derivanti dal deposito o dal sequestro convenzionale a favore del depositario e del sequestratario hanno parimenti privilegio sulle cose che questi detengono per effetto del deposito o del sequestro ‘, rinviando, nel quarto comma, alle disposizioni anche del terzo comma dell’art. 2756 cod. civ., secondo cui ‘ il creditore può ritenere la cosa soggetta al privilegio, finché non è soddisfatto del suo credito e può venderla secondo le norme stabilite per la vendita del pegno ‘.
Come osservato anche dalla dottrina, il privilegio a favore del creditore per spese di conservazione e miglioramento dei beni mobili, finché questo non sia soddisfatto del suo credito, non è suscettibile di estensione oltre i casi previsti dalla legge e assiste qualsiasi credito nascente dal rapporto, specie i crediti per il compenso dovuto in caso di custodia, per il deposito oneroso e per le spese di conservazione, riparazione e miglioramento della cosa o per i danni da questa prodotti senza colpa del depositario, trovando la sua ratio nella versio in rem e cioè nell’aspettativa di coloro che hanno contribuito all’incremento economico della cosa mobile a ottenere una parte del valore economico della stessa, aspettativa che si concreta nel diritto del creditore di ritenere il bene fino a quando non sia stato soddisfatto del credito nei limiti segnati dall’art. 2749 cod. civ. (Cass., Sez. 3, 15/6/1979, n. 3383).
Costituisce presupposto di tale speciale garanzia il fatto che il bene mobile si trovi ancora nella disponibilità del creditore, senza che sia richiesto il possesso giuridico dello stesso caratterizzato dall’ animus rem sibi habendi o in utendo iure , né una detenzione qualificata, essendo sufficiente una detenzione non qualificata nell’interesse
altrui, assimilabile a quella del precarista (depositario o mandatario) e strumentale rispetto all’espletamento dell’obbligazione di conservare e migliorare il bene (Cass., Sez. 3, 13/11/1979, n. 5905), sicché esso deve ritenersi sussistente finché dura il rapporto materiale di detenzione di detti mobili (Cass., Sez. 3, 6/7/2020, n. 13853; Cass., Sez. 3, 5/4/1991, n. 3546).
In assenza di specificazioni nella norma richiamata, non assume, invece, rilevanza, ai fini dell’operatività dell’istituto, che il credito tutelato sia certo, liquido ed esigibile, atteso che la nozione di credito che dà diritto alla ritenzione comprende anche le legittime ragioni o aspettative di esso, in coerenza con la funzione sua propria di garanzia delle ragioni creditizie di alcune categorie di creditori.
Ciò comporta che i giudici di merito hanno errato allorché, richiamando i principi affermati dalle Sezioni penali di questa Corte in tema di appropriazione indebita, secondo cui il diritto di ritenzione esercitato sul bene altrui non ha efficacia scriminante se il credito che si intende tutelare non è liquido ed esigibile (Cass. Pen., Sez. 2, n. 45992/2007, Rv. 238899; Cass. Pen, Sez. 2, n. 6080/2009, Rv. 243280; Cass. Pen., Sez. 2, 20/9/2019, n. 46670), hanno ritenuto insussistente il diritto alla ritenzione in quanto il credito, non fondato su una convenzione o su un titolo giudiziale, mancava dei criteri per la sua quantificazione, sì da poter essere determinato solo all’esito del processo, non potendo esso essere riconosciuto in caso di credito non certo, illiquido e inesigibile.
I requisiti ravvisati nelle sentenze penali valgono infatti nel solo caso in cui il bene mobile venga trattenuto a compensazione di un proprio credito, ma non anche quando il diritto di ritenzione si accompagni, come nella specie, al privilegio accordato a tutela del proprio diritto, quand’anche da accertare nel suo esatto ammontare, venendo meno, altrimenti, la funzione accessoria della
garanzia rispetto all’esistenza di un credito certo ed esigibile, ancorché non ancora liquidato nel suo preciso ammontare.
Ciò detto e venendo alla seconda questione, ossia quella riferita al compenso spettante nel periodo di esercizio del diritto di ritenzione, i giudici di merito hanno errato allorché hanno ritenuto che il compenso spetti, in tal caso, non a titolo di corrispettivo, ma al più di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale.
Tale osservazione si pone, infatti, in contrasto col principio, già affermato da questa Corte, secondo cui, nel deposito a titolo oneroso, va riconosciuto al depositario il diritto al compenso, anche per il periodo durante il quale esercita il diritto di ritenzione sulle cose depositate, fino a quando non è soddisfatto del suo credito, poiché la pretesa a conseguire il corrispettivo trova giustificazione nella protrazione della prestazione di custodia a favore del depositante, tenuto, altresì, conto del fatto che la sua esclusione per questo periodo urterebbe contro la considerazione che l’esercizio di una facoltà riconosciuta dall’ordinamento a tutela del creditore insoddisfatto non può risolversi in un pregiudizio per il creditore medesimo e che la ritenzione è imposta dall’esigenza di conservare il privilegio sulle cose depositate per i crediti derivanti dal deposito, che presuppone, ai sensi degli artt. 2756 e 2761 cod. civ., la persistenza della detenzione. Consegue che il depositante, per sanare la mora, onde superare il rifiuto di restituzione fondato sull’esercizio del diritto di ritenzione, non può limitarsi ad offrire il pagamento del compenso precedentemente maturato e non corrisposto, ma anche quello relativo al periodo di legittimo esercizio del diritto di ritenzione (Cass., Sez. 3, 16/07/1997, n. 6520; Cass., Sez. 3, 7/4/1987, n. 3362).
3.1 Con il terzo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ., 113, 115 e 116 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e, in
subordine, n. 5, cod. proc. civ.; l’omessa valutazione di un documento decisivo (e del fatto in esso obiettivizzato) e conseguente violazione dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e, in subordine, n. 5 cod. proc. civ.; la violazione dell’art. 111, comma sesto, Cost., perché i giudici di merito avevano ritenuto che il contratto di rimessaggio, privo di forma scritta, ponesse a carico della società obblighi non solo di custodia, ma anche manutentivi finalizzati a preservare l’integrità strutturale e funzionale del natante, ivi comprese le opere necessarie a porre rimedio ai danni derivanti da degrado naturale e a quelli connessi agli urti da spostamento, citando una prassi, in realtà non esistente – come accertato dal c.t.u. -, né riconducibile al notorio, derivante dalla responsabilità ex recepto conseguente alla presa in consegna del bene, dall’obbligo di restituirlo nello stato in cui si trovava -implicante obblighi di facere ben più pregnanti della custodia -, e dalla lunga durata del contratto di rimessaggio – siccome al più elemento presuntivo singolo -.
Ad avviso della ricorrente, detto contratto atipico poteva, invece, al più presentare una struttura minima essenziale, data dalla concessione di uno spazio per la conservazione e custodia del natante e da alcune attività additive di alaggio, di movimentazione all’interno del cantiere e di pulizia, mentre la previsione di eventuali prestazioni aggiuntive di facere , quale la manutenzione ordinaria e straordinaria, avrebbe dovuto essere dimostrata da chi rivendicasse il diritto alla prestazione e si lamentasse della sua mancata esecuzione, sicché sarebbe spettato al giudice individuare le fonti della propria decisione e darne conto in motivazione, ciò che, invece, non era avvenuto, essendo stata resa una motivazione meramente apparente e carente nell’esame della congruità dell’entità del corrispettivo, siccome ancorato alla sola custodia e non anche al ravvisato obbligo di manutenzione.
3.2 Il terzo motivo è fondato.
Il contratto di rimessaggio, che consiste nella predisposizione di un’area di sosta nel quale il bene mobile viene ricoverato e che si distingue dal contratto di ormeggio, è un contratto atipico, reale a effetti obbligatori, che partecipa delle caratteristiche del deposito, dal quale mutua la disciplina, ivi compresa la prescrizione che impone al depositario l’obbligo di custodire il bene e di restituirlo nello stato in cui gli è stato consegnato ex art. 1766 cod. civ. (Cass., Sez. 3, 16/11/1979, n. 5959; Cass., Sez. 3, 12/12/1989, n. 5546; Cass., Sez. 3, 21/10/1994, n. 8657), derivando altrimenti, a carico del depositario, l’obbligo del risarcimento, che si estende a tutte quelle cose che costituiscono la normale attrezzatura del bene (Cass., Sez. 3, 21/6/1993, n. 6866).
Per la conclusione di siffatto contratto non è necessario un espresso accordo in virtù del quale il depositario si impegni formalmente a custodire la cosa, ma sono sufficienti la sola volontaria consegna di essa da parte del depositante e la sua volontaria accettazione da parte del depositario, con inclusione della cosa depositata nella sua sfera di influenza e di controllo (Cass., Sez. 3, 11/06/2008, n. 15490, con specifico riferimento al deposito d’un natante). L’accettazione, poi, d’una cosa mobile in un’area recintata accessibile soltanto ai soggetti autorizzati costituisce ex se assunzione dell’obbligo di custodia, la quale è giust’appunto la causa del deposito: il depositario, infatti, non custodisce per restituire, ma deve restituire perché ha assunto l’obbligo di custodire (Cass., Sez. 3, 13/6/2024, n. 16589; Cass., Sez. 2, 27/06/2023, n. 18277, Rv. 668069-01).
Come osservato da Cass., Sez. 3, 13/6/2024, n. 16589, la consegna della cosa, elemento perfezionativo del contratto reale di deposito, può realizzarsi anche con una ficta traditio , come avviene nel caso in cui il depositario sia costretto a ritenere la cosa a causa
del mancato ritiro da parte dell’avente diritto, situazione questa che impone al proprietario l’obbligo di pagare le spese di custodia fino al ritiro del bene e al depositario, per quanto qui interessa, l’obbligo di custodire (così già Cass., Sez. 3, 27/03/2007, n. 7493, con riferimento all’ipotesi di rimozione di un autoveicolo in divieto di sosta e trasporto al deposito; e, prima ancora, Cass., Sez. 3, 28/04/1976, n. 1518, con riferimento all’ipotesi di mancato ritiro della cosa acquistata da parte del compratore, da questi lasciata presso il venditore), il quale si inserisce nella causa del contratto e ne costituisce l’unica prestazione qualificatrice (Cass. 23/1/1988, n. 430), siccome costituente prestazione principale (Cass., Sez. 3, 19/7/2004, n. 13359).
Diverso da quello appena descritto è, invece, il negozio in cui un soggetto assuma l’obbligo di riparare il bene e di custodirlo verso il corrispettivo fino alla consegna, il quale solo si configura come contratto, oltreché atipico, anche misto, in quanto partecipa della natura del contratto di prestazione d’opera e del contratto di deposito, dal quale ultimo trae, al pari della prima fattispecie negoziale, la disciplina applicabile ai casi di affidamento della res al depositario, giacché colui che viene incaricato della riparazione della cosa assume anche l’obbligo di custodia a pagamento fino alla riconsegna del bene (in questi termini Cass., Sez. 3, 28/10/2009, n. 22803; sul punto anche Cass., Sez. 3, 19/7/2004, n. 13359 in caso di sottrazione della cosa depositata), senza che rilevi l’esiguità del corrispettivo, rimesso all’autonoma valutazione delle parti e idoneo a connotare il contratto come oneroso, non potendo invocarsi l’operatività del regime normativo della locazione di cui all’art. 1571 cod. civ. (Cass., Sez. 3, 28/10/2009, n. 22803; anche Cass., Sez. 3, 19/7/2004, n. 13359; Cass., Sez. 2, 11/1/2018, n. 486 sulla consegna di un’auto per il lavaggio, che era stata rubata
mentre era parcheggiata sul piazzale del gestore di apposito impianto).
In entrambe le ipotesi negoziali opera, peraltro, la presunzione secondo cui la cosa è stata consegnata in buone condizioni, mentre è onere del custode dimostrare che deterioramenti o avarie devono essere attribuite a circostanze esterne o alla natura stessa del bene ex artt. 1590, comma secondo, cod. civ., 1693, u.c., cod. civ., 1787, ultima parte, cod. civ., ciò ovviamente, fino a prova contraria, nel senso che è onere del soggetto chiamato a rispondere dimostrare, se del caso, che la consegna si iscrive in un rapporto a cui è estranea la responsabilità per custodia, per esempio, perché si tratta della mera locazione di spazi: in relazione all’offerta di servizi portuali, come nel contratto di ormeggio (cfr. Cass., Sez. 3, 21/10/1994, n. 8657; Cass., Sez. 3, 2/8/2000, n. 10118; Cass., Sez. 3, 11/6/2008, n. 15490).
Pertanto, il depositario, per liberarsi dall’obbligazione di risarcire il danno derivante dal deterioramento della merce depositata, deve dimostrare l’estraneità di tale deterioramento rispetto al comportamento da lui tenuto nell’esecuzione del contratto ovvero l’imprevedibilità o l’inevitabilità dell’evento medesimo, atteso che primo presupposto della liberazione del contraente inadempiente dalla colpa presunta è la non imputabilità allo stesso della causa dell’inadempimento e che solo dopo che il debitore abbia provato la causa concreta dell’inadempimento si può passare alla valutazione della diligenza da lui prestata (Cass., Sez. 3, 25/10/1974, n. 3147), tenendo conto del fatto che, a norma dell’art. 1774 cod. civ., in mancanza di diversa pattuizione, al ritiro della cosa depositata deve provvedere, a propria cura e proprie spese, il depositante, sicché se egli procrastini ingiustificatamente il ritiro della cosa depositata, il depositario non risponde dei danni derivati
da tale ritardo a lui non imputabile (Cass., Sez. 3, 27/2/1979, n. 1294).
Orbene, se è vero che gli elementi costitutivi del diritto del depositante al risarcimento dei danni subiti dalla cosa depositata durante la custodia consistono nel contratto di deposito, nella presa in consegna del bene da parte del depositario e nei danni che la cosa presenta all’atto della restituzione, di cui il danneggiato deve fornire la prova (Cass., Sez. 3, 11/6/2008 n. 15490), atteso che la mera consegna (con la conseguente sottoposizione alla propria sfera di influenza e di controllo), non accompagnata da manifestazioni di volontà volte a limitare ad escludere la responsabilità ex recepto , determina l’insorgere della responsabilità del depositario, senza necessità di un espresso accordo sulla custodia (Cass., 3, 11/6/2008, n. 15490), e se è vero che il buono stato della cosa consegnata si presume, è anche vero che l’obbligo di restituire la stessa nello stato in cui si trovava non può che restare circoscritto alle prestazioni funzionali alla semplice conservazione della cosa, da intendersi come protezione della stessa dagli eventi dannosi esterni o connessi alla stessa sua natura (ad esempio il riparo dalle intemperie, l’adozione di precauzioni idonee ad evitare che altri danneggino il bene, l’avvio del motore onde evitare che si blocchi), senza estendersi a situazioni inevitabili, quali il naturale deterioramento dovuto al trascorrere del tempo, che si pone al di fuori della sfera di influenza del depositario e che resta causalmente esterno alla prescritta diligenza cui egli è tenuto.
E’ allora errata la sentenza in esame allorché ha posto a carico della società, incaricata della custodia, un dovere di manutenzione e prevenzione tale da ovviare anche al naturale degrado del natante che è rimasto nella disponibilità della stessa per circa diciotto anni.
4.1 Con il quarto motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115 e 116 cod. proc. civ., nonché degli artt. 1218 e 1223 cod. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., e, in subordine, n. 5 cod. proc. civ. e l’omessa applicazione del principio compensatio lucri cum damno , perché i giudici di merito non avevano considerato il fatto che il natante, come accertato dal c.t.u., fosse stato fatto oggetto di interventi di manutenzione mal eseguiti, che non spettava certo al custode rimediare, giacché questo avrebbe creato una situazione di favore per il danneggiato e un ingiustificato arricchimento. Peraltro, dopo venti anni soltanto una manutenzione straordinaria avrebbe impedito il deperimento del natante, la quale però non spettava certo al custode eseguire.
4.2 Il quarto motivo resta assorbito dall’accoglimento del precedente.
In conclusione, dichiarata la fondatezza dei primi tre motivi e l’assorbimento del quarto, il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, che riesaminerà la vicenda alla luce dei principi sopra illustrati e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi tre motivi del ricorso, assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in datata 7 maggio 2025.
Il Presidente NOME COGNOME