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Diritto di recesso socio: quando si perde il diritto?

La Corte di Cassazione ha stabilito che il diritto di recesso del socio è precluso quando, pur non votando la delibera finale di fusione, ha concorso alla realizzazione dell’intera operazione complessa. Nel caso specifico, alcuni soci di una holding in crisi avevano prima approvato atti fondamentali per un piano di salvataggio, come un aumento di capitale, per poi tentare di recedere dopo la delibera di fusione. La Corte ha ritenuto che il loro contributo causale all’operazione complessiva, inscindibile e programmata sin dall’inizio, escludesse la possibilità di esercitare il recesso, qualificando il loro comportamento come contrario a buona fede.

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Diritto di Recesso del Socio: Non Basta Astenersi dal Voto Finale

Il diritto di recesso del socio rappresenta uno strumento fondamentale di tutela delle minoranze, consentendo di uscire dalla compagine sociale a fronte di decisioni che modificano in modo sostanziale l’assetto della società. Tuttavia, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha tracciato un confine netto, chiarendo che questo diritto non può essere esercitato in modo opportunistico da chi, di fatto, ha contribuito a creare i presupposti per quella stessa decisione. Vediamo nel dettaglio la vicenda e i principi affermati dai giudici.

I Fatti di Causa

La controversia nasce da una complessa operazione di integrazione societaria, progettata per salvare un importante gruppo finanziario e assicurativo da una grave crisi. Il piano prevedeva la fusione per incorporazione di diverse società in una società preesistente, con il contestuale ingresso di un nuovo socio di maggioranza, un grande gruppo assicurativo.

Alcune società holding, riconducibili alla famiglia fondatrice del gruppo in crisi, si trovavano in una posizione chiave: erano soci di controllo e i loro rappresentanti sedevano nei consigli di amministrazione delle società coinvolte. Inizialmente, queste holding hanno partecipato attivamente alla definizione del piano di salvataggio, arrivando a votare favorevolmente in assemblea un aumento di capitale riservato al nuovo socio, un passo cruciale e indispensabile per l’intera operazione.

Tuttavia, al momento della deliberazione finale sulla fusione, le stesse holding si sono astenute dal voto e, subito dopo, hanno comunicato la loro volontà di esercitare il diritto di recesso, chiedendo la liquidazione delle proprie azioni. La società incorporante si è opposta, sostenendo che il loro comportamento pregresso le privasse di tale diritto.

Il Diritto di Recesso Socio e l’Interpretazione del ‘Concorso’

Il fulcro della questione giuridica ruota attorno all’interpretazione dell’art. 2437 del Codice Civile, che riconosce il diritto di recesso ai “soci che non hanno concorso alle deliberazioni” riguardanti, tra le altre cose, la fusione.

La difesa delle holding sosteneva una lettura formale della norma: non avendo votato a favore della delibera di fusione, non avevano “concorso” e, pertanto, avevano pieno diritto di recedere.

La Corte di Cassazione ha respinto questa interpretazione, adottando una visione sostanziale e teleologica. I giudici hanno chiarito che il concetto di “concorso” non può essere limitato al mero atto puntuale del voto espresso durante l’assemblea finale. Quando la delibera è solo l’atto conclusivo di un’operazione più complessa e articolata, composta da una serie di passaggi tra loro inscindibili, per valutare il “concorso” del socio bisogna guardare al suo comportamento nell’intera vicenda.

L’Operazione Complessa e il Nesso Causale

Secondo la Corte, il piano di salvataggio e la successiva fusione costituivano un’unica, complessa operazione economica, programmata fin dall’inizio e conosciuta da tutti i soci. In questo contesto, l’aumento di capitale, votato favorevolmente dalle holding, non era un atto isolato, ma un presupposto necessario e un passaggio fondamentale senza il quale la fusione non si sarebbe mai potuta realizzare. Di conseguenza, votando a favore di quell’atto prodromico, le holding hanno fornito un contributo causale decisivo al risultato finale. Hanno, in sostanza, “concorso” all’intera operazione.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte ha fondato la sua decisione su un’analisi approfondita del termine “concorso”, evidenziando come esso, nel linguaggio del codice civile, si riferisca al concetto di “cagionare”. Le attività propedeutiche, se essenziali e inscindibilmente legate alla delibera finale, costituiscono un apporto causale decisivo. Pertanto, il socio che le ha poste in essere non può affermare di non aver “concorso” alla decisione finale.

I giudici hanno sottolineato che un’interpretazione meramente formale porterebbe a risultati irragionevoli e contrari al principio di buona fede e correttezza (artt. 1175 e 1375 c.c.). Consentire il recesso a un socio che prima ha attivamente promosso e reso possibile un’operazione per poi, alla fine, dissociarsene per incassarne i benefici, violerebbe il divieto di venire contra factum proprium (agire in contraddizione con il proprio comportamento precedente).

Inoltre, la Corte ha valorizzato il fatto che i rappresentanti delle holding recedenti erano gli stessi amministratori che, nei rispettivi ruoli, avevano promosso e approvato i vari passaggi del piano di integrazione. Scindere il loro comportamento come amministratori da quello come soci sarebbe stato, secondo i giudici, un artificio formale.

Le Conclusioni

Questa sentenza stabilisce un principio di grande importanza pratica per il diritto societario. Il diritto di recesso del socio non è uno strumento a disposizione di chi agisce in modo contraddittorio o opportunistico. In presenza di operazioni complesse, la valutazione del “concorso” del socio deve estendersi a tutti gli atti, anche precedenti alla delibera finale, che si pongono in un rapporto di inscindibile presupposto causale con essa. La decisione rafforza i principi di correttezza e buona fede nei rapporti societari, richiedendo coerenza di comportamento ai soci, specialmente a quelli che, per il loro ruolo, sono in grado di influenzare le decisioni strategiche della società. Un socio che contribuisce a costruire un percorso non può, all’ultimo miglio, pretendere di abbandonarlo chiedendo la liquidazione del proprio investimento.

Un socio che non partecipa al voto finale sulla fusione può sempre esercitare il diritto di recesso?
No. Secondo la Corte di Cassazione, non può esercitare il diritto di recesso se, pur essendo assente o astenuto al voto finale, ha precedentemente compiuto atti che costituiscono un contributo causale decisivo e indispensabile per la realizzazione dell’intera operazione, come votare a favore di un aumento di capitale propedeutico alla fusione stessa.

Cosa intende la Cassazione per “concorso” del socio a una deliberazione?
La Corte intende il “concorso” in senso ampio e sostanziale, non limitato al solo voto finale. Comprende qualsiasi comportamento o atto, anche preparatorio, che sia essenziale e inscindibilmente legato alla delibera finale, tanto da costituirne un presupposto causale. In pratica, significa “aver contribuito a cagionare” il risultato finale.

Il voto favorevole a un atto preparatorio, come un aumento di capitale, può impedire il successivo diritto di recesso dalla fusione?
Sì. Se l’aumento di capitale e la fusione sono parte di un’unica operazione complessa e inscindibile, conosciuta dal socio, il voto favorevole al primo atto è considerato un “concorso” all’intera operazione. Questo comportamento preclude la possibilità di esercitare il diritto di recesso dalla delibera di fusione, che è l’atto conclusivo di quel medesimo piano.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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