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Diritto di difesa in procedimenti disciplinari

La Corte di Cassazione ha annullato una condanna per diffamazione a carico di due professionisti, i quali avevano utilizzato espressioni forti nelle loro memorie difensive nell’ambito di un procedimento disciplinare. La Corte ha stabilito che, affinché si configuri la diffamazione, è necessaria la prova della diffusione di tali scritti all’esterno del procedimento. Inoltre, ha ribadito la centralità della valutazione del legittimo esercizio del diritto di difesa come causa di giustificazione, che il giudice di merito aveva omesso di considerare.

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Pubblicato il 3 novembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Diritto di Difesa e Diffamazione: i Confini nelle Sedi Disciplinari

L’esercizio del diritto di difesa all’interno di un procedimento disciplinare può talvolta sfociare in accuse di diffamazione. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione (n. 5277/2024) offre chiarimenti cruciali su dove si trovi il confine, stabilendo due principi fondamentali: la necessità di provare la diffusione esterna delle dichiarazioni offensive e la corretta valutazione dell’esimente del diritto di difesa.

I Fatti del Contendere: La controversia tra professionisti

La vicenda nasce da un esposto presentato da un commercialista al proprio Ordine professionale nei confronti di due colleghi. Questi ultimi, nel redigere le proprie memorie difensive per il procedimento disciplinare, utilizzavano espressioni che l’esponente riteneva lesive della sua reputazione. Di conseguenza, il commercialista avviava una causa civile per diffamazione, chiedendo il risarcimento dei danni.

In primo grado, il Giudice di Pace condannava i due professionisti al pagamento di 5.000 euro ciascuno, basando la sua decisione principalmente su testimonianze de relato (per sentito dire). In appello, il Tribunale confermava la condanna, pur scartando le testimonianze inaffidabili. Tuttavia, il giudice di secondo grado riteneva che le espressioni utilizzate negli scritti difensivi avessero, di per sé, causato un danno alla reputazione sociale e professionale del collega, giustificando così il risarcimento.

L’Appello in Cassazione e il Diritto di Difesa

I due professionisti soccombenti ricorrevano in Cassazione, articolando la loro difesa su tre motivi principali. I più rilevanti sono il primo e il terzo, entrambi accolti dalla Suprema Corte.

Il Primo Motivo: La Mancata Prova della Diffusione

I ricorrenti sostenevano che il Tribunale avesse errato nel dare per scontato il danno alla reputazione. Le memorie difensive erano state prodotte all’interno di un procedimento disciplinare, un contesto per sua natura riservato. La parte lesa non aveva mai allegato, né tanto meno provato, che il contenuto di tali memorie fosse stato divulgato all’esterno. Senza comunicazione a terzi, non può esistere diffamazione, poiché manca l’elemento oggettivo della diffusione dell’offesa.

Il Terzo Motivo: L’Esimente del Diritto di Difesa

Il punto cardine del ricorso riguardava la violazione delle norme che tutelano il diritto di difesa (art. 51 c.p. e 598 c.p.). I ricorrenti argomentavano che le loro affermazioni, per quanto aspre, costituivano una reazione legittima e proporzionata alle gravissime accuse mosse nei loro confronti nell’esposto iniziale. Il Tribunale, secondo loro, aveva completamente omesso di valutare se la loro condotta rientrasse nell’alveo della legittima difesa, un’esimente che avrebbe reso il fatto non punibile.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, cassando la sentenza d’appello. La motivazione della Corte si fonda su due pilastri.

In primo luogo, i giudici hanno affermato che il Tribunale ha errato nel presumere una ‘lesione generalizzata dell’onore’ senza alcuna prova. Affinché si configuri un danno da diffamazione, è indispensabile l’accertamento della diffusione esterna delle notizie denigratorie. La semplice formulazione di una linea difensiva all’interno di un procedimento riservato non è sufficiente, in assenza di prove che tali contenuti siano stati portati a conoscenza di altri al di fuori di quella sede. Manca, in sostanza, l’elemento oggettivo della diffamazione.

In secondo luogo, e in modo ancora più incisivo, la Corte ha censurato la mancata analisi dell’esimente del diritto di difesa. Il giudice di merito avrebbe dovuto verificare se le dichiarazioni dei ricorrenti rientrassero nei limiti dell’esercizio del loro diritto a difendersi dalle accuse mosse dal collega. Questa valutazione è preliminare e fondamentale. Le offese contenute in scritti e discorsi pronunciati dinanzi alle autorità giudiziarie o amministrative (come un consiglio di disciplina) sono coperte da una speciale causa di non punibilità, a condizione che riguardino l’oggetto della causa e siano pertinenti alla difesa. Il Tribunale non ha compiuto questa verifica, venendo meno a un suo preciso dovere.

Le Conclusioni

Questa ordinanza ribadisce un principio di garanzia fondamentale: non tutto ciò che viene detto o scritto in un contesto processuale o para-processuale può essere automaticamente qualificato come diffamazione. La decisione ha importanti implicazioni pratiche:

1. Onere della Prova: Chi si ritiene diffamato da atti depositati in un procedimento deve provare che il loro contenuto è stato diffuso all’esterno, raggiungendo una pluralità di persone.
2. Centralità del Diritto di Difesa: I giudici devono sempre valutare se le espressioni offensive siano state utilizzate nell’ambito del legittimo esercizio del diritto di difesa, tenendo conto del contesto e della proporzionalità rispetto alle accuse ricevute.
3. Tutela delle Sedi Riservate: Viene rafforzata la natura riservata dei procedimenti disciplinari, in cui le parti devono poter esporre le proprie ragioni senza il timore automatico di incorrere in una condanna per diffamazione, a patto di non eccedere i limiti della continenza e della pertinenza.

Le affermazioni fatte in una memoria difensiva per un procedimento disciplinare possono essere considerate diffamatorie?
Possono esserlo solo se viene provato che tali affermazioni sono state diffuse all’esterno del procedimento stesso. La Cassazione ha chiarito che non si può presumere un danno alla reputazione se le dichiarazioni restano confinate in un contesto riservato come quello disciplinare.

Esiste un limite al diritto di difesa quando si risponde a un esposto disciplinare?
Sì. Secondo la Corte, il diritto di difesa giustifica le affermazioni fatte per respingere le accuse, ma questo diritto deve essere esercitato entro i limiti della pertinenza e della continenza. Il giudice deve verificare se le dichiarazioni difensive rientrano in questo legittimo esercizio.

Cosa deve provare chi si sente diffamato da scritti presentati in un procedimento?
Deve provare l’elemento oggettivo della diffamazione, ovvero che le dichiarazioni offensive siano state comunicate a più persone al di fuori del procedimento. La mera presentazione di uno scritto a un organo disciplinare non è, di per sé, sufficiente a dimostrare la diffusione esterna e il conseguente danno alla reputazione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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