Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 5645 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 5645 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 03/03/2025
Oggetto
Responsabilità civile generale – Diffamazione a mezzo stampa
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24374/2023 R.G. proposto da NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOMEp.e.c. indicata: EMAIL;
-ricorrente –
contro
Azienda Sanitaria dell’ Alto Adige, rappresentata e difesa dagli Avv.ti NOME COGNOME (p.e.c.: avvEMAIL) e NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL), con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL);
-controricorrente –
nonché contro
Du Bist Tirol –RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli Avv.ti NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL e NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL;
-controricorrente –
nonché contro
Die RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dagli Avv.ti NOME COGNOME (p.e.c.: EMAIL) e NOME COGNOME (pecEMAIL;
-controricorrente –
e contro
COGNOME Thomas, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE Società Iniziative Editoriali, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE;
-intimati – avverso la sentenza della Corte d’appello di Tr ento, Sezione Distaccata di Bolzano, n. 137/2023, pubblicata il 6 ottobre 2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 9 gennaio 2025
dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME convenne in giudizio, nel 2017, davanti al Tribunale di Bolzano, l’ Azienda sanitaria della provincia autonoma di Bolzano, il dott. NOME COGNOME RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE AtesinaRAGIONE_SOCIALE e Du Bist Tirol -Genossenschaft chiedendone la condanna, in solido, al risarcimento del
danno alla propria reputazione derivante da articoli e comunicazioni pubblicate dall’Azienda sanitaria e dal dott. COGNOME ripresi dai media di proprietà degli altri convenuti, che lo indicavano come antivaccinista e propalatore di notizie false.
Instò inoltre perché fosse ordinata la cancellazione di tutte le pubblicazioni ed al dott. NOME COGNOME di pubblicare un articolo di rettifica sul sito web dell’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige e chiese, altresì, la condanna degli altri convenuti proprietari dei media che avevano ripreso quelle dichiarazioni al pagamento di una sanzione amministrativa oltre che alla pubblicazione della sentenza.
L’antefatto era rappresentato da alcune dichiarazioni rese dallo COGNOME nel corso di un’intervista trasmessa il 20 settembre 2017 nella trasmissione ” Tagesschau ” su Rai Südtirol: in tale occasione lo COGNOME aveva affermato che una bambina di nove anni, dopo essere stata vaccinata, era stata trasportata con l’elicottero a Verona a causa di paralisi e gravi difetti fisici. Successivamente, l’azienda sanitaria e il dott. NOME COGNOME avevano pubblicato articoli e comunicazioni, affermando che le sue dichiarazioni erano false. Questi articoli erano stati ripresi dai media convenuti, in termini che COGNOME riteneva diffamatorie e lesivi della sua reputazione e del suo onore.
Con sentenza n. 205 del 2021 il Tribunale rigettò la domanda, condannando l’attore al pagamento delle spese processuali in favore dei convenuti.
Ritenne, infatti, che le dichiarazioni dell’azienda sanitaria e del dott. COGNOME così come gli articoli pubblicati dai media, rientrassero nel legittimo esercizio del diritto di critica e di cronaca: le espressioni utilizzate, sebbene critiche e talvolta forti, rappresentavano una legittima risposta alle affermazioni dello COGNOME. Valorizzò in tal senso il contesto in cui questo aveva fatto le sue dichiarazioni, costituito da una serata informativa organizzata da scettici e obiettori vaccinali. Considerò che le sue dichiarazioni suggerivano un nesso causale tra la
vaccinazione e la malattia della bambina, il che era stato smentito. Non vi era, infatti, alcuna prova che la bambina fosse stata trasportata a Verona con l’elicottero a causa della vaccinazione, mentre i referti medici indicavano che i primi sintomi della malattia si erano manifestati molto tempo dopo la vaccinazione, escludendo un nesso causale diretto. Osservò che la libertà di opinione dello Holzer non era stata limitata dalle pubblicazioni denunciate e che, quando si denunciano circostanze non corrispondenti alla realtà, bisogna accettare le reazioni critiche degli altri.
Con sentenza n. 137/2023, resa pubblica il 6 ottobre 2023, la Corte d’appello di Tr ento, Sezione Distaccata di Bolzano, ha rigettato il gravame interposto dallo COGNOME confermando integralmente la decisione del Tribunale e condannando l’appellante alle spese del grado.
Ha infatti pienamente condiviso le valutazioni espresse dal primo giudice, ritenendo che le dichiarazioni dello COGNOME fossero infondate e che le reazioni critiche dell’azienda sanitaria e dei media fossero legittime e non diffamatorie.
Al riguardo ha anzitutto e ripetutamente evidenziato che la verità presunta delle affermazioni fatte da COGNOME nella menzionata intervista costituiva tema del tutto irrilevante, dal momento che si trattava di stabilire non se lo COGNOME al momento dell’intervista fosse convinto o meno della verità della notizia, bensì se l’affermazione dei convenuti che quelle dichiarazioni erano scorrette ledesse il suo onore e la sua reputazione (v. sentenza, pagg. 68, 70).
Ha quindi rilevato, conformemente al primo giudice, che:
─ le dichiarazioni dello COGNOME contenevano effettivamente riferimenti fattuali non corrispondenti alla realtà;
─ in particolare, l ‘affermazione secondo cui il quarto giorno (inteso , in modo inequivocabile, come il quarto successivo alla vaccinazione) la bambina era stata trasportata nell’ospedale di Verona con l’elicottero
era priva di fondamento, poiché secondo il referto dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Integrata di Verona e dell’Ospedale di Bolzano i primi sintomi della malattia si erano manifestati il 4 settembre 2017, mentre la vaccinazione era stata somministrata l’11 agosto (pag. 73);
─ l a definizione dello COGNOME come antivaccinista non può considerarsi idonea a ledere il suo onore e ad influenzare negativamente l’opinione pubblica su di lui , dal momento che lui stesso si presenta come « padre impegnato e cittadino bene informato … contro i vaccini che nascondono rischi chimici e biologici »;
─ i l termine « antivaccinista » definisce l’atteggiamento critico dell’appellante che si presenta in pubblico e in diversi media come persona scettica sugli effetti dei vaccini e non deve affatto essere interpretato in modo negativo, poiché esprime semplicemente un atteggiamento di rifiuto rispetto alle vaccinazioni, non contiene alcuna valutazione e non vi si riconosce alcun tono recondito spregiativo (pag. 78);
─ n egli articoli pubblicati non si riconosce alcuna aggressione personale, piuttosto una presa di posizione critica (pag. 79);
─ d alle letture integrali degli articoli in questione e dalla valutazione globale degli stessi emerge chiaramente che l’azienda sanitaria dell’Alto Adige con le pubblicazioni ha semplicemente preso posizione rispetto al presunto nesso causale ventilato da NOME COGNOME tra vaccinazione e malattia di un bambino nella zona di Merano; la pubblicazione riguarda un argomento indubbiamente di interesse pubblico e si pone criticamente rispetto alle dichiarazioni dello COGNOME; i termini ‘ fake news ‘, ‘terrore psicologico’ riferiti alla campagna degli antivaccinisti non contengono nessuna denigrazione della persona di COGNOME l’azienda svolge piuttosto una legittima critica in relazione alle teorie degli antivaccinisti nell’ambito del diritto tutelato dall’art. 21 della Costituzione (pagg. 82-83);
─ è stato rispettato il criterio della verità e l’uso dei termini è rimasto circoscritto nell’ambito di un esercizio corretto della cronaca, anche se talvolta caratterizzato da espressioni critiche e in parte anche forti e da riferimenti satirici.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME propone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
Vi resistono, con distinti controricorsi, l’Azienda Sanitaria dell’Alto Adige, la RAGIONE_SOCIALE e la RAGIONE_SOCIALE
Gli altri intimati non svolgono difese nella presente sede.
È stata fissata per la trattazione l’odierna adunanza camerale ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., con decreto del quale è stata data rituale comunicazione alle parti.
Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.
Il ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per mancanza di chiarezza e sinteticità, opposta nel proprio controricorso dalla Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano.
Va in proposito ribadito che il ricorso per cassazione deve essere redatto in conformità ai principi di chiarezza e sinteticità espositiva, occorrendo che il ricorrente selezioni i profili di fatto e di diritto della vicenda sub iudice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c.; tuttavia l’inosservanza di tali doveri può condurre ad una declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione soltanto quando si risolva in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa o
pregiudichi l’intelligibilità delle censure mosse alla sentenza gravata, così violando i requisiti di contenuto-forma stabiliti dai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c. (Cass. Sez. U n. 37552 del 30/11/2021, Rv. 662971, cui si conforma l’arresto di Cass. n. 4300 del 13/02/2023, Rv. 666743, richiamato nel controricorso).
Nel caso di specie, analogamente a quanto accaduto nel caso considerato nel primo dei precedenti citati, il testo complessivo del ricorso, benché caratterizzato da una eccessiva e non necessaria lunghezza e da una certa farraginosità dell’esposizione, consente di comprendere lo svolgimento della vicenda processuale e di individuare con chiarezza le censure rivolte alla sentenza impugnata.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 21 Cost., art. 2059 c.c., nonché degli artt. 51, 185 e 595 c.p., per avere la Corte d’appello erroneamente escluso il diritto al risarcimento del danno del ricorrente, ritenendo scorrettamente che sussista l’esimente del diritto di cronaca o di critica e pertanto escludendo la configurabilità del reato di cui all’art. 595 c.p. ».
Contesta la ritenuta sussistenza dell’esimente del diritto di cronaca e di critica, rilevando:
─ quanto al requisito della pertinenza, che egli non è un personaggio di rilievo pubblico e le sue dichiarazioni erano state rilasciate in qualità di privato cittadino;
─ quanto alla continenza, che gli articoli utilizzano espressioni offensive e denigratorie come ‘antivaccinista’, ‘autoproclamato esperto’, ‘guru’, e accuse di diffondere ‘ fake news ‘ e praticare ‘terrorismo psicologico’: termini non proporzionati e funzionali alla informazione, ma costituenti un’aggressione verbale;
─ quanto al requisito della verità, che egli non aveva mai affermato che la malattia della bambina fosse causata dal vaccino; le sue
dichiarazioni sono state manipolate e riportate in modo incompleto; peraltro, le consulenze tecniche non escludono con certezza un nesso causale tra il vaccino e la malattia della bambina.
Rileva che la notizia della denuncia penale nei suoi confronti per procurato allarme è stata riportata con aggiunte e commenti che facevano apparire vera la notitia criminis , violando i limiti della verità e continenza.
Afferma che erroneamente la Corte ha ritenuto che il termine ‘antivaccinista’ non fosse denigratorio, avendo esso in realtà una chiara accezione negativa, trattandosi, comunque, di una definizione non corrispondente alla verità, essendosi egli sempre definito scettico nei confronti dei vaccini, ma non un antivaccinista.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., nonché art. 118 disp. att. c.p.c. e art. 111 Cost. per omessa pronuncia e omessa motivazione su alcune domande e alcuni capi di domande del ricorrente; violazione e falsa applicazione dell’art. 17 del Regolamento (UE) n. 2016 /679; violazione e falsa applicazione dell’art. 2055 c.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 8 Legge n. 47 /1948; violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del Testo unico dei doveri del giornalista del 27.01.2016 ».
Lamenta che la Corte d’appello abbia ritenuto superflua la trattazione degli ulteriori motivi di appello (relativi alle riproposte domande di cancellazione delle pubblicazioni, condanna solidale dei convenuti, ordine di rettifica ai sensi dell’art. 8 l. n. 47 del 1948, condanna dei convenuti per violazione degli obblighi prescritti dal Testo unico dei doveri del giornalista) presupponendo erroneamente che essi richiedessero il riconoscimento dei fatti che soddisfano la fattispecie di cui all’art. 595 c.p..
Con il terzo motivo lo COGNOME deduce, con riferimento all’art. 360,
primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost., nonché degli artt. 115, 116, 187, 188 e 189 c.p.c. per la mancata assunzione di prove richieste ».
Sostiene che l’assunzione delle prove testimoniali e l’espletamento della C.T.U. sarebbero stati fondamentali per comprendere meglio il contesto delle proprie dichiarazioni, il loro significato e la loro portata.
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia, infine, con riferimento all’art. 360, primo comma, num. 3, cod. proc. civ., « violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in materia di ripartizione delle spese ».
Sostiene che la decisione della Corte d’Appello sulle spese processuali è errata sia perché l’appello avrebbe dovuto essere accolto, sia perché, comunque, le questioni trattate avrebbero dovuto consigliare la loro compensazione, sia infine per l’importo sproporzionato delle stesse.
Il primo motivo è inammissibile.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, comma primo, num. 4, cod. proc. civ., deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. nn. 16132 del 2005, 26048 del 2005, 20145 del 2005, 1108 del 2006, 10043 del 2006, 20100 del 2006, 21245 del 2006, 14752 del
2007, 3010 del 2012 e 16038 del 2013).
In altri termini, non è il punto d’arrivo della decisione di fatto che determina l’esistenza del vizio di cui all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., ma l’impostazione giuridica che, espressamente o implicitamente, abbia seguito il giudice di merito nel selezionare le norme applicabili alla fattispecie e nell’interpretarle.
Nella specie le doglianze svolte, lungi dal far emergere una erronea qualificazione giuridica della fattispecie concreta così come accertata in sentenza, impingono esclusivamente nella ricognizione della stessa, sindacabile solo sul piano della motivazione, nei limiti del vizio rilevante ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ.: censura nella specie non proposta e che comunque avrebbe dovuto anch’essa a sua volta dirsi inammissibile per la preclusione che deriva – ai sensi dell’art. 348ter , ultimo comma, cod. proc. civ. – dall’avere la Corte d’appello deciso in modo conforme alla sentenza di primo grado (c.d. doppia conforme), non avendo assolto l’onere in tal caso su di essi gravante di indicare le ragioni di fatto della decisione di primo grado ed in cosa queste si differenziavano da quelle poste a fondamento della decisione di appello (v. Cass. 28/02/2023, n. 5947; 15/03/2022, n. 8320; 6/08/2019, n. 20994; n. 22/12/2016, n. 26774).
Varrà in tal senso rammentare che, secondo orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, in tema di azione di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo della stampa, la ricostruzione storica dei fatti, la valutazione del contenuto degli scritti, l’apprezzamento in concreto delle espressioni usate come lesive dell’altrui reputazione, la valutazione dell’esistenza o meno dell’esimente dell’esercizio dei diritti di cronaca e di critica costituiscono oggetto di accertamenti in fatto, riservati al giudice di merito ed insindacabili in sede di legittimità se sorretti da argomentata
motivazione; pertanto, il controllo affidato alla Corte di cassazione è limitato alla verifica dell’avvenuto esame, da parte del giudice del merito, della sussistenza dei requisiti della continenza, della veridicità dei fatti narrati e dell’interesse pubblico alla diffusione delle notizie, nonché al sindacato della congruità della motivazione nei limiti in cui esso è consentito dalla previsione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., applicabile ratione temporis , restando estraneo al giudizio di legittimità l’accertamento relativo alla capacità diffamatoria delle espressioni in contestazione (v. ex plurimis Cass. 23/06/2021, n. 17965, in motivazione, § 7; Cass. 28/02/2019 n. 5811; v. anche Cass. 14/03/2018, n. 6133; 27/07/2015, n. 15759; 30/05/2017, n. 13520; 21/05/2014, n. 11268; 10/01/2012, n. 80; 18/10/2005, n. 20138).
7. Il secondo motivo è inammissibile.
In disparte l’inammissibilità derivante, già di per sé, dalla prospettazione, con riferimento al medesimo unitario discorso argomentativo (v. Cass. 17/05/2023, n. 13542; 11/04/2018, n. 8915; Sez. U. 10/07/2017, n. 16990; Sez. U, 6/05/2015, n. 9100; Cass. 23/04/2013, n. 9793; 12/09/2012, n. 15242; 23/09/2011, n. 19443) di due eterogenei e incompatibili vizi cassatori ─ da un lato error in iudicando per violazione di norme sostanziali di vario contenuto, dall’altro error in procedendo per omessa pronuncia su motivi d’appello ─, è dirimente, rispetto ad entrambe le prospettive censorie, il rilievo che il ricorrente omette di precisare, in alcun modo, se e in che termini egli aveva proposto i motivi d’appello che lamenta non essere stati esaminati o non adeguatamente trattati, né tanto meno precisa, come necessario, se tali motivi erano stati mantenuti nel giudizio di appello fino al momento della precisazione delle conclusioni (Cass. n. 5087 del 3/03/2010, Rv. 611679; n. 41205 del 22/12/2021, Rv. 663494).
L ‘esistenza di tali motivi, e il loro mantenimento anche in sede di precisazione delle conclusioni, non può per implicito ritenersi desumibile dalla sola conclusiva affermazione, leggibile in sentenza a
pag. 84, secondo cui « è quindi superflua anche la trattazione degli ulteriori motivi di appello che presuppongono il riconoscimento dei fatti che soddisfano la fattispecie di cui all’art. 595 c.p. », non essendo dato ricavare da essa, né da alc un’altra parte della sentenza , quali fossero tali altri motivi d’appello ritenuti assorbiti.
Senza dire che, quand’anche diversamente potesse opinarsi sul punto, questa stessa affermazione varrebbe di per sé a rappresentare pronuncia (benché di mero assorbimento) sui detti motivi e dunque ad escludere il denunciato error in procedendo ex art. 112 cod. proc. civ..
Il difetto di specificità e autosufficienza del motivo rimane poi ostativo nell’altra indicata prospettiva censoria dell’ error in iudicando , dal momento che non si ricava dalla sentenza alcuna affermazione da cui desumere le violazioni di legge denunciate.
I temi indicati non risultano tra quelli devoluti alla Corte d’appello; era dunque onere del ricorrente precisare se e in che termini era stato rispetto ad essi proposto specifico motivo di gravame: onere questo in alcun modo assolto.
Per completezza varrà comunque rilevare che:
─ il carattere lecito della pubblicazione esclude che il ricorrente potesse pretendere la sua cancellazione, se non dopo il decorso di un significativo lasso di tempo dai fatti cui la notizia è riferita, tale per cui potesse considerarsi ormai venuto meno l’interesse pubblico all’informazione, per essersi « ormai spenta la memoria collettiva » (cfr. Cass. Sez. U. 22/07/2019, n. 19681, Rv. 654836): presupposto nella specie certamente non predicabile data la prossimità temporale della vicenda cui le pubblicazioni in questione si riferiscono;
─ non si vede , infine, né è spiegato in ricorso, come con l’accertamento del carattere lecito delle pubblicazioni possa considerarsi compatibile l’affermazione di una responsabilità solidale dei convenuti ex art. 2055 cod. civ. che ovviamente presuppone l’accertamento di un obbligo risarcitorio a carico di diversi soggetti, sia
pure sulla base di titoli diversi.
Il terzo motivo è altresì inammissibile.
Il provvedimento reso sulle richieste istruttorie è, in astratto, censurabile, o per inosservanza di norme processuali o per vizio di motivazione, ma in tale secondo caso solo nei ristretti limiti nei quali è oggi deducibile secondo il ristretto paradigma di cui all’art. 360, comma primo, num. 5, cod. proc. civ..
Non può, in via di principio, essere posto in dubbio il rilievo che il diritto alla prova assume quale strumento di un effettivo esercizio del diritto di agire e difendersi in giudizio attraverso un giusto processo (artt. 24 e 111 Cost.; art. 6, § 1, CEDU) di guisa che la sua violazione, ove per l’appunto si risolva in violazione anche di tali diritti -fine, è certamente censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 4, cod. proc. civ..
Una tale violazione è, però, configurabile allorquando il giudice del merito rilevi decadenze o preclusioni insussistenti (cfr. Cass. 5/03/1977, n. 910) ovvero affermi tout court l’inammissibilità del mezzo di prova richiesto per motivi che prescindano da una valutazione, di merito, della sua rilevanza in rapporto al tema controverso ed al compendio delle altre prove richieste o già acquisite.
Ove invece ci si muova in tale seconda prospettiva, ancorché la decisione del giudice di merito si risolva pur sempre nel rifiuto di ammettere il mezzo di prova richiesto, non viene in rilievo una regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore ma piuttosto -come è stato rilevato -« il potere (del giudice) di operare nel processo scelte discrezionali, che, pur non essendo certamente libere nel fine, lasciano tuttavia al giudice stesso ampio margine nel valutare se e quale attività possa o debba essere svolta » (Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077).
In tal caso, « la decisione si riferisce, certo, ad un’attività processuale, ma è intrinsecamente ed inscindibilmente intrecciata con
una valutazione complessiva dei dati già acquisiti in causa ed, in definitiva, della sostanza stessa della lite. Il che spiega perché siffatte scelte siano riservate in via esclusiva al giudice di merito e perché, quindi, pur traducendosi anch’esse in un’attività processuale, esse siano suscettibili di essere portate all’attenzione della Corte di cassazione solo per eventuali vizi della motivazione che le ha giustificate, senza che a detta Corte sia consentito sostituirsi al giudice di merito nel compierle » (Cass. Sez. U. n. 8077 del 2012, cit.).
La mancata ammissione della prova pone, dunque, in tale ipotesi, solo un problema di coerenza e completezza della ricostruzione del fatto in rapporto agli elementi probatori offerti dalle parti e può pertanto essere denunciata in sede di legittimità (solo) per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini della decisione (Cass. n. 20693 del 2015; n. 66 del 2015; n. 5377 del 2011; n. 4369 del 1999).
Nel caso di specie si verte, evidentemente, in questa seconda ipotesi.
Ciò inevitabilmente attribuisce alla doglianza rilievo censorio non riconducibile al paradigma di cui al num. 4 dell’art. 360 cod. proc. civ. ma a quello di cui al num. 5 e la sottopone ai relativi limiti di deducibilità.
In tale prospettiva, invero, la censura si risolve (al di là della erronea indicazione in rubrica di un error in iudicando) nella prospettazione di una mera quaestio facti , ovvero di un difetto di ricognizione della fattispecie concreta.
Essa, però, si appalesa in tale direzione inammissibile per la preclusione che alla prospettazione di un siffatto vizio deriva, come già detto, ai sensi dell’art. 348 -ter , quinto comma, cod. proc. civ. dall’essere la decisione impugnata confermativa sul punto della decisione di primo grado (c.d. doppia conforme).
Il quarto motivo è inammissibile.
Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui esula dal sindacato di legittimità e rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione della opportunità della compensazione, totale o parziale, delle spese processuali, essendo la statuizione sulle spese adottata dal giudice di merito sindacabile in sede di legittimità nei soli casi di violazione del divieto, posto dall’art. 91 cod. proc. civ., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa -ipotesi nella specie non ricorrente -o nel caso di compensazione delle spese stesse fra le parti adottata con motivazione illogica o erronea (Cass. Sez. U. n. 14989 del 15/07/2005; Cass. n. 3272 del 7/03/2001 e successive numerose conformi).
Risulta altresì insindacabile la concreta quantificazione delle spese se rientrante tra il minimo e il massimo degli importi tariffari in relazione allo scaglione di riferimento, il che nella specie non è neppure contestato.
La memoria che, come detto, è stata depositata dal ricorrente, ai sensi dell’art. 380 -bis.1 , primo comma, cod. proc. civ., reitera le tesi censorie già esposte in ricorso e non offre argomenti che possano indurre a diverso esito dell’esposto vaglio dei motivi .
Del tutto eccentrico e privo di alcun valore argomentativo si appalesa il riferimento, in essa, alla legge 21 febbraio 2024, n. 15 (Delega al Governo per l’integrazione delle norme nazionali di recepimento della direttiva (UE) 2016/343 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali).
Il ricorso deve essere in definitiva dichiarato inammissibile.
Alla soccombenza segue la condanna del ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il
versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna il ricorrente alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese processuali, liquidate, per ciascuno, in Euro 4.500 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per i rispettivi ricorsi, ove dovuto, a norma dell’art. 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza