Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 19091 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 19091 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6106/2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del procuratore speciale, e NOME COGNOME entrambi rappresentati e difesi dagli avv.ti NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME, con domicilio digitale ex lege ;
– ricorrenti –
contro
NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv.ssa NOME COGNOME con domicilio digitale ex lege ;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3912/2022 della CORTE D’APPELLO DI MILANO depositata in data 12/12/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/5/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
ritenuto che:
con sentenza resa in data 12/12/2022, la Corte d’appello di Milano, in accoglimento per quanto di ragione dell’appello incidentale proposto NOME COGNOME e in parziale riforma della decisione di primo grado, ha condannato NOME COGNOME e la RAGIONE_SOCIALE s.p.aRAGIONE_SOCIALE al risarcimento, in favore della COGNOME, dei danni da quest’ultima subiti per la lesione del proprio onore e della propria reputazione, nonché per l’uso illegittimo della propria immagine, verificatisi in conseguenza della diffusione televisiva, per mezzo delle strutture della RAGIONE_SOCIALE, di un servizio condotto dal Pelazza avente ad oggetto taluni fatti in relazione ai quali la COGNOME era stata sottoposta a un procedimento penale ad esito del quale la stessa era stata definitivamente assolta;
a fondamento della decisione assunta, la Corte territoriale, dopo aver confermato il carattere diffamatorio del servizio condotto dal COGNOME (per difetto del requisito della verità, anche putativa, dei fatti infamanti ascritti alla COGNOME), nonché la lesione del diritto all’immagine della stessa COGNOME (non avendo quest’ultima prestato il proprio consenso alla relativa diffusione), ha proceduto alla rideterminazione quantitativa del danno effettivamente subito dalla COGNOME, individuandolo nella complessiva somma di euro 23.000,00 per la diffamazione e di euro 1.000,00 per l’uso illegittimo dell’immagine;
avverso la sentenza d’appello, la RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi d’impugnazione;
NOME COGNOME resiste con controricorso;
tutte le parti hanno depositato memoria; considerato che:
con il primo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 51 c.p., degli artt. 2043 e 2059 c.c. e dell’art. 21 Cost. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.), per avere la Corte territoriale erroneamente applicato il limite della verità previsto in tema di diritto di cronaca anziché quello, più ampio, operante in tema di diritto di critica, avuto riguardo alla specifica natura del servizio televisivo sottoposto ad esame e al concreto svolgimento dei fatti in esso riportati;
secondo i ricorrenti, infatti, la critica, quale espressione di opinione meramente soggettiva, ha per sua natura carattere congetturale e non può, per definizione, pretendersi rigorosamente obiettiva e asettica; e se, nel caso di specie, doveva ritenersi vero il nucleo dei fatti da cui il servizio aveva preso le mosse, il limite della verità, nella giusta dimensione da considerare, non poteva ritenersi violato;
il motivo è infondato;
osserva il Collegio come, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte, in tema di responsabilità civile per diffamazione, il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti stessi; al fine di riconoscere efficacia esimente all’esercizio di tale diritto, tuttavia, occorre che i fatti presupposti e indicati ad oggetto della critica corrispondano a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui provengono o per altre circostanze soggettive (cfr. Sez. 3, ordinanza n. 21892 del 21/7/2023, Rv. 668592 -01; Sez. 3, ordinanza n. 25420 del 26/10/2017, Rv. 646634 -03; Sez. 3, sentenza n. 7847 del 6/4/2011, Rv. 617513);
in particolare, in tema di responsabilità aquiliana da diffamazione a mezzo stampa, il significato di verità oggettiva della notizia va inteso
in un duplice senso, potendo tale espressione essere intesa non solo come verità del fatto oggetto della notizia, ma anche come verità della notizia come fatto in sé, e quindi indipendente dalla verità del suo contenuto; in quest’ultima ipotesi, peraltro, occorre che tale propalazione costituisca di per sé un ‘fatto’ così rilevante nella vita pubblica che la stampa verrebbe certamente meno al suo compito informativo se lo tacesse, fermo restando che il cronista ha inoltre il dovere di mettere bene in evidenza che la verità non si estende al contenuto del racconto e di riferire le fonti per le doverose e conseguenti assunzioni di responsabilità; questi doveri, inoltre, debbono essere adempiuti dal cronista contestualmente alla comunicazione, in modo da garantire la fedeltà dell’informazione che, nella specie, consiste nella rappresentazione al lettore o all ‘ ascoltatore della esatta percezione che egli ha avuto del fatto (v. Sez. 3, sentenza n. 1205 del 19/1/2007, Rv. 595637 – 01);
inoltre, con riguardo al tema del bilanciamento tra l’interesse individuale alla reputazione e quello alla libera manifestazione del pensiero, ferma restando la distinzione tra l’esercizio del diritto di critica (con cui si manifesta la propria opinione, la quale non può pertanto pretendersi assolutamente obiettiva e può essere esternata anche con l’uso di un linguaggio colorito e pungente, purché non leda l ‘ integrità morale del soggetto) e di quello di cronaca (che può essere esercitato purché sussista la continenza dei fatti narrati, intesa in senso sostanziale -per cui i fatti debbono corrispondere alla verità, sia pure non assoluta, ma soggettiva – e formale, con l ‘ esposizione dei fatti in modo misurato, ovvero contenuta negli spazi strettamente necessari), qualora la narrazione di determinati fatti sia esposta insieme alle opinioni dell’autore dello scritto, in modo da costituire nel contempo esercizio di cronaca e di critica, la valutazione della continenza non può
essere condotta sulla base dei soli criteri indicati, richiedendosi, invece, un bilanciamento tra l’interesse individuale alla reputazione e quello alla libera manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita; siffatto bilanciamento è ravvisabile nella pertinenza della critica di cui si tratta all’interesse pubblico, cioè nell’interesse dell’opinione pubblica alla conoscenza non del fatto oggetto di critica, che è presupposto dalla stessa e, quindi, fuori di essa, ma dell’interpretazione di quel fatto, interesse che costituisce, assieme alla correttezza formale (continenza), requisito per la invocabilità dell’esimente dell’esercizio del diritto di critica (cfr. Sez. 3, sentenza n. 17172 del 6/8/2007, Rv. 598659 – 01);
nel caso oggetto dell’odierno giudizio, il nucleo dei fatti dal quale il servizio televisivo in esame aveva preso le mosse era costituito dalle vicende in relazione alle quali la COGNOME era stata sottoposta al procedimento penale richiamato nel servizio del Pelazza (abusivo accesso ad archivi informatici altrui, violazione della privacy , etc.): procedimento penale che, al momento delle riprese contenute nel servizio, non era ancora concluso, sì che doveva ritenersi noto (e ben conosciuto dagli stessi odierni istanti) che l’attribuzione dei fatti penalmente rilevanti alla COGNOME (ossia gli abusivi accessi agli archivi informatici altrui oggetto dell’accusa) non aveva ancora ricevuto alcuna conferma in sede dibattimentale;
in breve, l’esercizio del diritto di critica del COGNOME sarebbe stato pienamente rispettoso del criterio della verità, nonché dello stesso criterio di bilanciamento riferito all’interesse pubblico alla propalazione della critica, là dove non fosse stato messo comunque in discussione (o, in ogni caso, fosse stato messo bene in chiaro) che le accuse mosse nei confronti della COGNOME costituivano ancora delle mere ipotesi accusatorie non definitivamente suffragate dal vaglio dibattimentale;
ferme queste premesse, varrà evidenziare come la Corte territoriale – dopo aver riconosciuto la riconducibilità della fattispecie concreta in esame all’ambito della ‘critica’ giornalistica – abbia espressamente sottolineato che «riguardo alla fattispecie odierna, si osserva che, nel servizio, COGNOME si rivolge insistentemente alla COGNOME, riferendosi ai fatti di accesso abusivo a sistema informatico, intercettazione illecita di comunicazioni e violazione di corrispondenza, oggetto dei tre capi di imputazione contestati a NOME COGNOME, NOME COGNOME e alla COGNOME stessa. L’intervista si svolge con modalità incalzanti dalle quali si lascia evincere la colpevolezza della COGNOME. L’utilizzo di espressioni quali ‘ Prima si fa gli affari degli altri, entra nelle e-mail, guarda, monitora… ‘, ‘ Tanti giornalisti, no? per avere un’esclusiva devono avere gli informatori, le fonti, è ovvio che se invece tu della fonte utilizzi direttamente l’accesso della e-mail della persona della quale vuoi sapere le informazioni, è più facile no? ‘ (pronunciate a fine servizio ‘ a chiosa ‘ del reportage sulle vicende) unitamente alle modalità di svolgimento dell’intervista e al titolo sono tutti tesi a imputare alla COGNOME una specifica condotta (quella di essere effettivamente entrata nelle e-mail di soggetti terzi), circostanza ritenuta non provata e non direttamente riferibile a NOME COGNOME e che comunque costituiva allora una mera ipotesi investigativa, ancora da sottoporre al vaglio del giudice penale; ebbene, proprio per queste ragioni, come osserva correttamente il primo giudice, non può ricorrere l’ipotesi della verità, nemmeno sotto forma di verità putativa, atteso che si presenta ‘un soggetto come effettivo realizzatore di un’attività illecita’, sulla base di ipotesi investigative non ancora accertate nel momento della presentazione del servizio al pubblico. La trasmissione avrebbe dovuto circostanziare la notizia, specificando al telespettatore che quanto imputato alla COGNOME non costituiva fatto
certo, ma era oggetto di indagini; il servizio peraltro non si limita a imputare all’attrice l’ingresso nelle mail di terzi, ma si spinge a insinuare, screditandone la professionalità agli occhi del pubblico, che l’intervistata utilizzi tali mezzi abusivi per procacciarsi il materiale utile al suo lavoro (‘ Tanti giornalisti, no? per avere un’esclusiva devono avere gli informatori, le fonti, è ovvio che se invece tu della fonte utilizzi direttamente l’accesso della e-mail della persona della quale vuoi sapere le informazioni, è più facile no? ‘). A dispetto di ciò, la corrispondenza sms della COGNOME mostra che tali informazioni non sono mai state divulgate, come peraltro confermato dal giudice penale nella sentenza assolutoria; infatti, pur essendo documentata ‘una fitta corrispondenza sms intercorsa tra NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME‘, il giudice rileva che ‘COGNOME e COGNOME…si sono limitati a commentarne privatamente il contenuto’.» (pagg. 11-12 della sentenza impugnata);
diversamente da quanto sostenuto dagli odierni ricorrenti, dunque, il giudice d’appello ha riconosciuto la particolarità dei criteri che fondano la verifica del criterio della verità (putativa) dei fatti narrati, e in particolare il più ampio margine riconoscibile in favore della critica rispetto alla mera narrazione di fatti, purché sia rispettata la verità (putativa) del nucleo essenziale dei fatti su cui la critica si espone;
e tuttavia, proprio in relazione alla verità (putativa) del nucleo essenziale dei fatti su cui la critica veniva esposta (ossia la circostanza che la COGNOME fosse sottoposta a un procedimento penale ancora in corso sui fatti narrati), la Corte territoriale ha escluso che detta verità fosse stata rispettata, poiché il COGNOME si era spinto ad attribuire con certezza la commissione dei fatti alla COGNOME; e ciò, sulla base della valutazione concreta dei fatti, così come in concreto ricostruiti sulla base delle prove;
ciò posto, la censura in esame deve ritenersi radicalmente infondata, poiché i ricorrenti intendono in questa sede sostenere un’interpretazione largamente riduttiva (quando non errata) del ‘nucleo essenziale dei fatti’ la cui verità dev’essere comunque rispettata anche nell’esercizio del diritto di critica;
infatti, i ricorrenti intendono tale ‘nucleo essenziale di fatti’ come nella specie riferito a singoli fatti incontestati (il possesso di foto di personaggi famosi, la comune discussione via chat tra gli imputati di tali foto, etc.), di per sé privi di alcuno specifico disvalore morale o sociale (ma per i ricorrenti sufficienti a muovere l’argomentazione critica propalata nel servizio televisivo); mentre il nucleo essenziale dei fatti proprio del servizio televisivo (ossia il nucleo dei fatti su cui la critica del servizio si era soffermata) riguardava propriamente il carattere abusivo degli accessi degli imputati agli archivi informatici altrui e, quindi, lo specifico disvalore della condotta della COGNOME (e dunque il relativo intrinseco disvalore morale e sociale rivelato dal procedimento penale in corso); condotta socialmente e moralmente disprezzabile che, propriamente, il servizio poneva a oggetto della critica, senza però mettere bene in chiaro che si trattava di ipotesi investigative non confermate in sede processuale;
da tanto deriva l’infondatezza del motivo in esame, avendo la Corte territoriale correttamente rilevato il carattere diffamatorio del servizio televisivo del Pelazza, in considerazione dell’avvenuta violazione del criterio della verità dei fatti;
con il secondo motivo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 51 c.p., degli artt. 2043 e 2059 c.c. e dell’art. 21 Cost. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.), per avere la Corte territoriale erroneamente applicato il limite della c.d.
continenza o forma espositiva previsto in tema di diritto di cronaca anziché quello, più ampio, operante in tema di diritto di critica;
il motivo è inammissibile;
varrà al riguardo, osservare come, una volta escluso il rispetto del criterio della verità (putativa) dei fatti (così come argomentato in corrispondenza alla decisione del primo motivo), diviene del tutto irrilevante la verifica del rispetto del criterio della continenza espositiva, rimanendo fermo il carattere comunque diffamatorio della condotta degli odierni istanti;
ne deriva il conseguente integrale assorbimento della rilevanza del vaglio della censura in esame;
con il terzo motivo, i ricorrenti si dolgono della nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.), per avere la Corte territoriale omesso di pronunciarsi sul secondo motivo d’appello proposto dagli odierni istanti in relazione all’applicazione dell’art. 97 della legge sul diritto d’autore, nella parte in cui consente l’uso dell’immagine altrui in assenza del relativo consenso;
il motivo è infondato;
osserva il Collegio come la Corte territoriale abbia espressamente preso in considerazione il secondo motivo dell’appello proposto dagli odierni istanti avverso la decisione del primo giudice che aveva ritenuto inapplicabile l’art. 97 cit., decidendo su tale doglianza unitamente al quarto motivo dell’appello della COGNOME (cfr. pagg. 15-16 della sentenza impugnata), giungendo al fine ad affermare l’infondatezza della censura degli odierni ricorrenti poiché, dopo aver esaminato la scriminante di cui all’art. 97 citato, «stante l’assenza del consenso alla diffusione della propria immagine da parte dell’interessata, attesa
l’accertato uso diffamatorio dell’immagine stessa, ricorre l’ipotesi di lesione del diritto alla sua immagine» (così testualmente pag. 16);
è appena il caso di rammentare come, ai sensi del l’art. 97 cit., « Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico.
«Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l’esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata »;
il giudice d’appello , dunque, risulta aver preso espressamente in considerazione la censura avanzata dagli odierni istanti e ha confermato l’inapplicabilità dell’art. 97 cit. poiché, a norma del secondo comma di tale ultimo articolo, l’immagine recava pregiudizio all’onore e alla reputazione della persona ritrattata;
con il quarto motivo, proposto in via gradata rispetto al terzo motivo, i ricorrenti si dolgono della nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. (in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.), per inesistenza di alcuna motivazione sul piano grafico con riguardo al motivo d’appello proposto dagli odierni istanti in relazione all’applicazione dell’art. 97 della legge sul diritto d’autore, nella parte in cui consente l’uso dell’immagine altrui in assenza del relativo consenso;
il motivo è manifestamente infondato;
osserva il Collegio come (in conformità a quanto osservato in corrispondenza alla decisione sul terzo motivo) il giudice d’appello abbia espressamente preso in considerazione la censura avanzata dagli odierni istanti avverso la decisione del primo giudice che aveva ritenuto
inapplicabile l’art. 97 cit., confermando l’inapplicabilità dell’art. 97 cit. poiché, a norma del secondo comma di tale ultimo articolo, l’immagine diffusa attraverso il servizio televisivo recava pregiudizio all’onore e alla reputazione della persona ritrattata;
si tratta di una motivazione espressamente articolata nel contesto del provvedimento impugnato, pienamente comprensibile, sufficientemente capace di render conto dell’ iter logico-giuridico seguito ai fini della decisione e, come tale, idonea a sottrarsi integralmente ai contenuti critici della censura in esame;
sulla base di tali premesse, rilevata la complessiva infondatezza delle censure esaminate, dev’essere pronunciato il rigetto del ricorso;
le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;
si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1quater , dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi euro 2.500,00, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00, e agli accessori come per legge.
Dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1quater , dell’art. 13 del d.p.r. n. 115/2002.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione del 15 maggio 2025.
Il Presidente
NOME COGNOME