Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 9289 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 9289 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 08/04/2024
Oggetto: diritto al nome – tutela
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 29889/2022 R.G. proposto da COGNOME NOME e NOME, rappresentati e difesi dagli avv. NOME AVV_NOTAIO, NOME COGNOME e NOME COGNOME, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo, sito in Roma, INDIRIZZO
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dagli AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, con domicilio eletto presso lo studio del primo, sito in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze n. 2200/2022, depositata il 6 ottobre 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 23 febbraio 2024 dal Consigliere NOME COGNOME;
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME e NOME COGNOME propongono ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze, depositata il 6 ottobre 2022, di reiezione del loro appello (principale) per la riforma della sentenza del locale Tribunale che aveva respinto le domande di condanna della RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni in loro favore per l’uso non autorizzato del nome NOME NOME, nonché per la contraffazione del marchio registrato «NOME NOME» realizzata mediante la presentazione al pubblico, a fini commerciali, di tre paia di scarpe (la «NOME NOME», il «Sandalo Gondoletta» e la «NOME NOME») a cui veniva associato il predetto nome e di inibizione de lla società dall’uso dei vantati segni distintivi ;
la Corte di appello ha disatteso il gravame evidenziando, in particolare, che: la società era stata specificamente autorizzata all’uso del nome NOME con riferimento alla calzatura «NOME NOME»; gli accostamenti effettuati dalla società al nome NOME non potevano considerarsi lesivi del diritto allo sfruttamento economico del nome dal momento che gli stessi avevano avuto una finalità meramente descrittiva, in quanto tale legittima; privo di pregio era l’assunto degli attori in ordine alla non veridicità delle informazioni presenti sulla comunicazione commerciale della società relativa al rapporto tra quest’ultima e NOME NOME; correttamente il Tribunale aveva dichiarato inammissibili le domande di contraffazione di due marchi comunitari «NOME NOME», in quanto proposte tardivamente e, comunque, l’uso degli stessi era conforme alla correttezza professionale;
-ha, altresì, respinto l’appello incidentale della RAGIONE_SOCIALE vertente sul capo di sentenza di primo grado con cui era stata disattesa la sua domanda riconvenzionale al risarcimento dei danni per lite temeraria;
il ricorso è affidato a undici motivi;
resiste con controricorso la RAGIONE_SOCIALE;
le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.; CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o falsa applicazione degli artt. 7 e 10 cod. civ. e 96 e 97 l. 22 aprile 1941, n. 633, per aver la sentenza impugnata ritenuto lecito l’uso del nome NOME NOME in assenza del loro consenso, quali figli della deceduta originaria titolare del diritto, pur in presenza di un uso pubblicitario o promozionale dello stesso;
-evidenziano che l ‘uso del nome altrui senza il consenso dell’interessato è lecito soltanto se e in quanto risponda alle esigenze di pubblica informazione e non anche qualora, come nel caso in esame, sia rivolta a fini pubblicitari e tale deroga deve ritenersi di stretta interpretazione;
il motivo è inammissibile;
giova rammentare che l’art. 7 cod. civ. riconosce il diritto della persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dall’uso che altri indebitamente ne faccia, di chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni;
il successivo art. 8 estende, poi, la legittimazione ad agire per la tutela del nome anche a chi, pur non portandolo, abbia un interesse fondato su ragioni familiari degne d’essere protette;
la tutela apprestata dalle richiamate disposizioni non si risolve solo nella facoltà di reazione avverso condotte usurpative del nome, in ossequio a una concezione di stampo proprietario, ma si estende sino a comprendere ogni possibile utilizzazione del nome altrui che sia tale da arrecare al suo titolare un pregiudizio ingiustificato, in quanto preordinata ad assicurare l’effettivo rispetto dell’ interesse della persona, fisica o giuridica, a preservare la propria identità personale «di essere rappresentato, nella vita di relazione, con la sua identità, così come questa nella realtà sociale, generale o particolare, è
conosciuta o poteva essere conosciuta con l’applicazione dei criteri della normale diligenza e della buona fede soggettiva» (così, Cass. 22 giugno 1985, n. 3769);
-l’art. 7 cod. civ. può essere invocato anche per reagire a indebite utilizzazioni a fini commerciali del proprio nome -così gli artt. 10 cod. civ. e 96-98 l.n. 633 del 1941 con riferimento a indebite utilizzazioni per le medesime finalità della propria immagine -, in particolare laddove associato nella comunicazione promozionale a prodotti posti in vendita, in relazione al pregiudizio derivante sia dall’ annacquamento del nome (o dallo svilimento dell ‘ immagine), sia dalla perdita delle relative facoltà di sfruttamento economico (cfr. Cass. 11 agosto 2009, n. 18218; nonché, con riferimento alla lesione del diritto al conseguimento di un corrispettivo per la prestazione del consenso all’ utilizzazione del proprio ritratto, Cass. 2 maggio 1991, n. 4785; Cass. 11 novembre 1979, n. 5790);
affinché l’utilizzo del nome altrui possa ritenersi illecito è necessario che lo stesso risulti «indebito», ossia non costituisca l’esercizio di un diritto o una facoltà o l’assolvimento di un obbligo ovvero non rappresenti la manifestazione di un interesse giuridicamente apprezzabile;
ai fini dell’individuazione del perimetro degli usi indebiti del nome altrui e, al contrario, di quelli leciti, può venire in soccorso la menzionata disciplina relativa al diritto d’autore, secondo cui non è consentita la divulgazione del ritratto di una persona senza il consenso di questa a meno che la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dal l’ufficio pubblico ricoperto dalla persona, dalla necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o da fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico e sempre che la divulgazione non rechi pregi udizio all’onore, alla reputazione o anche al decoro della persona ritrattata;
da ciò è stato fatto discendere, condivisibilmente, che la divulgazione
dell’immagine senza il consenso dell’interessato è illecita quando sia rivolta a fini puramente commerciali, pubblicitari o, comunque, di lucro e non risponda a finalità informative o alle altre finalità indicate nell’art. 97 l.n. 633 del 1941 (cfr. Cass. 19 febbraio 2021, n. 4477; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1748);
deve, tuttavia, osservarsi che sovente, come nel caso in esame, le esimenti finalità informative, didattiche o culturali coesistono con finalità di lucro, in relazione al fatto che tali finalità vengono soddisfatte mediante l’esercizio di un’attività imprenditoriale con finalità lucrativa; – in proposito, è stato recentemente evidenziato che «non si possono pertanto equiparare alle finalità commerciali (per cui sarebbe sempre necessario il consenso) l’uso propagandistico della fotografia del personaggio famoso per indurre all’acquisto di altri prodotti o l’applicazione dell’immagine sul prodotto stesso, alla vendita di un prodotto informativo (latamente didattico-culturale) in cui viene inserita la fotografia a fini di documentazione e integrazione delle informazioni fornite agli acquirenti» (così, Cass. 16 giugno 2022, n. 19515);
in realtà, con riferimento all’utilizzo del nome o dell’immagine altrui nello svolgimento di un’attività di impresa, il pertinente quadro normativo è articolato, venendo in rilievo il diritto al rispetto del proprio nome e della propria identità personale (artt. 2 e 22 Cost. e 8 CEDU), la libertà d’impresa di cui godono gli operatori economici (artt. 41 Cost. e 16 Carta di Nizza ) e l’interesse degli individui a essere informati (artt. 2 e 21 Cost., 10 CEDU e 11 Carta di Nizza);
ciò impone all’interprete di operare un bilanciamento tra i diversi interessi in conflitto, ossia tra quelli sottesi al diritto esclusivo sul proprio nome (e ritratto) e quelli sottesi a una sua libera utilizzazione (cfr., in tema, Cass. 1° febbraio 2024, n. 2978);
non sembra condivisibile, dunque, la tesi secondo cui la sussistenza di uno scopo commerciale o pubblicitario valga di regola ad escludere
qualsiasi fine informativo e, conseguentemente, la legittimità dell’utilizzo dell’immagine altrui ;
i n tali situazioni predicare l’irrilevanza delle finalità informative e culturali in chiave scriminante dell’illiceità della riproduzione non autorizzata dell’immagine significherebbe pervenire alla inaccettabile conclusione, in quanto contraria allo spirito del legislatore, di una sostanziale compressione del diritto di informazione, che verrebbe riservato solo ad iniziative prive di scopo di lucro e, dunque, a iniziative poste in essere da enti pubblici o da soggetti privati che intendano dare vita ad attività benefiche;
piuttosto, nei casi di confine in cui si riscontra una combinazione fra uso informativo e uso commerciale in senso lato deve condursi un’attenta ponderazione degli interessi in gioco, lasciando aperta la possibilità che l’interesse informativo prevalga s u quello pubblicitario determinando la liceità dell’uso;
orbene, con riferimento al caso in esame è opportuno distinguere la fattispecie della «NOME» da quelle del «Sandalo Gondoletta» e della «NOME»;
quanto alla prima ipotesi, secondo quanto accertato dalla Corte di appello, l’utilizzo del nome NOME da parte della RAGIONE_SOCIALE era stato oggetto di pattuizione tra tale società e la RAGIONE_SOCIALE (la fondazione benefica creata nel 1994 dai figli di NOME);
-per l’esattezza, con il contratto concluso nel 2000, in occasione della mostra organizzata in Giappone, era stato pattuito che la RAGIONE_SOCIALE avrebbe potuto continuare a vendere, anche dopo la scadenza della licenza d’uso a fini pubblicitari del nome e del ritratto di NOME, i prodotti oggetto del contratto, tra cui la ballerina chiamata «NOME», con il loro nome commerciale;
quanto alle altre due calzature, sempre secondo quanto accertato dalla Corte territoriale, il nome NOME compariva nella
descrizione del prodotto sul sito Internet della RAGIONE_SOCIALE (più precisamente, con riferimento al sandalo «Gondoletta» si leggeva che «il modello venne indossato da NOME»; mentre con riferimento alla ballerina «NOME», che «il modello originale fu creato da RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE nel 1959. È uno dei numerosi modelli inventati da RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE per l’attrice NOME») , nonostante il suo utilizzo non fosse coperto da alcun accordo tra le parti;
tuttavia, la sentenza impugnata ha ritenuto che l’uso del nome NOME da parte della controricorrente abbia avuto una funzione essenzialmente informativa, correlata all’esigenza di indicare «la prestigiosa origine della calzatura» e il contesto nel quale era stata realizzata;
pertanto, pur non negando la «connotazione latamente commerciale» della divulgazione di tali informazioni, ha ritenuto, nella sostanza, prevalente la predetta funzione descrittiva;
ha, dunque, correttamente operato il giudizio di bilanciamento tra le concorrenti funzioni informative e commerciali e concluso per la prevalenza delle prime all’esito di una valutazione di merito che, investendo un accertamento riservato al giudice di merito, non è sindacabile in questa sede sotto il paradigma della violazione o falsa applicazione della legge;
con il secondo motivo i ricorrenti deducono la violazione o falsa applicazione dell’art. 96 l.n. 633 del 1941, per non aver la Corte di appello considerato la revoca dell’eventuale consenso all’uso del nome di NOME;
evidenziano, sul punto, che con la diffida del 27 maggio 2015 e successivamente con la notifica dell’atto di citazione che aveva dato origine al presente giudizio avevano revocato originarie autorizzazioni eventualmente prestat e all’utilizzo del nome NOME NOME;
il motivo è inammissibile;
-dall’esame della sentenza impugnata non si evince che la questione
oggetto della censura sia stata sottoposta dai ricorrenti al giudice di appello, né la parte deduce di averla prospettata nel giudizio di merito, non assolvendo al relativo onere sul medesimo gravante al fine di non incorrere nell’inammissibilità del motivo per novità (cfr. Cass. 13 dicembre 2019, n. 32804; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430);
con il terzo motivo i ricorrenti lamentano nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 e 132 cod. proc. civ., prospettando il travisamento della prova e la motivazione apparente nella parte in cui ha ritenuto esistente il consenso sulla base del contratto prodotto come doc. 8 dalla convenuta, il cui esame non consentiva in alcun modo di ritenere sussistente il consenso all’uso del nome NOME NOME;
in particolare, ravvedono un duplice travisamento della prova: da un lato, per aver ritenuto che tale contratto fosse diverso rispetto a quello prodotto dagli attori; dall’altro, per non ave r considerato che i documenti contrattuali in questione avevano contenuto identico e prevedevano «limitazioni spaziali e temporali» che escludevano il diritto all’uso del nome NOME NOME;
-il motivo è inammissibile, in quanto la doglianza cade sulla valutazione delle risultanze probatorie e sull’interpr etazione delle clausole di documenti contrattuali e non già sulla ricognizione del contenuto oggettivo delle medesime;
-con il quarto motivo i ricorrenti si dolgono dell’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, evidenziato dal contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e dalla motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile, in relazione alla divergenza contenutistica tra il documento contrattuale prodotto in giudizio dagli attori e quello prodotto in giudizio dalla società con riferimento all ‘ampiezza dell’autorizzazione concessa all’uso del nome NOME NOME con riferimento alle «ballerine NOME»;
-con il quinto motivo è censurato l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio in relazione al contenuto del
documento contrattuale prodotto dagli attori che prevedeva «limitazioni spaziali e temporali» all’uso del nome NOME da parte della RAGIONE_SOCIALE;
-anche queste censure, esaminabili congiuntamente, sono inammissibili, vertendosi in una situazione di cd. «doppia conforme» che, ai sensi dell’art. 348 -ter , commi 4 e 5, cod. proc. civ., non consente la formulazione di censure per omesso esame di fatti decisivi e controversi ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.;
con il sesto motivo i ricorrenti censurano la violazione o falsa applicazione degli articoli 1362 e 1363 cod. civ. per aver la Corte di appello interpretato il contratto prodotto dalle parti nel senso che conteneva l’autorizzazione alla società controricorrente di utilizzare il nome NOME NOME con riferimento alla campagna promozionale delle «ballerine NOME» anche al di fuori del Giappone;
il motivo è inammissibile;
l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, per cui il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. cod. civ., deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, e deve precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti (cfr. Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136);
orbene, in presenza di una interpretazione del contratto da parte della Corte di appello fondata sulla valorizzazione del dato letterale, la doglianza investe il risultato dell’operazione ermeneutica del giudice di merito, prospettando l’interpretazione da parte del giudice di appello del documento contrattuale errata e senza tener conto di elementi
extratestuali (contenuto della lettera del 22 marzo 2000), risolvendosi, dunque, in una mera contrapposizione tra l’interpretazione dei ricorrenti e quella accolta nella sentenza impugnata che non può essere denunciata in questa sede, poiché quest’ultima non deve essere necessariamente l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni (Cass. 27 giugno 2018, n. 16987; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319);
-con il settimo motivo i ricorrenti lamentano l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione alla prova della verità che le scarpe oggetto del giudizio sarebbero state create per NOME NOME;
il motivo è inammissibile, stante la preclusione rappresentata dalla cd. «doppia conforme»;
-con l’ottavo motivo i ricorrenti denunciano la nullità della sentenza per violazione dell’art. 115 e 132 cod. proc. civ, allegando il travisamento della prova in relazione al catalogo prodotto dalla società controricorrente e la conseguente motivazione apparente;
la censura è inammissibile, essendo volta a rimettere in discussione l’apprezzamento delle prove compiuto dalla Corte territoriale e , in particolare, a prospettare un erroneo apprezzamento del contenuto di alcuni documenti, non sindacabile in questa sede;
la giurisprudenza di codesta Corte è consolidata nel ritenere che «l’eventuale cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dai testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello dell’art. precedente n. 4, disposizione che -per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dà rilievo
unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante» (così, da ultimo, Cass. 21 gennaio 2020, n. 1163);
con il nono motivo i ricorrenti censurano la violazione o falsa applicazione degli art. 163 e 183 cod. proc. civ., per aver la sentenza impugnata confermato la statuizione di inammissibilità della domanda di contraffazione dei due marchi comunitari vantati -diversi da quello statunitense indicato nell’atto di citazione e post o a fondamento della domanda originariamente spiegata -in ragione della loro tardività;
osservano, sul punto, che si trattava di una modificazione della domanda, consentita giacché proposta entro il termine di cui all’art. 183, sesto comma, n. 2, cod. proc. civ.;
il motivo è infondato;
la originaria domanda di tutela del marchio statunitense poggia su un fatto costitutivo diverso da quello della domanda di tutela in forza dei due marchi comunitari oggetto della domanda successivamente proposta;
la registrazione del marchio costituisce un elemento identificativo imprescindibile dello stesso, per cui a ogni registrazione corrisponde necessariamente un marchio diverso;
la parte invoca il precedente rappresentato dalla sentenza di questa Corte n. 17117 del 21 luglio 2010, ma tale precedente non appare pertinente, in quanto relativo a una situazione in cui l ‘atto di citazione già faceva riferimento a un marchio specificamente individuato e con la memoria depositata ai sensi dell’art. 183, primo comma, n. 6, cod. proc. civ., l’attrice aveva meglio puntualizzato la domanda di contraffazione delle proprie privative chiarendo che la stessa doveva estendersi anche a tale marchio, così specificando il riferimento precedentemente operato;
nel caso in esame, invece, il marchio di cui si richiedeva tutela con l’atto di citazione era un marchio diverso, avente una differente ambito
di applicazione territoriale, e dei marchi comunitari successivamente azionati non era fatta ivi alcuna menzione;
immune da vizi è, dunque, la statuizione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto che, stante la presenza di «presupposti fattuali completamente differenti» la domanda proposta con la memoria di cui all’art. 183 cod. proc. civ. doveva essere considerata nuova e, in quanto tale inammissibile per tardività;
con il decimo motivo i ricorrenti denunciano la violazione o falsa applicazione dell’art. 8, terzo comma, cod. proc. ind. per aver la Corte di appello omesso di considerare che il nome NOME, in quanto notorio, non poteva essere usato senza il consenso dei figli;
il motivo è inammissibile;
la censura ha a oggetto una questione giuridica che non risulta trattata in alcun modo nella sentenza impugnata e in relazione alla quale parte ricorrente non allega l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, né, tanto meno, indica in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, non assolvendo all’onere probatorio sullo stesso gravante e funzionale a escludere la novità della questione medesima;
-con l’u ltimo motivo i ricorrenti si dolgono della violazione o falsa applicazione delle norme, europee o di derivazione europea, in relazione all’affermazione della Corte di appello secondo cui la domanda di contraffazione dei marchi era infondata essendosi in presenza di un uso lecito del marchio altrui;
il motivo è inammissibile;
la Corte territoriale ha respinto il motivo di gravame articolato sul punto evidenziando che la domanda di contraffazione era inammissibile perché tardivamente proposta e, ad abundantiam , che ricorresse una situazione di uso del marchio lecito in quanto conforme alla correttezza professionale;
orbene, si rammenta che qualora il giudice, come nel caso in esame,
abbia dichiarato inammissibile la domanda, spogliandosi, in tal modo, della potestas iudicandi in relazione al merito della stessa, e impropriamente abbia inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere, né l’interesse a impugnare, per cui è inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata (cfr. Cass., Sez. Un., 20 febbraio 2007, n. 3840);
pertanto, per le suesposte considerazioni, il ricorso non può essere accolto;
-le spese processuali si liquidano, secondo il criterio della soccombenza, come in dispositivo
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi euro 8.000,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, euro 200,00 per esborsi e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 23 febbraio 2024.