Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20828 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20828 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 23/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17655-2023 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 964/2023 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 13/03/2023 R.G.N. 402/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Oggetto
Diffida
accertativa ex art. 12 d.lgs. n. 124/2004
R.G.N. 17655/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 26/03/2025
CC
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Napoli rigettava l’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 171/2021.
Per quanto qui interessa, la Corte premetteva: I) che, con ricorso ex artt. 615 e 618 bis c.p.c., la RAGIONE_SOCIALE aveva proposto al Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, opposizione all’atto di precetto fatto ad essa notificar e dall’odierna parte controricorrente; precetto fondato su titolo esecutivo costituito da diffida accertativa emessa dalla ITL di Perugia in data 9.4.2019, relativa a crediti retributivi maturati in favore di tale dipendente per lo svolgimento di lavoro st raordinario, dando conto di quanto sostenuto dall’opponente circa il rapporto di lavoro oggetto di tale diffida; II) che, nella resistenza di parte opposta, il Tribunale aveva rigettato l’opposizione della società; III) che quest’ultima, nell’appellare la sentenza di primo grado, per quanto qui interessa, aveva reiterato l’eccezione di illegittimità della diffida accertativa per mancanza di poteri accertativi in capo ai funzionari amministrativi, nonché l’eccezione di prescrizione in relazione ai crediti maturati anteriormente al 18.5.2015.
Tanto premesso, la Corte, richiamato il dettato dei primi tre commi dell’art. 12 d.lgs. n. 124/2004, riteneva che quest’ultimo non prevede limiti all’esercizio dei poteri accertativi degli ispettori ed evidenziava, altresì, la piena idoneità probatoria della diffida, idonea ad acquisire l’efficacia di titolo esecutivo.
3.1. Fatto riferimento alla circolare del Ministero del Lavoro n. 1/2003 circa i limiti di operatività di tale istituto intravisti da detta amministrazione in termini di opportunità, rilevava che era
incontestato che tra le parti fosse intercorso un rapporto di lavoro subordinato, sicché alcun profilo di illegittimità poteva configurarsi in relazione all’impugnata diffida accertativa.
La Corte, quindi, riteneva che quest’ultima nella specie aveva avuto ad oggetto crediti da lavoro supplementare; crediti che ben potevano rientrare nell’ambito applicativo dell’istituto della diffida accertativa, la cui funzione era quella di deflazionare il contenzioso giudiziale, garantendo così una più rapida soddisfazione degli interessi di natura patrimoniale dei lavoratori.
4.1. Osservava, ancora, che il legislatore aveva consentito, nel contempo, al datore di lavoro di adire l’autorità giudiziaria al fine di comprovare l’insussistenza dei fatti costitutivi delle pretese patrimoniali, oggetto della diffida accertativa, operan do, in sostanza, un’inversione dell’onere della prova.
La Corte territoriale, premettendo che il credito era stato liquidato sulla base di dichiarazioni e documenti esaminati dai funzionari ispettivi, rilevava che, all’esito dell’esame del materiale probatorio, risultava oltremodo evidente che la prassi aziendale fosse quella di pretendere da tutti i dipendenti -invitati da parte dei superiori a mentire in caso di accesso ispettivo -l’osservanza di un orario di lavoro di gran lunga maggiore di quello contrattualizzato, sempre coincidente con le 40 ore settimanali.
Infine, la Corte giudicava infondato il motivo d’appello a mezzo del quale la società opponente aveva reiterato l’eccezione di prescrizione.
Avverso tale decisione la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
La parte intimata resiste con controricorso e successiva memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ‘violazione, falsa ed errata applicazione dell’art. 12 del d.lgs. 124/2004 anche in combinato disposto con l’art. 2697 c.c. (art. 360, comma 1, n° 3 c.p.c.)’. Sostiene che l’ispettorato del lavoro di Perugia ha violato i limiti della norma di cu i all’art. 12 d.lgs. 124/2004, avendo compiuto un accertamento di fatto e non un accertamento tecnico.
Con un secondo motivo denuncia ‘violazione, falsa ed errata applicazione dell’art. 2697 c.c. inversione degli oneri probatori -(art. 360, comma 1, n° 3 c.p.c.)’. Deduce che la Corte territoriale erroneamente ha operato un’inversione degli oneri probatori in materia di straordinario.
Con un terzo motivo denuncia ex ‘art. 360, comma 1, n° 4 -Nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 115 c.p.c.’, ‘per aver la Corte territoriale ritenuto, in spregio alle chiare risultanze processuali, non contestato il plus orario ‘ .
I tre motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per evidente connessione, sono privi di fondamento, ed in parte inammissibili.
In primo luogo, trattandosi di diffida accertativa del 9.4.2019, deve farsi riferimento al testo dell’art. 12 d.lgs. n.
124/2004 allora applicabile ratione temporis (prima, cioè, della modifica ad opera dell’art. 12 bis, comma 3, d.l. n. 76/2020, conv. con mod. dalla L. n. 120/2020).
Detto articolo, sotto la rubrica ‘Diffida accertativa per crediti patrimoniali’, recita(va):
‘1. Qualora nell’ambito dell’attività di vigilanza emergano inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscano crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il personale ispettivo delle Direzioni del lavoro diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti.
Entro trenta giorni dalla notifica della diffida accertativa, il datore di lavoro può promuovere tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro. In caso di accordo, risultante da verbale sottoscritto dalle parti, il provvedimento di diffida perde efficacia e, per il verbale medesimo, non trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 2113, commi primo, secondo e terzo del codice civile.
Decorso inutilmente il termine di cui al comma 2 o in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, attestato da apposito verbale, il provvedimento di diffida di cui al comma 1 acquista, con provvedimento del direttore della Direzione provinciale del lavoro, valore di accertamento tecnico, con efficacia di titolo esecutivo.
Nei confronti del provvedimento di diffida di cui al comma 3 è ammesso ricorso davanti al Comitato regionale per i rapporti di lavoro di cui all’articolo 17, integrato con un rappresentante dei datori di lavoro ed un rappresentante dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. In
mancanza della designazione entro trenta giorni dalla richiesta di nomina, il Comitato decide il ricorso nella sua composizione ordinaria. I ricorsi vanno inoltrati alla direzione regionale del lavoro e sono decisi nel termine di novanta giorni dal ricevimento, sulla base della documentazione prodotta dal ricorrente e di quella in possesso dell’Amministrazione. Decorso inutilmente il termine previsto per la decisione il ricorso si intende respinto. Il ricorso sospende l’esecutività della diffida’.
Nello svolgimento del primo motivo la ricorrente osserva che l’art. 12 cit. ‘sembrerebbe porsi oltre la cornice della legge delega, L. 30/2003, che all’art. 8 (richiamato nel preambolo del d.lgs. 124/2004) comma 2 lettera a) prevedeva espressamente dele ga al Governo per l’emanazione di uno o più decreti delegati finalizzati, relativamente alla fattispecie in esame, alla ‘semplificazione della procedura per la soddisfazione dei crediti di lavoro correlata alla promozione di soluzioni conciliative in sede pubblica’.
6.1. Rileva in contrario il Collegio che l’eccesso di delega che a riguardo la ricorrente prospetta, peraltro in via dubitativa, è privo di qualsiasi fondamento, ed anzi il punto della legge delega che in proposito richiama la ricorrente finisce col confortare la corretta interpretazione delle previsioni di cui all’art. 12 d.lgs. n. 124/2004 nella versione applicabile in causa, di cui si passa a dire.
6.2. L’art. 8 l. n. 30/2003, sotto la rubrica ‘Delega al Governo per la razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro’, al comma 2 tra i ‘principi e criteri direttivi’ nel rispetto dei quali la delega doveva essere esercitata dal Governo sub lett. e) contempla la ‘semplificazione della procedura per la soddisfazione dei crediti
di lavoro correlata alla promozione di soluzioni conciliative in sede pubblica’.
Dunque, la ‘semplificazione’ delineata dal legislatore delegante, da un lato, è riferita a ‘crediti di lavoro’ in genere, senza, quindi, alcuna esclusione, eccezione o restrizione legata a natura e caratteristiche di taluno in particolare di questi crediti , e, dall’altro lato, la stessa semplificazione afferisce non al mero accertamento di tali crediti, ma alla ‘procedura’ in senso lato ‘per la soddisfazione’ degli stessi crediti, vale a dire, finalizzata al concreto e diretto adempimento dei ‘crediti di la voro’.
Difatti, il rilievo che nell’ambito del più ampio intervento prospettato dal legislatore delegante non fossero previsti ‘principi e criteri direttivi’ riferiti specificamente al terreno giurisdizionale e l’adozione del termine ‘procedura’ depongono nel senso che il legislatore delegante alludesse ad un percorso amministrativo da seguire sempre in relazione alle ‘funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro’, oggetto di ‘razionalizzazione’. E nella stessa direzione ermeneutica si pone l’al tro criterio direttivo sub lett. c) dello stesso comma 2 dell’art. 8 cit., a termini del quale era indicata al legislatore delegato la ‘ridefinizione dell’istituto della prescrizione e diffida propri della direzione provinciale del lavoro’.
Rispetto a questi specifici ‘criteri direttivi’, allora, appare perfettamente coerente e conseguente la conformazione che la nuova ‘Diffida accertativa per crediti patrimoniali’ ha assunto nell’art. 12 d.lgs. n. 124/2004.
7.1. Più in particolare, la diffida del personale ispettivo ‘a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti’ già
risponde alla finalità di assicurare ai lavoratori una pronta ‘soddisfazione’ dei loro ‘crediti di lavoro’. Il presupposto cui è subordinata tale particolare diffida, infatti, è che ‘nell’ambito dell’attività di vigilanza emergano inosservanze alla discipl ina contrattuale da cui scaturiscano crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro’; e, in assenza, ancora una volta, di specificazioni o delimitazioni di sorta, la locuzione ‘disciplina contrattuale’ ben può comprendere non solo norme collettive di qualsiasi livello, ma anche clausole del contratto individuale di lavoro, né i ‘crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro’ sono altrimenti specificati se non dal loro scaturire da ‘inosservanze alla disciplina contrattuale’; ed anche tale ampia nomenclatura è in linea con la locuzione parimenti comprensiva di ‘crediti di lavoro’, utilizzata dal legislatore delegante.
7.2. Il comma 2 dell’art. 12 in commento, poi, dà puntuale attuazione al criterio direttivo sub lett. e) dell’art. 8 della legge delega dove indica che la ‘procedura per la soddisfazione per la soddisfazione dei crediti di lavoro’ sia ‘correlata alla promo zione di soluzioni conciliative in sede pubblica’.
Detto alinea, infatti, come si è visto, prevede anzitutto che nel termine previsto a far tempo dalla notifica della diffida accertativa, il datore di lavoro possa appunto ‘promuovere il tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro’; tentativo di ‘soluzioni conciliative in sede pubblica’ che, peraltro, rientra nello strumentario tradizionale in ambito lavoristico (v. anzitutto art. 410 c.p.c.) e non è obbligatorio, ma offre al datore di lavoro l’opportunità di raggiungere con il lavoratore interessato un accordo, in forza del quale, se formalizzato in apposito verbale, in primo luogo ‘il provvedimento di diffida perde efficacia’, aggiungendosi che per
il relativo verbale ‘non trovano applicazione le disposizioni di cui all’articolo 2113, commi primo, secondo e terzo, del codice civile’ in tema di rinunzie e transazioni, sicché l’accordo raggiunto dalle parti che risulti da detto verbale diviene praticamente inoppugnabile.
7.3. Completa la disciplina della ‘diffida accertativa’, sempre in vista dello scopo di delineare una ‘procedura per la soddisfazione dei crediti di lavoro’, il comma 3 dell’art. 12. Quest’ultimo prevede che, ove sia ‘Decorso inutilmente il termine di cui al comma 2’, decorso significativo di inerzia o acquiescenza del datore di lavoro rispetto alla diffida, ‘o in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, attestato da apposito verbale’, e, cioè, altra evenienza che non depone per la bontà di ragioni datoriali di contrasto a quanto accertato con la diffida, quest’ultima ‘acquista, con provvedimento del direttore della Direzione provinciale del lavoro, valore di accertamento tecnico, con efficacia di titolo esecutivo’.
Pertanto, la diffida accertativa acquisisce efficacia di titolo esecutivo, non immediatamente, ma a seguito dell’avversarsi di due circostanze qualificate, una indicativa di assenza di contestazioni da parte del datore di lavoro e l’altra costituita dal mancato accordo tra le parti private.
7.4. Ritiene il Collegio che il ‘valore di accertamento tecnico’, pure annesso alla diffida accertativa alle descritte condizioni, non è da intendersi nel senso sostenuto dalla ricorrente, e, cioè, nel senso che al personale ispettivo sia precluso l’accert amento di fatti.
La specificazione, invece, è da interpretarsi nel senso che, non diversamente da una consulenza tecnica d’ufficio, come
suol dirsi, c.d. percipiente, vale a dire, disposta anzitutto ‘per l’accertamento dei fatti’ (cfr., tra le tante, da ultimo Cass. n. 7384/2025), il personale ispettivo delle Direzioni del lavoro, in quanto istituzionalmente qualificato nel campo del lavoro, ben può in primo luogo accertare dei fatti, nella specie, ‘inosservanze alla disciplina contrattuale’; e, ove tanto emerga nell’esercizio della propria attività di vigilanza e risulti produttivo di ‘crediti patrimoniali in favore dei prestatori’, lo stes so personale è tenuto a diffidare ‘il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti’; e non è questionabile che tale quantificazione dei crediti in questione rifletta sì anche il vaglio di aspetti ‘tecnici’ (analogamente in parte qua ad una consulenza c.d. deducente) che, tuttavia, presuppone l’imprescindibile accertamento fattuale, necessario per calcolare detti importi.
7.5. Del resto, la norma aggiunge subito che la diffida accertativa, una volta verificatasi una delle due ipotesi sopra viste, acquista ‘efficacia di titolo esecutivo’.
Il legislatore delegato, pertanto, nel comma 3 dell’art. 12 d.lgs. n. 124/2004, ha così inteso introdurre altra ipotesi, tra le tante già previste, di un atto, non di formazione giudiziale, al quale ‘la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva’ (cfr. art. 474, comma secondo, n. 1) e n. 2, c.p.c.).
E questa Corte ha già messo in luce che la diffida accertativa, sempre alle cennate condizioni, ‘è atto amministrativo che è idoneo ad acquisire valore di titolo esecutivo ma non determina un passaggio in giudicato dell’accertamento in essa contenuto che p uò sempre essere contestato’, e che l’acquisizione dell’efficacia di titolo esecutivo ‘non esclude che l’interessato possa contestare in giudizio
l’esistenza del diritto in essa riportato’ (così al § 7 della motivazione di di Cass. n. 23744/2022, richiamata anche dalla ricorrente).
Ma ciò non toglie che, salva la possibilità dell’opposizione datoriale all’esecuzione, rimedio generale previsto per contrastare tutti i titoli esecutivi, la diffida già munita di efficacia esecutiva attenga ad un diritto di credito, certo, liquido ed esigibile; diritto che anche nella sua quantificazione rispecchia i relativi fatti costitutivi come accertati in sede ispettiva.
Peraltro, l’originaria versione dell’art. 12 al comma 4 contemplava anche l’apposito ricorso al Comitato regionale per i rapporti di lavoro avverso il ‘provvedimento di diffida di cui al comma 3’, vale a dire, contro la diffida già munita di efficacia esecutiva a termini dello stesso comma 3, tanto che lo stesso ricorso sospendeva l’esecutività della diffida stessa.
Alla luce di tutti i superiori rilievi appaiono da disattendere i residuali argomenti svolti dalla ricorrente nello sviluppo del primo motivo (v. in particolare pagg. 7-13 del ricorso). Argomenti che, in parte, non paiono pertinenti anche sul piano sistematico nel riferirsi a norme e istituti del tutto diversi (quali il decreto ingiuntivo richiesto ex art. 635, comma secondo, c.p.c.) da quello che ci occupa, e, in altra parte, presentano anche profili d’inammissibilità, dove si assume, fondandosi su accertamento fattuale differente da quello operato dai giudici di merito, che nella diffida accertativa non risulterebbe ‘neppure indicata la disposizione contrattuale (individuale e/o collettiva) disattesa’.
Per contro, la linea interpretativa seguita dalla Corte distrettuale, che ha pienamente colto ‘la portata innovativa dell’istituto della diffida accertativa’, appare senz’altro corretta.
Peraltro, la stessa Corte si è premurata anche di ricondurre i crediti di lavoro oggetto della diffida in questione nelle categorie considerate nella circolare n. 1/2003 del Ministero del Lavoro quali crediti che possono appunto essere oggetto della diffida accertativa (cfr. pagg. 3-5 della sua sentenza), senza che ostino ragioni di opportunità (valevoli per diverse ipotesi di crediti lavorativi).
Anche alla stregua delle considerazioni che precedono risulta privo di fondamento il secondo motivo di ricorso, che presenta profili d’inammissibilità.
Nell’impugnata sentenza, infatti, non è dato cogliere alcuna illegittima inversione dell’onere della prova in violazione dell’art. 2697 c.c.
In primo luogo, la ricorrente non pone in discussione il punto di partenza del ragionamento decisorio della Corte circa allegazioni e prove, e cioè l’essere incontestato che tra le parti fosse intercorso un rapporto di lavoro subordinato.
11.1. Quanto, poi, alla questione dell’effettivo orario di lavoro osservato dalla parte attuale controricorrente, la Corte aveva premesso in narrativa che l’opponente aveva sostenuto che quest’ultima aveva sempre osservato l’orario di lavoro contrattualmente previsto.
In base, tuttavia, al proprio esame del materiale probatorio a disposizione, la Corte di merito ha ritenuto risultare ‘oltremodo evidente che la prassi aziendale fosse quella di
pretendere da tutti i dipendenti -invitati da parte dei superiori a mentire in caso di accesso ispettivo -l’osservanza di un orario di lavoro di gran lunga maggiore di quello contrattualizzato, sempre coincidente con le 40 ore settimanali’.
Infatti, ha considerato che: ‘Tutte le dichiarazioni, rese dai dipendenti di tutti i punti vendita dislocati su tutto il territorio nazionale, lungi dall’essere semplici presunzioni, depongono in tal senso e sulle quali, in quanto gravi, precise e concordanti tra loro, questa Corte non può non fondare il proprio convincimento circa la prestazione da parte del Fusco di lavoro espletato oltre l’orario contrattualizzato’.
11.2. Ebbene, a fronte di queste considerazioni fondate su risultanze processuali acquisite in giudizio, la ricorrente muove una critica all’accertamento probatorio riservato ai giudici di merito, che per giunta è formulata in chiave di generica deduzione di un’anomalia motivazionale, assumendosi che: la Corte ‘ -del tutto apoditticamente -, senza alcuna argomentazione logica, ritiene le suddette dichiarazioni gravi, precise e concordanti (frase di stile, senza alcun contenuto concreto)’ (così a pag. 16 del ricorso).
La ricorrente accenna anche al fatto che la Corte aveva deciso, in pretesa sovversione degli oneri probatori, ‘senza ammettere la prova testimoniale articolata e richiesta’.
11.3. Osserva il Collegio che i vizi che così adombra la ricorrente potevano integrare gli estremi di errores in procedendo che la stessa però avrebbe in ipotesi potuto far valere con mezzo di ricorso diverso da quello di cui all’art. 360, comma primo, n. 3), c.p.c. per la violazione dell’art. 2697 c.c.
In particolare, anomalie motivazionali quali quelle prospettate dovevano essere dedotte negli stretti limiti in cui possono attualmente fatte valere in sede di legittimità (cfr., ad es., Cass., sez. un., n. 37406/2022); mentre, quanto alla mancata ammissione della prova testimoniale, il relativo vizio di motivazione poteva essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui esso avesse investito un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa o non esaminata in concreto fosse idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi risulti priva di fondamento (così, tra le altre, Cass. n. 16271/2022). Inoltre, il ricorrente che, in sede di legittimità, denuncia la mancata ammissione di una prova testimoniale da parte del giudice di merito ha l’onere di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di autosufficienza del ricorso, la Corte di cassazione dev’essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative (Sez. un. n. 28336/2011). Infatti, la relativa censura è inammissibile se il ricorrente non trascrive i capitoli di prova e non indica i testi e le ragioni per le quali essi sono qualificati a testimoniare (Cass. n. 6275/2019).
In tale prospettiva, quindi, la censura risulterebbe comunque formulata in contrasto con i richiamati principi, non essendo in ricorso specificato alcunché circa la prova testimoniale richiesta.
12. Il terzo motivo è inammissibile.
In esso la ricorrente censura la parte dell’impugnata sentenza in cui la Corte ha osservato: ‘Posto, infatti, che le dichiarazioni rese da terzi parti in un verbale ispettivo fanno fede fino a prova contraria (tutte le dichiarazioni depongono nel senso dello svolgimento da parte del personale di un orario ordinario di lavoro in luogo di quello contrattuale), era onere di parte opponente dimostrare di aver osservato turnazioni tra i dipendenti tali da garantire appieno l’osservanza dell’orario di 23 ore settimanali.
Al contrario, il ricorso in opposizione è assolutamente carente già in termini di allegazioni, sicché appare del tutto ininfluente la prova richiesta perché inidonea a dimostrare che presso il punto vendita ove operava il COGNOME fosse garantita una turn azione del personale tale da garantire l’osservanza dell’orario contrattuale di lavoro’.
In proposito la ricorrente deduce il vizio di ‘una palese ipotesi di travisamento della prova’.
14.1. Ebbene, di recente le Sezioni Unite di questa Corte hanno insegnato che: ‘Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità de ll’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rimedio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio fatto valere, in concorso
dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale’ (cos ì Cass., sez. un., 5.3.2024, n. 5792).
14.2. Rileva, allora, il Collegio che il travisamento della prova che ora deduce la ricorrente non ha nulla a che vedere con i passaggi motivazionali censurati dalla ricorrente.
La Corte, infatti, non ha fornito una lettura di un determinato fatto probatorio prospettata da una delle parti, di cui si potesse dedurre un travisamento nei termini e nei limiti sopra esposti, bensì ha svolto osservazioni circa gli oneri di allegazione n on assolti dall’opponente e sulla conseguente inidoneità della prova dalla stessa richiesta.
La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore del difensore del controricorrente, dichiaratosi anticipatario, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 5.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge, e distrae in favore del difensore del controricorrente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 26.3.2025.