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Diffamazione a mezzo stampa e verità della notizia

Un gruppo editoriale pubblica un articolo che collega un magistrato a una grave inchiesta per corruzione, pur specificando la sua “posizione defilata”. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per diffamazione a mezzo stampa, stabilendo che creare un collegamento suggestivo con fatti a cui una persona è totalmente estranea viola il requisito della verità della notizia, anche se i singoli elementi sono veri. L’omissione di informazioni cruciali, come il fatto che il magistrato non fosse indagato, è risultata decisiva per la condanna.

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Pubblicato il 14 novembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Diffamazione a mezzo stampa: quando l’accostamento è lesivo

La diffamazione a mezzo stampa è un tema delicato che bilancia la libertà di informazione e la tutela della reputazione individuale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio fondamentale: anche un accostamento “defilato” a un’inchiesta grave può essere diffamatorio se la persona è del tutto estranea ai fatti, violando il requisito della verità della notizia. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti di Causa

Un magistrato citava in giudizio un noto gruppo editoriale, il direttore responsabile di un settimanale e un giornalista per due articoli ritenuti diffamatori. Gli articoli riguardavano un’inchiesta della Procura di Roma su presunti fatti di corruzione tra avvocati e magistrati napoletani per favorire la scarcerazione di esponenti della criminalità organizzata.

Il primo articolo, pur menzionando il magistrato in una “posizione più defilata”, lo inseriva nel contesto di questa grave indagine, parlando di “Giustizia in vendita” e “denaro e favori”. Il secondo articolo, pubblicato la settimana successiva, riportava il contenuto di un’intercettazione in cui il magistrato chiedeva a uno degli avvocati coinvolti di intercedere per lui per un incarico.

Mentre il Tribunale di primo grado rigettava la domanda, la Corte d’Appello la accoglieva parzialmente, ritenendo diffamatorio solo il primo articolo. Secondo i giudici d’appello, tale articolo aveva creato un “forzato collegamento” tra il magistrato e l’inchiesta corruttiva, alla quale era risultato totalmente estraneo. Questo accostamento indebito, presentato con toni insinuanti e allusivi, aveva dato vita a una nuova notizia, falsa e lesiva della reputazione, non scriminata dal diritto di cronaca per mancanza del requisito della verità. Di conseguenza, il gruppo editoriale e i suoi rappresentanti venivano condannati al risarcimento del danno.

La Decisione della Corte di Cassazione sulla diffamazione a mezzo stampa

La Corte di Cassazione, investita del ricorso dal gruppo editoriale, ha rigettato l’impugnazione e confermato la sentenza d’appello. Gli Ermellini hanno ritenuto inammissibili i motivi di ricorso, in quanto volti a ottenere un riesame dei fatti, non consentito in sede di legittimità.

La Corte ha condiviso e validato il ragionamento dei giudici di merito, sottolineando come la valutazione sulla portata diffamatoria di uno scritto sia un accertamento di fatto riservato ai gradi di merito, se adeguatamente motivato. E in questo caso, la motivazione della Corte d’Appello è stata giudicata puntuale e corretta.

Le Motivazioni

Il cuore della decisione risiede nell’interpretazione del requisito della “verità” nel diritto di cronaca. La Cassazione ha chiarito che non è sufficiente riportare fatti singolarmente veri (l’esistenza di un’indagine, l’esistenza di un’informativa dei Carabinieri) se il loro assemblaggio e la loro presentazione creano una narrazione complessiva falsa e lesiva.

Nel caso specifico, l’articolo aveva accostato il nome del magistrato a un’inchiesta su “Toghe sporche” e “Giustizia in vendita”, creando nel lettore la percezione di un suo coinvolgimento. Questo, a fronte della sua totale estraneità all’indagine principale, ha trasformato l’informazione in una notizia nuova e falsa. L’uso dell’espressione “in posizione più defilata” non è stato considerato sufficiente a neutralizzare la portata diffamatoria, ma anzi, è stato visto come parte di una narrazione “insinuante” e “suggestiva”.

Un punto cruciale, evidenziato dalla Corte, è stata l’omissione di un’informazione fondamentale: il fatto che il magistrato non fosse indagato. In un contesto così grave, tale precisazione era indispensabile per fornire un quadro corretto e non ledere la reputazione del soggetto, che era stato semplicemente “lambito” dalle attività di intercettazione per ragioni estranee ai reati per cui si procedeva.

Le Conclusioni

Questa ordinanza offre una lezione importante sul corretto esercizio del diritto di cronaca. La verità di una notizia non si misura solo sulla veridicità dei singoli elementi, ma sulla correttezza e completezza della rappresentazione complessiva. Accostare una persona a un contesto infamante, senza le dovute e chiare precisazioni sulla sua reale posizione, integra la diffamazione a mezzo stampa perché crea una nuova realtà narrativa, falsa e dannosa. I giornalisti e gli editori devono quindi prestare la massima attenzione non solo a ciò che dicono, ma anche a ciò che omettono, poiché un’omissione può alterare la verità e causare un grave danno alla reputazione altrui.

È diffamatorio menzionare una persona in un articolo su un’inchiesta se questa persona non è indagata?
Sì, può essere diffamatorio. La Corte ha stabilito che creare un “forzato collegamento” tra una persona e un’indagine grave a cui è totalmente estranea è lesivo della reputazione, perché crea una notizia nuova e falsa (il suo coinvolgimento), violando il requisito della verità del diritto di cronaca.

L’uso di espressioni come “posizione defilata” è sufficiente per evitare una condanna per diffamazione a mezzo stampa?
No, non è sufficiente. Nel caso di specie, tale espressione è stata considerata parte di un linguaggio “insinuante, allusivo e suggestivo” che non eliminava, ma anzi rafforzava, la portata diffamatoria dell’accostamento indebito a fatti di corruzione.

In un caso di diffamazione a mezzo stampa, il danno alla reputazione deve essere provato in modo specifico?
La Corte afferma che, una volta provata la lesione dei diritti all’onore e alla reputazione (danno-evento), la prova delle conseguenze dannose (danno-conseguenza) può essere fornita anche tramite presunzioni, considerando elementi come la diffusione dello scritto, la gravità dell’offesa e la posizione sociale della vittima.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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