Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 33294 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 33294 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 20973/2023 R.G. proposto da :
COGNOME NOME COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE rappresentati e difesi dagli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE, NOME COGNOME (CODICE_FISCALE
-ricorrente-
contro
COGNOME NOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE)
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di MILANO n. 2172/2023 depositata il 29/06/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 24/10/2024 dal Presidente relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.- I giornalisti COGNOME NOME NOME COGNOME e COGNOME NOME propongono ricorso per cassazione articolato in cinque motivi nei confronti di COGNOME NOME Stefano per la cassazione della sentenza n. 2172 2022 della Corte d’appello di Milano, depositata il 26.9.2023, notificata il 24.7.2023.
2.- Resiste lo COGNOME con controricorso.
-Entrambe le parti hanno depositato memoria.
4.- Questa la vicenda, per quanto ancora di interesse in questa sede:
-i ricorrenti nel 2009 pubblicavano il libro ‘A Milano comanda la ndrangheta’, nel quale denunciavano una sinergia operativa in investimenti illeciti tra elementi della criminalità organizzata italiana e gruppi stranieri, narrando le vicende della famiglia COGNOME COGNOME, la vendita della villa di Arcore e dei terreni annessi da parte di NOME COGNOME e l’acquisto degli stessi da parte del costruttore NOME COGNOME. Nell’ambito di questa nota vicenda si inseriva la proposta da parte di Tornado Gest, società riconducibile allo COGNOME,rivolta al Comune di Muggiò e finalizzata all’apertura di una multisala composta di cinque sale all’interno di un’area destinata a parco pubblico. Nel libro si raccontava che la Regione Lombardia bocciava il progetto, COGNOME impugnava la decisione al TAR e otteneva l’annullamento, diveniva sindaco NOME COGNOME e il Comune di Muggiò decideva di non impugnare la sentenza del Tar. L’anno successivo il piano di lottizzazione non solo era confermato ma veniva approvato un piano integrativo che
portava il progetto di multisala da edificarsi in Comune di Muggiò, composto di 23.000 abitanti, da cinque a quindici sale. Il Comune di Muggiò quando la sala fu completata negò il permesso di inaugurare, mancando ancora l’agibilità, il collaudo e finanche la strada di accesso, vietando con diffida formale lo svolgimento di attività diverse da quelle di cantiere.
Si racconta nel libro che l’inaugurazione fu organizzata ugualmente e che alla stessa partecipò anche lo COGNOME.
Nel libro si adombra che fu proprio il sindaco COGNOME che decise di non impugnare la decisione del TAR sfavorevole al Comune e si ipotizza un rapporto amichevole tra NOME COGNOME e il sindaco COGNOME, indicando che fossero stati raffigurati abbracciati in molte occasioni pubbliche (‘Forse però, c’è un’altra verità, immortalata nelle foto che ritraggono NOME COGNOME e il NOME COGNOME abbracciati come due fidanzatini in molte occasioni pubbliche’).
4.1. – Lo COGNOME presentava querela per diffamazione, ed aveva luogo il processo penale: il Tribunale di Milano dichiarava i ricorrenti colpevoli di diffamazione a mezzo stampa, la Corte d’appello di Milano li assolveva perché il fatto non costituisce reato inquadrando l’attività svolta, come già il giudice di primo grado, nell’ambito del diritto di critica e non del diritto di cronaca.
4.2.- COGNOME parte civile, proponeva ricorso per cassazione e la Cassazione penale con la sentenza n. 34121 del 2019, cassava la sentenza d’appello con rinvio al giudice civile per un nuovo esame: -riteneva in primo luogo che la sentenza impugnata, avendo ribaltato l’esito del giudizio di primo grado, non avesse rispettato
l’obbligo di fornire una motivazione rafforzata;
-riteneva inoltre che la corte d’appello avesse riconosciuto l’esimente del diritto di critica senza preliminarmente procedere alla necessaria verifica della veridicità dei fatti (necessaria sia ai fini
del riconoscimento del legittimo esercizio del diritto di critica che del diritto di cronaca).
La sentenza della cassazione penale conclude affermando che ‘ Contrariamente a quanto sostenuto nella sentenza della Corte di appello, la incompletezza della rappresentazione dell’iter amministrativo da parte degli imputati non è irrilevante, in quanto le lacune, secondo quanto segnalato dal Tribunale, hanno avuto ad oggetto proprio quegli elementi che avrebbero potuto indurre il lettore a concludere per la correttezza dell’operato dello COGNOME ‘.
4.3. – La Corte d’appello di Milano, giudice civile competente per valore in grado di appello cui veniva rinviata la causa, con sentenza del 2020 riteneva già passata in giudicato, sulla base delle affermazioni del giudice penale, l’affermazione di colpevolezza e responsabilità dei giornalisti e procedeva direttamente alla liquidazione del danno, condannando i due giornalisti a risarcire i danni all’ex sindaco nella misura di 20.000 euro.
4.4. – I COGNOME e COGNOME ricorrevano per cassazione contro la predetta sentenza laddove conteneva l’errata affermazione dell’avvenuto passaggio in giudicato dell’accertamento della loro responsabilità penale e la Corte di Cassazione, con ordinanza n. 16169 del 2022, accoglieva il ricorso e cassava la sentenza della Corte d’appello di Milano lasciando inalterata la riconduzione della pubblicazione del libro all’esercizio dell’attività di critica. L’indicata ordinanza n. 16169 del 2022 affermava che: ‘ all’intervenuta cassazione della sentenza assolutoria di appello non può ricollegarsi alcun effetto di riviviscenza della pronuncia di condanna resa in prime cure, giacché, come si è detto, è la sentenza di secondo grado che “è destinata a prendere il posto di quella di primo grado, che, pertanto, non rivive per l’effetto della cassazione con rinvio della pronuncia d’appello” (cfr. in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. n. 15859 del 2019, cit.).
4.6. – Lo COGNOME riassumeva nuovamente la causa, chiedendo la condanna dei due giornalisti al risarcimento dei danni per diffamazione aggravata per mezzo della stampa e davanti alla Corte d’appello di Milano si svolgeva nuovamente il giudizio ex art. 622 c.p.p.
4.7. La corte d’appello con la sentenza qui impugnata confermava la condanna a suo tempo emessa, per lo stesso importo.
La corte riteneva l’obiettivo contenuto diffamatorio dello scritto in quanto gli autori a più riprese rappresentavano il sindaco come un soggetto che intendeva favorire per rapporti amicali l’imprenditore COGNOME coinvolto in vicende giudiziarie e procedimenti penali perché ritenuto colluso con la ‘ndrangheta.
Senza in effetti qualificare con precisione se l’attività svolta fosse riconducibile all’esercizio dell’attività di critica giornalistica o di cronaca, la corte d’appello affermava che dovesse escludersi la sussistenza della scriminante del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica perché nel libro non era rispettato il criterio obiettivo della veridicità della notizia e pertanto dichiarava i COGNOME e COGNOME responsabili degli illeciti e li condannava al risarcimento dei danni per 20.000 €.
Sosteneva che non solo i rapporti ma anche l’esistenza delle varie fotografie che ritraevano COGNOME e COGNOME in rapporti confidenziali non erano provati, perché esisteva una sola foto che li ritraeva insieme, all’inaugurazione della multisala, nella quale il sindaco e l’imprenditore peraltro comparivano entrambi ma non abbracciati. Quindi la Corte d’appello riteneva che tutte le affermazioni contenute nel libro in relazione allo COGNOME, sia quanto ai rapporti confidenziali con lo COGNOME, sia quanto ai riscontri di essi, costituiti esclusivamente dalle foto, risulterebbero smentite dai fatti o comunque non supportate da alcuna prova e quindi -stante il contenuto oggettivamente diffamatorio delle dichiarazioni- escludeva la possibilità di attivare la scriminante.
La Corte d’appello riteneva poi che il libro pubblicato dai convenuti fosse riconducibile ad un’attività non di critica ma di cronaca giudiziaria in cui l’unico aspetto politico era rappresentato dal ruolo di amministratori pubblici ricoperto da alcuni dei personaggi citati; inoltre afferma che quand’anche si dovesse considerare il libro come esercizio di critica politica non potrebbe ritenersi operante la scriminante perché l’esercizio del diritto di critica deve pur sempre muovere dalla attribuzione di fatti veri (richiama a questo proposito la precedente sentenza di legittimità n. 34121 del 2019, resa sempre nell’ambito del presente giudizio). 5.- La causa è stata avviata alla definizione in camera di consiglio, all’esito della quale il Collegio ha riservato il deposito della decisione nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2909 c.c. nonché dell’articolo 384 c.p.c. secondo comma e dell’articolo 595 c.p. in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c. laddove la sentenza impugnata ha mutato la qualificazione dello scritto (in termini di esercizio del diritto di critica) contenuto in ben due sentenze della Suprema Corte in esercizio del diritto di cronaca e cronaca giudiziaria, violando in questo modo il giudicato interno implicito formatosi sulla qualificazione dello scritto.
2. – Con il secondo motivo denunciano la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043 c.c., 34 c.p.c. dell’articolo 51 comma primo e 595 del codice penale in relazione all’articolo 360 numero 3 c.p.c., là dove la parte che si riteneva lesa avendo formulato domanda di accertamento incidentale del reato di diffamazione in sede civile tale accertamento rimaneva fuorviato dall’errato iter di qualificazione dello scritto con conseguente errata individuazione del nucleo di verità in esso contenuto.
2.1. -Il primo e il secondo motivo possono essere trattati congiuntamente in quanto connessi e devono ritenersi infondati .
I ricorrenti sostengono che si sarebbe formato un giudicato interno implicito sulla qualificazione della domanda, in termini di esercizio del diritto di critica, e non di cronaca, ad opera delle due pronunce di legittimità precedentemente intervenute, e che, benché il presupposto della veridicità dei fatti sia sotteso all’applicabilità dell’esimente dell’esercizio del diritto in entrambi i casi, esso sia inteso nelle due distinte ipotesi con differente rigore, e quindi che la questione della qualificazione della domanda, in termini di esercizio del diritto di critica o di cronaca, rilevi perché diversi sarebbero i presupposti.
Deve escludersi a tal proposito l’intervenuta formazione del giudicato interno, atteso che l’ordinanza n.16169 2022 di questa Corte, avente ad oggetto la cassazione della precedente sentenza della Corte d’appello di Milano, demandava nuovamente al giudice di merito non solo la quantificazione del danno ma la verifica della sussistenza della diffamazione, e quindi anche la riconducibilità dell’attività integrante il fatto lesivo all’una o all’altra ipotesi, di esercizio del diritto di cronaca o di critica, e la verifica della applicabilità dell’esimente, e tanto ha fatto la corte d’appello.
In ogni caso, la ratio decidendi della sentenza impugnata si fonda sulla affermazione, non tenuta in conto dai ricorrenti, secondo la quale il presupposto della veridicità dei fatti -nel caso di specie mancante si pone alla base del riconoscimento dell’esimente sia del legittimo esercizio del diritto di critica sia del diritto di cronaca, e quindi, a prescindere dalla qualificazione, ha escluso che la scriminante (‘esercizio del diritto’) fosse invocabile mancandone il presupposto fondamentale, in riferimento a tutte le sue possibili declinazioni.
L’affermazione della libertà giornalistica di comporre una sequenza di fatti traendone una lettura personale, valutativa, che è
il portato della critica, non contrasta con la necessità che questi fatti, sui quali si fonda l’esercizio della critica, siano storicamente avvenuti per come riportati: è il collegamento tra di essi, la ricostruzione del contesto che costituisce esercizio della critica, ma non può ritenersi consentita, neppure in quella sede, l’alterazione dei fatti storici, perché la stessa analisi critica non avrebbe più alcun fondamento.
3. – Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 2697 c.c., 34 e 115 c.p.c., 51 e 595 del codice penale laddove la sentenza impugnata è incorsa in un errore di ripartizione dell’onere della prova nonché nella violazione del principio per cui la decisione deve fondarsi sulle allegazioni e sulle prove offerte dalle parti, non avendo preteso dall’odierno controricorrente la prova della diffamatorietà dell’altrui condotta, soltanto allegata.
Il motivo è in primo luogo inammissibile, perché teso ad una rivalutazione delle risultanze istruttorie.
Inoltre, in tema di diffamazione la prova che deve fornire la parte che assume di essere stata danneggiata non è necessariamente una prova materiale, che si fondi su riscontri esterni (la perdita di occasioni di guadagno, la ricezione di comunicazioni di disistima) ma si sviluppa nella sottoposizione al giudice della propria ipotesi ricostruttiva in ordine alla valenza denigratoria della condotta altrui.
4. – Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano la violazione degli articoli 132 numero 4, 595 c.p. e 21 della Costituzione nonché dell’articolo 10 della Cedu, laddove la sentenza impugnata afferma la diffamatorietà dello scritto incriminato con motivazione apparente o illogica.
Il motivo è infondato .
Premesso che la valutazione della diffamatorietà della condotta è giudizio in fatto, incensurabile in sede di legittimità se motivato, nel
caso di specie la corte d’appello enuclea i punti che ritiene determinanti ai fini della potenzialità diffamatoria della condotta, evidenziando motivatamente che, per esporre più coloritamente la propria tesi, legata più in generale alle attività economiche illecite dello Zaccaria, con il coinvolgimento di alcuni amministratori locali, i ricorrenti abbiano colorito ad arte i fatti non rispettando il requisito della veridicità.
5. -Infine, con il quinto motivo , i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 2059 c.c., 595 terzo comma c.p., laddove la pronuncia da un lato afferma che nella diffamazione il danno non è in re ipsa necessitando di prova, dall’altro utilizza delle mere presunzioni per fondare l’esistenza di questo danno non tenendo conto delle risultanze processuali.
Anche questo motivo è infondato .
L’affermazione che non vi sia spazio per la risarcibilità di un danno in re ipsa , perché dell’esistenza e dell’entità del danno la parte deve comunque fornire la prova, non esclude il ricorso alla prova presuntiva: la sentenza impugnata non si è discostata dai principi più volte affermati in materia, secondo i quali in tema di responsabilità civile per diffamazione, il pregiudizio all’onore ed alla reputazione, di cui si invoca il risarcimento, non è “in re ipsa”, identificandosi il danno risarcibile non con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le conseguenze di tale lesione, sicchè la sussistenza di siffatto danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova, anche attraverso presunzioni, assumendo a tal fine rilevanza, quali parametri di riferimento, la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (Cass. n.8861 del 2021).
In ordine alla quantificazione, poi, il procedimento utilizzato dalla sentenza impugnata è corretto e la esplicitazione di esso in motivazione è precisa: la sentenza ha correttamente fatto uso dei parametri individuati dall’Osservatorio sulla giustizia di Milano,
richiamati nella decisione: ha ricondotto l’entità del pregiudizio alla seconda delle cinque possibili categorie di intensità (pregiudizio di modesta entità), ed ha poi provveduto alla concreta quantificazione, entro il range corrispondente, tenuto conto delle circostanze di fatto indicate come rilevanti a tale scopo dalle tabelle stesse (notorietà della persona, diffusione della notizia, mancata rettifica successiva).
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.
Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e la parte ricorrente risulta soccombente, pertanto è gravata dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dell’ art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Pone a carico della parte ricorrente le spese di giudizio sostenute dalla parte controricorrente, che liquida in complessivi euro 3.500,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali ed accessori.
Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.
Così deciso nella camera di consiglio della Corte di cassazione il 24