Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 31034 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 31034 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/12/2024
Oggetto: Distanze
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 4784/2022 R.G. proposto da
NOME COGNOME rappresentata e difesa, congiuntamente e disgiuntamente, dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso il dottor NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente –
contro
COGNOME NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME nel cui studio in Adelfia (BA), INDIRIZZO è elettivamente domiciliata.
-controricorrente – avverso la sentenza n. 2104/2021 emessa dalla Corte d’Appello di Bari il 09/11/2021, depositata il 14/12/2021 e notificata in pari data a mezzo pec;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 7 novembre 2024 dalla dott.ssa NOME COGNOME
Rilevato che:
1. NOME COGNOME premesso che le case a schiera del complesso edilizio realizzato in Adelfia, tra INDIRIZZO e INDIRIZZO si affacciavano su un’area inedificata avente le caratteristiche di un cortile, buona parte del quale aggregato alla proprietà di NOME COGNOME e che quest’ultima vi aveva impiantato una siepe dell’altezza di metri 2.00, e installato una stuoia alta a ridosso del confine senza rispettare le distanze e con spirito meramente emulativo, oltre ad avere ampliato la mensola di un balcone fino a raggiungere i muri perimetrali e alcune vedute di sua proprietà e fatto costruire una scala metallica di collegamento del balcone con la porzione cortilizia idonea a consentire di inspicere negli interni della sua casa, convenne in giudizio la medesima affinché venisse dichiarato che la suddetta area inedificata aveva natura condominiale e assolveva alla funzione di dare luce ed aria a tutte le unità abitative che vi si affacciavano e affinché venisse pronunciata condanna della convenuta alla rimozione della siepe e della stuoia e alla riduzione a distanza legale della mensola del balcone così come prolungata, oltre al risarcimento dei danni. Costituitasi in giudizio, NOME COGNOME contestò preliminarmente l’ammissibilità della ATP instaurata dalla controparte e chiese il rigetto della domanda, proponendo a sua volta domanda riconvenzionale volta ad ottenere l’accertamento del proprio diritto di parcheggio sull’area ad esso destinata e la condanna dell’attrice alla chiusura delle vedute realizzate in spregio alle norme sulle distanze e del regolamento edilizio e alla cessazione dello stillicidio operato dalla stessa attraverso lo sciorinamento dei panni.
Con sentenza n. 463/2019 del 4/2/2019, il Tribunale accolse parzialmente la domanda attorea, dichiarando che l’area inedificata aveva natura di cortile condominiale con funzione di assicurare luce e aria alle abitazioni prospettanti su di essa e che l’ampliamento del bancone, cui era stata aggiunta una scala metallica, era avvenuto in violazione delle distanze, mentre così non era con riguardo alla siepe e alla stuoia, e rigettò le altre domande.
Il giudizio di gravame, incardinato da NOME COGNOME, si concluse, nella resistenza di NOME COGNOME che spiegò appello incidentale in ordine alla siepe, alla stuoia e alla ripartizione delle spese legali, con la sentenza n. 2104/2021, pubblicata il 14/12/2021, con la quale la Corte d’Appello di Bari rigettò l’appello principale e accolse parzialmente quello incidentale, compensando in misura di 1/3 le spese di c.t.u. e di a.t.p. e ponendo i residui 2/3 a carico di NOME.
Contro la predetta sentenza, NOME COGNOME propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. NOME COGNOME si è difesa con controricorso.
Questa Corte ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti.
In seguito a tale comunicazione, la ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
Fissata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ., le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Considerato che :
Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 6, comma 1, della Convenzione europea
dei diritti dell’uomo, 111, sesto comma, Cost., 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., 118, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., perché la Corte d’Appello, a fronte delle doglianze sulle molteplici criticità ravvisabili nelle conclusioni peritali e nella sentenza di primo grado che le aveva acriticamente recepite, aveva adottato una decisione che non consentiva di far conoscere l’ iter logico seguito per la formazione del proprio convincimento. I giudici non avevano, infatti, spiegato perché gli elaborati grafici allegati ai P.d.C. 67/2006 e 19/2007, riguardanti esclusivamente l’ampliamento della camera da letto, avessero una caratura probatoria maggiore rispetto ai progetti di cui alla licenza originaria n. 21/1978, riguardante l’intero immobile, perché il ragionamento deduttivo del c.t.u. sul disallineamento tra succielo e sottostante soletta del balcone resistesse alle critiche mosse dal c.t.p., e perché non fosse stato valorizzato né il fatto che, se il balcone fosse stato effettivamente lungo cm. 225 anziché cm. 300, la porta finestra del corrispondente vano cucina si sarebbe trovata a metà tra il balcone e il vuoto, né il fatto che l’imprenditore edile, Valdera NOME, avesse affermato di avere lasciato inalterate le dimensioni del balcone, limitandosi ad effettuare lo scasso della parte sottostante e della soletta.
2. Col secondo motivo, si lamenta il grave travisamento della c.t.u. e delle prove documentali, l’errore di valutazione logicogiuridico, la violazione degli artt. 115, 116 cod. proc. civ., 61 e 62 disp. att. cod. proc. civ., 2697 cod. civ., 111, sesto comma, Cost., 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., 118, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., perché i giudici d’appello avevano errato nella distribuzione dell’onere della prova, giacché sarebbe stato onere della controparte dimostrare che il balcone era stato allungato con gli interventi del 2006, come da essa dedotto. Invece i
giudici, anziché considerare che il balcone aveva mantenuto le stesse dimensioni realizzate originariamente nel 1978, avevano ritenuto provato detto allungamento, senza considerare che, una volta accertata l’identità di dimensioni del balcone attuale rispetto a quello originariamente progettato, si sarebbe dovuta fornire la prova, in realtà neppure mai dedotta, che detta porzione era stata originariamente realizzata in difformità dal titolo edilizio e successivamente riportata alle dimensioni progettate originariamente, mentre avevano accolto l’erroneo ragionamento deduttivo svolto dal c.t.u..
3. Col terzo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. sei, comma 1, CEDU, sesto comma, Cost., 132, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., 118, primo comma, disp. att. cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., perché i giudici di merito avevano respinto l’appello riguardante la domanda riconvenzionale, sostenendo che nessun rilievo la c.t.p. avesse sollevato relativamente alle distanze asseritamente violate e che il c.t.u. avrebbe dovuto rilevare che dette violazioni non potessero ricavarsi automaticamente dal prospetto dello stato dei luoghi a firma del medesimo c.t.p. e che la deducente avesse genericamente lamentato l’illegittimità delle vedute della controparte, senza specificare quante di esse violassero le distanze e quali fossero le effettive distanze tra le vedute e il confine. I giudici non avevano, invece, considerato, ad avviso della ricorrente, che la censura era tanto generica quanto aspecifica era la motivazione del Tribunale (principio di correlazione) e che i motivi specifici di impugnazione erano solo gli elementi individuatori della parte di sentenza appellata, comprensivi di tutte le questioni di fatto e di diritto sollevate (principio di devoluzione), e avevano altresì ignorato che il c.t.u. avesse accertato la violazione della COGNOME, quanto alle ringhiere, che quest’ultima non avesse mai contestato la violazione delle
distanze legali con conseguente non necessità della relativa prova, che la realizzazione di ulteriori finestre a distanza non regolamentare, oltre a quelle aperte nel 1978 costitutive di una servitù per destinazione del padre di famiglia, desse luogo ad un aggravamento della servitù e che la circostanza su numero e ubicazione delle finestre (una al primo piano e tre al piano terra, tutte site sulla parete di prospetto della proprietà COGNOME che affaccia sul cortile interno) fosse sempre stata dedotta fin dalla comparsa di costituzione in primo grado e accertata dal c.t.p. e dal c.t.u.,
I tre motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto tutti afferenti al difetto di motivazione della sentenza impugnata e, quanto al secondo e al terzo, all’omesso esame di fatti, sono inammissibili.
Come questa Corte ha più volte avuto modo di affermare, la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella ‘motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Cass., Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. 5, 6/5/2020, n. 8487).
In particolare, la motivazione è solo apparente e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. U, 03/11/2016, n. 22232).
Tali principi non sono stati violati nel caso in esame. La Corte d’Appello, infatti, ha innanzitutto condiviso quanto già accertato dal giudice di primo grado, allorché ha stabilito che la situazione di progetto e quella di variante del 2006 e del 2007 non prevedessero alcun ampliamento del balcone e che il sopralluogo avesse consentito di appurare sia l’esistenza di una difformità tra la situazione rilevata rispetto a quella emergente dagli elaborati grafici (di progetto e di variante), sia la violazione delle distanze, per poi prendere posizione sulle deduzioni dell’appellante in ordine all’identità della situazione attuale con quella risultante dal progetto originario del 1978, sostenendo che esse fossero superate dalle risultanze documentali sopra evidenziate e che nessuna deduzione fosse stata svolta in merito alla realizzazione dell’attività edificatoria contestata successivamente al 1978, né specifica censura fosse stata sollevata in ordine alle misure dell’allungamento del balcone, come accertate da c.t.u., con ulteriore aggiunta della scala e violazione delle distanze legali.
Quanto poi alle censure afferenti alla domanda riconvenzionale spiegata dalla ricorrente, i giudici di merito hanno affidato la pronuncia di reiezione a tre ordini di considerazioni, riconducibili non soltanto alla genericità della domanda con riguardo alla illegittimità delle vedute aperte dalla
contro
parte, come lamentato con la censura, ma anche alla mancata evidenziazione di errori negli accertamenti compiuti dal c.t.u. sul punto, non rilevati dal c.t.p., e all’impossibilità di ricavare l’esistenza di violazioni dal prospetto dello stato dei luoghi redatto dal c.t.p. e allegato alla memoria ex art. 183 cod. proc. civ., sostanzialmente evidenziando difetti sia di allegazione, sia di prova, questi ultimi non prospettati nella terza censura.
Esclusa dunque la lamentata insussistenza della motivazione, avendo i giudici di merito dato conto delle ragioni della decisione assunta, deve altresì considerarsi come la valutazione delle prove raccolte costituisca un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili con il ricorso per cassazione e, in particolare, come l’omesso esame di alcune prove, quali quelle elencate nel secondo motivo, possa essere denunciata al giudice di legittimità solo nel caso in cui esse abbiano determinato l’assenza di motivazione su un punto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non esaminata sia idonea in concreto a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito (Cass. 29/10/2018, n. 27415; Cass. 19/07/2021, n. 20553; Cass., Sez. 1, 3/7/2023, n. 18857), aspetto questo non ravvisabile nella specie.
Del resto, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito
oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass., Sez. 1, 26/9/2018, n. 23153; Cass., Sez. 3, 10/6/2016, n. 11892), come detto non rilevabile nel caso di specie, sia perché la contestazione della persuasività del ragionamento del giudice di merito nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza della motivazione, non più censurabile secondo il nuovo parametro di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., sia perché con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, contrapponendovi le proprie, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie concreta operate dai giudici del merito, trattandosi di accertamento di fatto, precluso in sede di legittimità ( ex plurimis Cass., Sez. 1, 6/11/2023, n. 30844; Cass., Sez. 5, 15/5/2018, n. 11863, Cass., Sez. 6-5, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. 1, 2/8/2016, n. 16056).
Peraltro, se anche la doglianza sulla mancata valutazione delle circostanze elencate nella seconda censura fosse da qualificare come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, esso rientrerebbe ne ll’ipotesi di c.d. «doppia conforme», prevista dall’art. 348 -ter , quinto comma, cod. proc. civ. (applicabile, ai sensi dell’art. 54, comma 2, del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre 2012), che impone al ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (nel testo riformulato dall’art. 54, comma 3, del d.l. n. 83 cit. ed applicabile alle sentenze
pubblicate dal giorno 11 settembre 2012) -di indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (per tutte, Cass., Sez. 5, 18/12/2014, n. 26860; Cass., Sez. 5, 11/05/2018, n. 11439; Cass., sez. 1, 22/12/2016, n. 26774; Cass., sez. L., 06/08/2019, n. 20994), incombente questo rimasto nella specie inadempiuto.
In conclusione, dichiarata l’inammissibilità e infondatezza delle censure, il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza e devono essere poste a carico della ricorrente.
Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380-bis cod. proc. civ. -il terzo e il quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., con conseguente condanna della ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento di una ulteriore somma – nei limiti di legge – in favore della cassa delle ammende.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in € 200,00 ed agli accessori di legge;
condanna altresì il ricorrente, ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ., al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma ulteriore liquidata in € 3.500,00, nonché al pagamento della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende;
dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del