Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 34654 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 2 Num. 34654 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 19298/2019 R.G. proposto da: NOME NOME, NOME e NOME NOME, in qualità di eredi di COGNOME NOME, rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati presso lo studio della seconda in Roma, INDIRIZZO; -ricorrenti-
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
nonché contro
COGNOME NOMECOGNOME
-intimata-
per la cassazione della sentenza della Corte di appello di Venezia n. 1785/2018, depositata il 22 giugno 2018.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12 novembre 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Udito l’avvocato NOME COGNOME per delega dell’avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1. -Con atto di citazione, notificato in data 13 aprile 1991, NOME COGNOME conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Venezia, NOME COGNOME quale titolare della ditta RAGIONE_SOCIALE proponendo opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso in data 18 marzo 1991 dallo stesso Tribunale, con il quale si intimava il pagamento della somma di lire 27.080.830, portata da fattura n. 3 del 7 gennaio 1991 relativa a forniture di serramenti. Deduceva l’opponente che nessuna fornitura di serramenti era stata ef fettuata nel termine essenziale fissato al 20 ottobre 1990, in funzione dell’inizio dell’attività commerciale che doveva iniziare nei locali, pur avendo l’opponente versato un acconto di lire 10.000.000 oltre IVA, e con lettera del 3 dicembre 1990 il legale del committente aveva quindi dato comunicazione dell’intervenuta risoluzione del contratto. Precisava che era già pendente innanzi al Tribunale di Treviso altro giudizio nel quale aveva chiesto la risoluzione del contratto, la restituzione d ell’acconto versato e il risarcime nto dei danni. Chiedeva preliminarmente la sospensione del giudizio in attesa della definizione della causa preventivamente promossa e nel merito la revoca del decreto ingiuntivo e il rigetto di ogni domanda avversaria.
Si costituiva l’opposto chiedendo la conferma del decreto ingiuntivo.
Con ordinanza in data 25 ottobre 1994 il Tribunale di Venezia, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., sospendeva il giudizio fino alla definizione della causa pendente innanzi al Tribunale di Treviso.
Con sentenza n. 861 del 2003, il Tribunale di Treviso pronunciava la risoluzione del contratto concluso tra NOME COGNOME e la ditta RAGIONE_SOCIALE di NOME COGNOME per inadempimento di quest’ultima , che condannava alla restituzione dell’acconto e al pagamento della somma di lire 30.000.000 a titolo di risarcimento danni.
Avverso tale sentenza veniva interposto appello dalla RAGIONE_SOCIALE e la Corte d’Appello di Venezia con sentenza del 22 maggio 2006 riformava la sentenza impugnata respingendo le domande proposte dal COGNOME e condannandolo alla rifusione delle spese.
Su ricorso del COGNOME, la Corte di cassazione con sentenza n. 25432/2013, depositata in data 12 novembre 2013, accogliendo il secondo motivo di ricorso, evidenziava che il giudizio di primo grado era stato incardinato nei confronti della ditta individuale RAGIONE_SOCIALE e quindi si era svolto nei soli confronti del titolare NOME COGNOME mentre l’appello risultava proposto dalla RAGIONE_SOCIALE senza alcuna deduzione né prova della eventuale successione che potesse comportare ex art. 111 cod. proc. civ. un intervento in giudizio: rilevava pertanto la carenza di legittimazione a proporre l’impugnazione in secondo grado e l’inammissibilità dell’appello.
Alla riassunzione della prima causa innanzi al Tribunale di Treviso provvedeva NOME COGNOME con ricorso depositato il 4 maggio 2014 chiedendo, in forza della statuizione di risoluzione del contratto pronunciata del Tribunale di Venezia passata in giudicato, la revoca del decreto opposto e il rigetto della domanda; chiedeva inoltre la condanna degli eredi di NOME COGNOME al ristoro delle perdite patrimoniali conseguenti alle esecuzioni subite in forza della provvisoria esecutorietà del decreto ingiuntivo, e a titolo di responsabilità aggravata ex art. 96 cod. proc. civ., per un importo
complessivo indicato in euro 23.240,56, sostenendo di avere versato lire 10.000.000 (euro 5.164,57) con assegno e di avere subito esecuzioni su orologi per euro 1.046,32 e su una vettura per euro 4.327,24, subendo ancora ragioni di danno in relazione alla differenza tra i valori di mercato dei beni e il ricavato dall’asta.
Si costituivano NOME e NOME COGNOME eccependo preliminarmente la tardività della riassunzione sul rilievo che il giudizio svoltosi innanzi al Tribunale di Treviso doveva ritenersi concluso e definito nei riguardi del dante causa NOME COGNOME già il 3 aprile 2003 con il deposito della sentenza di primo grado, posto che l’appello era stato proposto soltanto dalla RAGIONE_SOCIALE ritenuto soggetto privo di legittimazione, essendo il NOME rimasto del tutto estraneo al procedimento d’appello e a quello di cassazione; essendo per quest’ultimo la sentenza di primo grado passata immediatamente in giudicato, risultava tardiva la riassunzione, con conseguente estinzione del processo ex art. 305 cod. proc. civ. Contestavano di aver ricevuto la somma di lire 10.000.000 e deducevano che la somma di euro 10.538,13 ricavata dall’esecuzione era stata incassata dalla RAGIONE_SOCIALE e non da NOME COGNOME; contestavano pure le differenze di valore dei beni rispetto al ricavato e negavano ogni responsabilità ex art. 96 cod. proc. civ. Eccepivano peraltro la prescrizione quinquennale di ogni richiesta risarcitoria. In via subordinata azionavano, in compensazione, un credito di euro 23.240,56, quale equivalente pecuniario dell’uso e del godimento dei serramenti dalla data di consegna a quella della restituzione.
Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 2499/2015 in data 12 maggio 2015, respingeva l’eccezione di estinzione e dichiarava non dovuto, per effetto della pronunciata risoluzione del contratto, l’importo di lire 27.080.830 portato dal decreto ingiuntivo opposto , condannando gli eredi NOME alla restituzione di quanto ricevuto in forza dello stesso decreto; respingeva la domanda di risarcimento
ex art. 96 cod. proc. civ. di parte opponente e rigettava parimenti la domanda dei NOME volta ad ottenere il pagamento di un corrispettivo per il godimento dei serramenti.
-Avverso tale sentenza hanno interposto appello, con citazione notificata il 6 settembre 2016, NOME COGNOME, NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME ribadendo l’eccezione di tardività della riassunzione e chiedendo che fosse dichiarata l’estinzione del giudizio di opposizione ai sensi dell’art . 305 cod. proc. civ. Nel merito chiedevano la riforma della sentenza impugnata, eccependo la prescrizione della domanda restitutoria di quanto pagato in esecuzione del decreto ingiuntivo, nonché la carenza di legittimazione passiva rispetto a tale domanda e sostenendo la fondatezza del controcredito azionato per conseguire un corrispettivo per l’uso dei serramenti fino alla data della loro restituzione.
Si è costituito NOME COGNOME chiedendo il rigetto dell’impugnazione; in via di appello incidentale ha chiesto la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui non aveva quantificato la misura della condanna alla restituzione delle somme percepite dal NOME in forza del decreto ingiuntivo.
La Corte d’appello di Venezia, in accoglimento dell’appello incidentale e in parziale riforma della sentenza impugnata, ha condannato gli appellanti alla restituzione in favore di NOME COGNOME dell’importo complessivo di euro 10.538,16, con gli interessi legali dalla data della domanda, dichiarando inammissibile la domanda degli appellanti di condanna dell’opponente al pagamento di un equivalente pecuniario per l’utilizzo e il godimento dei serramenti. La sentenza è stata confermata nel resto e le spese processuali sono state poste a carico degli appellanti NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME.
–NOME e NOME hanno proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi.
NOME COGNOME si è costituito con controricorso.
NOME COGNOME non ha svolto attività difensiva.
Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.
In prossimità della pubblica udienza le parti hanno depositato memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. -Con il primo motivo di ricorso si impugna la sentenza nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto che non si possa parlare di rapporti scindibili analoghi alla responsabilità solidale. Secondo quanto dedotto, si tratterebbe di un evidente errore in violazione degli artt. 2258, 2259 e 2560 cod. civ., attesa l’avvenuta cessione/conferimento dell’azienda dalla ditta di NOME COGNOME alla RAGIONE_SOCIALE Ai sensi dell’art. 2259 e 2560 cod. civ. sia il cedente che il cessionario dell’azienda rispondono dei crediti e dei debiti dell’aziend a ceduta. Conseguentemente, nel caso di specie, si configurerebbe una ipotesi di coobbligazione solidale che sorge successivamente alla nascita del rapporto ma che per il resto non si differenzia in nulla dagli altri rapporti di solidarietà (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.).
1.1. -Il motivo è inammissibile.
Questa Corte, con sentenza n. 25432/2013, ha accolto il secondo motivo di ricorso, con il quale era stata dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 81, 100, 111, 339 e 350 cod. proc. civ., art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 4, denunciando nullità della sentenza e del procedimento di appello, per difetto di legittimazione ad impugnare, essendo stato il gravame proposto da soggetto, la “RAGIONE_SOCIALE“, diverso da quello, NOME COGNOME quale titolare della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva instaurato e nei confronti del quale si era svolto il giudizio di primo grado. La Corte ha rilevato che il giudizio di primo grado era stato proposto contro la ditta individuale e si era svolto nei confronti del suo titolare NOME COGNOME che in tale qualità si era
costituito, mentre l’appello risultava proposto dalla società “RAGIONE_SOCIALE, senza alcuna deduzione, né prova, della eventuale successione nella proprietà dell’azienda, che peraltro, ove sussistente e comprovata, avrebbe comportato ex art. 111 cod. proc. civ., comma 3, la facoltà di intervento della società nel giudizio a fianco del convenuto, ma non l’automatica estromissione dello stesso, possibile soltanto nel caso di accordo tra le parti originarie. In siffatto contesto processuale, la Corte evidenzia che il giudice d’appello avrebbe dovuto, anche di ufficio – essendo tenuto alla verifica della sussistenza del relativo presupposto processuale dichiarare l’inammissibilità dell’appello, in quanto il gravame era stato proposto da un soggetto diverso dalle parti del giudizio di primo grado (NOME COGNOME quale titolare della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva instaurato e nei confronti del quale si era svolto il giudizio di primo grado), la cui legittimazione ad impugnare la sentenza non era stata provata e neppure dedotta. Pertanto, la Corte ha cassato la sentenza impugnata, senza necessità di rinvio, con diretta pronunzia dell’inammissibilità dell’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE
La censura in questione risulta inammissibile, essendosi la Corte di cassazione, con la richiamata decisione n. 25432/2013, pronunciata sulla questione dell’esistenza della cessione, escludendo che la RAGIONE_SOCIALE fosse legittimata ad impugnare la pronuncia resa nei riguardi della ditta individuale di NOME COGNOME non essendo stata approvata la successione nell’azienda. In difetto della prova di tale successione non sussiste alcuna obbligazione solidale della RAGIONE_SOCIALE e di NOME COGNOME quale titolare della ditta individuale, essendo unico il rapporto obbligatorio, come rilevato correttamente anche dalla Corte d’appello.
-Con il secondo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 81, 100, 295, 297, 339, 324, 325, 327, 382 comma terzo, e 2909 cod. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc.
civ.). Parte ricorrente ritiene errata la conclusione della corte territoriale in quanto, anche se si ammettesse che il rapporto resta unico, in ogni caso non si potrebbe non riconoscere il giudicato sostanziale sul rapporto NOME/NOME COGNOME che è rimasto estraneo al giudizio di gravame. La Corte territoriale invece ha deciso come se l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE avesse gli effetti di un valido atto di impugnazione, idoneo a instaurare un valido rapporto processuale anche tra NOME e COGNOME Conseguentemente, l’atto notificato da RAGIONE_SOCIALE non potrebbe aver prodotto gli effetti dei mezzi di impugnazione previsti da ll’ art. 323 cod. proc. civ., ossia impedire il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado ex art. 324 cod. proc. civ.
Con il terzo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2943 e 2945 cod. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) , per avere la sentenza ritenuto l’appello proposto da RAGIONE_SOCIALE (nel giudizio pregiudicante) atto idoneo a impedire la prescrizione nei confronti del cedente.
2.1. -Entrambi i motivi, da trattarsi congiuntamente, sono infondati.
Con sentenza n. 25432/2013 questa Corte ha cassato la sentenza impugnata, senza necessità di rinvio, con diretta pronunzia dell’inammissibilità dell’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE avverso la sentenza della Corte d’appello che aveva riformato la sentenza del Tribunale di Treviso n. 861 del 2003 con cui era stata pronunciata la risoluzione del contratto per inadempimento di NOME COGNOME quale titolare della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE, condannando la ditta RAGIONE_SOCIALE alla restituzione dell’acconto di lire 10.000.000 ed al risarcimento dei danni in misura di lire 30.000.000, oltre agli interessi legali.
Ne consegue che la sentenza del Tribunale di Treviso n. 861 del 2003, riguardante la domanda di risoluzione proposta nei confronti di NOME COGNOME quale titolare della ditta individuale “RAGIONE_SOCIALE“, è
passata in giudicato con il deposito della sentenza n. 25432 del 2013 della Corte di cassazione.
Dalla data di pubblicazione di quest’ultima sentenza decorreva dunque il termine per la riassunzione del processo sospeso ai sensi dell’articolo 297 cod. proc. civ.
Durante la sospensione del processo non possono essere compiuti, ai sensi dell’art. 298, comma 1, cod. proc. civ., atti del procedimento, con la conseguenza che è inefficace, poiché funzionalmente inidonea a provocare la riattivazione del giudizio e motivo di nullità per derivazione di tutti gli eventuali atti successivi, l’istanza di riassunzione proposta prima della cessazione della causa di sospensione, ovvero anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza che abbia definito la controversia pregiudiziale, senza che rilevi, al fine del superamento di detta sanzione, il sopravvenuto venire meno della medesima causa (Cass., Sez. III, 24 gennaio 2020, n. 1580; Cass., Sez. II, 14 febbraio 2013, n. 3718).
Risulta pertanto corretta la decisione della Corte d’appello che ha ritenuto tempestiva la riassunzione.
-Con il quarto motivo di ricorso si contesta la violazione e falsa applicazione dell’art. 297 cod. proc. civ. e dell’ art 125 disp. att. cod. proc. civ. per avere la sentenza accolto la domanda di restituzione di quanto versato dal COGNOME, in esecuzione del decreto ingiuntivo revocato, proposta per la prima volta in sede di riassunzione.
3.1. -Il motivo è infondato.
La domanda di ripetizione delle somme da corrispondersi in forza della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto deve ritenersi implicitamente contenuta nell’istanza di revoca del decreto stesso, senza necessità di esplicita richiesta della parte, atteso che l’azione di restituzione non si inquadra nella condictio indebiti , sia perché si ricollega ad una specifica ed autonoma esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale antecedente,
sia perché in tal caso (come in quello di ripetizione di somme pagate in esecuzione di una sentenza di appello, o di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, riformata in appello) il comportamento dell’ accipiens non si presta a valutazioni di buona fede o mala fede, ai sensi dell’art. 2033 cod. civ., non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà di suoi effetti (Cass., Sez. III, 20 marzo 2006, n. 6098; Cass., Sez. I, 22 maggio 2003, n. 8043).
Non sussiste, pertanto, alcuna inammissibilità relativa alla domanda di restituzione, che può essere formulata in qualsiasi atto del giudizio e persino in sede di precisazione delle conclusioni, essendo stata nella specie proposta in sede di riassunzione.
4. -Con il quinto motivo di ricorso si deduce l ‘ omesso esame di un fatto decisivo per avere la Corte ritenuto dimostrato l’esborso del COGNOME per l’importo di euro 10.538,16 ( ex art. 360 comma 5 cod. proc. civ.). Tuttavia, la Corte d’appello non avrebbe considerato che mancava la dimostrazione del pagamento a NOME COGNOME omettendo di considerare che nessuno dei documenti prodotti ha dimostrato l’incasso. Tale circostanza sarebbe sempre stata contestata dagli odierni ricorrenti.
4.1. -Il motivo è inammissibile.
L’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. VI-L, 8 novembre 2019, n. 28887; Cass., Sez. VI-L, 1 luglio 2015, n. 13448).
Nella specie, la Corte d’appello, alla luce delle risultanze istruttorie, ha ritenuto che la documentazione prodotta fornisse adeguata dimostrazione delle somme corrisposte degli esborsi subiti
dal COGNOME a seguito dell’esecuzione decreti ingiuntivo dichiarato provvisoriamente esecutivo.
I ricorrenti richiedono invero un riesame delle risultanze probatorie, non consentito in sede di legittimità.
-Con il sesto motivo di ricorso si prospetta la questione di legittimità costituzionale degli artt. 297, 324, 382 cod. proc. civ. per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. Qualora questa Corte ritenesse di condividere l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale degli articoli 297, 324, 382 cod. proc. civ. e il loro combinato disposto, secondo la quale l’appello dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione ad impugnare produce nei confronti della parte pretermessa che non ha impugnato gli effetti processuali e sostanziali tipici dei mezzi di impugnazione ex art. 323 cod. proc. civ. ed in particolare, impedire sia il passaggio in giudicato ex art. 324 cod. proc. civ. e 2909 cod. civ., sia il decorso della prescrizione ex art. 2945 cod. civ. e del termine per riassumere ex art. 297 cod. proc. civ. , si chiede che venga sollevata la questione di legittimità costituzione avanti la Corte Costituzionale, in relazione agli articoli 3,24 e 111 della Costituzione.
6.1. -La questione di legittimità appare manifestamente infondata poiché l’interpretazione data dalla Corte di appello risulta pienamente conforme alla costante giurisprudenza di questa Corte. Non si ravvisa alcuna lesione, né riguardo al principio dell’uguaglianza né in relazione al diritto di difesa o di azione.
-Il ricorso va dunque rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 3.400,00 per compensi, oltre ad euro 200,00 per esborsi, alle spese generali nella misura del 15% e agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 -bis, del D.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione