Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 14471 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 14471 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 23/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso 21190-2019 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato AVV_NOTAIO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Ministro pro tempore, RAGIONE_SOCIALE –RAGIONE_SOCIALE PROVINCIA DI TERNI – RAGIONE_SOCIALE IV, RAGIONE_SOCIALE, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, tutti rappresentati e difesi ope
Oggetto
Licenziamenti dimissioni pubblico impiego
R.G.N. 21190/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 18/04/2024
CC
legis dall’RAGIONE_SOCIALE presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, ALLA INDIRIZZO; – controricorrenti – avverso la sentenza n. 107/2019 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 22/05/2019 R.G.N. 284/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/04/2024 dal AVV_NOTAIO.
Rilevato che:
1. c on sentenza n. 107 del 22 maggio 2019 la Corte d’appello di Perugia confermava la sentenza del Tribunale di Terni che aveva rigettato il ricorso di NOME volto all ‘annullamento del licenziamento intimatole nonché alla reintegra nel posto di lavoro in precedenza occupato, oltre che al ristoro del danno patito;
la Corte territoriale osservava che la ricorrente, in sede di domanda di inserimento nelle GAE per gli anni 2014/15, 2015/16, 2016/17, e in occasione della stipula del contratto di lavoro a tempo indeterminato con il dirigente scolastico dell’RAGIONE_SOCIALE, aveva dichiarato di non avere riportato condanne penali, circostanza rivelatasi non veritiera in quanto, all’esito dei controlli posti in essere dall’amministrazione, erano risultati a carico della COGNOME una sentenza di condanna definitiva per omicidio colposo (Appello Roma, irrevocabile il 18 novembre 2006) e una sentenza definitiva di applicazione della pena su richiesta delle parti per resistenza a pubblico ufficiale continuata (Tribunale Terni, irrevocabile il 5 luglio 2008), mai dichiarati in sede di sottoscrizione del contratto individuale di lavoro;
per quanto ancora rileva, la Corte di merito osservava che nel contratto individuale sottoscritto dalla RAGIONE_SOCIALE era prevista la risoluzione del rapporto di lavoro a seguito dell’accertamento della non veridicità del contenuto delle dichiarazioni sostitutive di certificazione, ivi comprese quelle effettuate in sede di reclutamento;
l’art. 95 c.c.n.l. del 2007, recante ‘codice disciplinare’, prevedeva, al comma 8, il licenziamento senza preavviso per l’ipotesi di impiego conseguito «mediante produzione di documenti falsi e, comunque, con mezzi fraudolenti» , in coerenza peraltro con l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000 , il quale contempla la decadenza dai benefici conseguiti grazie alla dichiarazione non veritiera;
non poteva darsi rilievo, inoltre, alla tesi difensiva della ricorrente fondata sulla buona fede (c.d. falso innocuo), posto che NOME COGNOME dichiarava testualmente di non aver riportato condanne penali «iscritte nel casellario giudiziario», né serviva (ancora) addurre che i reati si erano estinti, in quanto la ricorrente doveva dichiarare ‘il dato storico’ dell’avvenuta condanna penale, a prescindere da cosa fosse accaduto in seguito;
la risoluzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato non era dipesa dalla natura dei reati accertati, ma era stata disposta in quanto le dichiarazioni, rese in violazione di specifica clausola contenuta nel contratto individuale, avevano «alterato il quadro conoscitivo dell’amministrazione, mettendo in discussione lealtà e buona fede del dipendente» e la correttezza dei futuri adempimenti, in guisa da denotare «una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di correttezza e buona fede»;
la Corte territoriale evidenziava, infine, che la rilevanza del giudicato penale si desumeva dall’art. 95 co mma 8 c.c.n.l. del 2007, che sanzionava con il licenziamento «d) la condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per specifica gravità»;
4. avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME AVV_NOTAIO sulla base di sei motivi, resistiti con controricorso dal RAGIONE_SOCIALE.
Considerato che:
1. con il primo motivo di ricorso si denuncia, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ. nonché dell’art. 7 della legge n. 300/1970;
la sentenza impugnata avrebbe erroneamente affermato che la risoluzione del rapporto trovava fondamento nella falsità delle dichiarazioni, ma così si andava ultra petitum , ledendo il principio di immutabilità della contestazione disciplinare , «non essendo tale motivazione prevista nel provvedimento da cui origina il presente contenzioso»;
1.1 il motivo è inammissibile;
in tema di ricorso per cassazione, qualora siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorrente deve, a pena di inammissibilità della censura, non solo allegarne l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito ma, in virtù del principio di autosufficienza, anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente ciò sia avvenuto, giacché i motivi di ricorso devono investire questioni già comprese nel thema decidendum del giudizio di appello, essendo preclusa alle parti, in sede di legittimità, la prospettazione di questioni o temi di
contestazione nuovi, non trattati nella fase di merito né rilevabili di ufficio (Cass. SU 26/07/2018, n. 19874; Cass. 09/08/2018, n. 20694; Cass. 24/01/2019, n. 2038);
nella specie, il ricorrente non dimostra di avere originariamente dedotto, e puntualmente riproposto in appello, l ‘eccezione in ordine all a violazione del principio di immutabilità della contestazione;
aggiungasi, per completezza, che il principio di immutabilità della contestazione attiene al complesso degli elementi materiali connessi all’azione del dipendente e se ne può predicare in concreto la violazione qualora venga adottato un provvedimento sanzionatorio che presupponga circostanze di fatto nuove e diverse rispetto a quelle contestate, in modo da menomare il diritto di difesa dell’incolpato, e non certo se il datore proceda a un nuovo apprezzamento o a una diversa qualificazione del medesimo fatto (Cass. 14.12.2022, n. 36666; Cass. 15.6.2020, n. 11540);
nella specie, la ricorrente confonde oltretutto la congruenza tra motivazione della sentenza impugnata e motivazione del provvedimento espulsivo (profilo oggetto della sua doglianza) con il diverso piano della corrispondenza tra i fatti contestati (falsità della dichiarazione di non avere riportato condanne penali definitive) e quelli per i quali la sanzione è stata in concreto irrogata che è (si noti) il solo aspetto che verrebbe in considerazione ai fini del principio di immutabilità della contestazione, qui in alcun modo scalfito;
con la seconda critica (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 75 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 nonché dell’art. 8 d.m. n. 104/20 11 e dell’art. 95 c.c.n.l. 2006/2009, per avere la Corte territoriale sorvolato sull’intenzionalità del comportamento, qui (a suo dire) mancante per l’assoluta buona fede della
ricorrente, la quale si era limitata a compilare un prestampato confidando sulle informazioni reperite dal certificato rilasciato ad uso amministrativo dalla Procura della Repubblica di Terni;
2.1 il motivo è inammissibile perché la ricorrente non si confronta con il decisum , che sottolinea che «ciò che la COGNOME doveva dichiarare era il fatto storico dell’avvenuta condanna penale iscritta al casellario » e che le condanne (anche quella per patteggiamento, stante l’equiparazione ex art. 445 co mma 1-bis cod. proc. pen.) sottaciute nella fase genetica del rapporto, nonostante la specifica clausola contrattuale che comminava il licenziamento per le false dichiarazioni, alteravano «il quadro conoscitiv o dell’amministrazione, impedendole di effettuare le necessarie valutazioni e mettendo in discussione lealtà e buona fede del dipendente e la correttezza dei futuri adempimenti», anche per il rilievo indubbio del giudicato penale valorizzato per la fase estintiva del rapporto dall’art. 95 co mma 8 c.c.n.l. del 2007;
la terza censura è proposta ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione nonché dell’art. 95 comma 1 del c.c.n.l. 2006/2009, avendo la Corte territoriale trascurato che i fatti erano risalenti e che le precedenti condanne (per reati non ricompresi tra quelli di cui al comma 8 art. 95, c.c.n.l., cit., ed ormai estinti) non erano di per sé ostative all’accesso all’impiego pubblico e non recavano alcun pregiudizio per la P.A.;
3.1 il motivo, che non mette direttamente in discussione (si noti) la qualificazione contenuta nella sentenza impugnata in termini di licenziamento disciplinare della vicenda conclusiva del rapporto di lavoro in parola, è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi ;
la Corte d’appello afferma che la risoluzione del contratto di lavoro a tempo indeterminato non è dipesa dalla natura dei reati accertati,
ma era derivata dal fatto che le dichiarazioni, rese in violazione di specifica clausola risolutiva espressa del contratto individuale inter partes , avevano « alterato il quadro conoscitivo dell’amministrazione, impedendole di effettuare le necessarie valutazioni e mettendo in discussione lealtà e buona fede del dipendente» e la correttezza dei futuri adempimenti, denotando «una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di correttezza e buona fede»;
la Corte territoriale non ha mancato di evidenziare, inoltre, che la rilevanza del giudicato penale si evinceva anche, e indirettamente, dall’art. 95 co mma 8 del c.c.n.l. del 2007, che sanzionava con il licenziamento «d) la condanna passata in giudicato per un delitto commesso in servizio o fuori servizio che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per specifica gravità»;
a fronte di tali argomentazioni, sono fuori fuoco le censure della COGNOME, tese a sminuire le condanne per omicidio colposo e per resistenza a pubblico ufficiale continuata e ciò alla stregua del singolare assunto secondo cui «non si può chiedere che il candidato dichiari tutte le condanne, il che oltre a essere ridondante, è contrario al divieto di indagare su fatti personali non rilevanti allo scopo» (vedi a pag. 20 del ricorso per cassazione);
con il quarto mezzo proposto ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ. si lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 49 del cod. pen. nonché dell’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970; si sostiene che il comportamento della NOME era riconducibile al più ad un ‘falso innocuo’ perché adottato in assoluta buona fede, in quanto la compilazione dei
moduli era stata fatta senza consapevolezza della falsità ma con semplice leggerezza;
4.1 il motivo è inammissibile perché, all’esito di vaglio critico del compendio documentale, il giudice d’appello ha concluso, con accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità, che fosse «insostenibile, a fronte del chiaro dato testuale, che la COGNOME abbia potuto ritenere, in buona fede, che la dichiarazione si potesse riferire al certificato del casellario richiesto per uso tra privati»;
è utile rammentare, al riguardo, che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis ; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le più recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110);
il quinto mezzo è formulato ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, integrato dal mancato vaglio del principio di gradualità delle sanzioni disciplinari e di proporzionalità delle stesse;
5.1 con riguardo all’omesso esame, il motivo è inammissibile, in quanto l’interpretazione di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 27415 del 2018) ha chiarito come l’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. (riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134), abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per Cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);
pertanto, l’omesso esame di argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. 14 giugno 2017, n. 14802; Cass. 8 ottobre 2014, n. 21152) o di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (che, nel caso di specie, ha analiticamente analizzato le modalità della condotta, ritenendola meritevole di sanzione espulsiva vuoi per l’esplicita previsione del contratto individuale vuoi per l a disciplina collettiva che all’art. 95 prevedeva ‘la sanzione del licenziamento senza preavviso per l’accertamento che l’impiego fu conseguito mediante produzione di documenti falsi e comunque con mezzi fraudolenti’), ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U. n. 8053 del 2014);
la sesta critica viene formulata ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione art. 18, comma 4, legge n. 300/1970, per avere la Corte territoriale «non tenuto in considerazione il fatto che la RAGIONE_SOCIALE provvedeva in data 28.12.2015 » all’invio di documenti,
sanando «le mancanze e le omissioni rilevate da controparte, causate da colpevole negligenza e prove di volontarietà»;
6.1 il motivo è anch’esso inammissibile, giacché per la censura di violazione di legge è imprescindibile la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza o dalla dottrina, diversamente non ponendosi la Corte regolatrice in condizione di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione (Cass. n. 22499 del 19/10/2006; in termini Cass. n. 15952 del 17/07/2007 e molte altre);
6.2 il motivo si rivela inammissibile anche perché censura, in sostanza, la pronuncia del giudice d’appello per l’ (asserito) omesso esame di materiale istruttorio, sicché all’evidenza impinge nella valutazione di merito riservata al giudice d’appello ;
in conclusione, il ricorso dev’essere dichiarato nel suo complesso inammissibile, con addebito delle spese di legittimità ex art. 91 cod. proc. civ. alla parte soccombente.
p.q.m.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nella Adunanza camerale della Sezione Lavoro