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Dicatio ad patriam: servitù pubblica e usucapione

La Corte di Cassazione, con un’ordinanza interlocutoria, affronta il tema della costituzione di una servitù di uso pubblico tramite ‘dicatio ad patriam’. Il caso riguarda un monumento storico privato, il cui uso pubblico era stato concesso da un Comune. I proprietari contestano la decisione, sostenendo la necessità di un uso ventennale, come per l’usucapione. Rilevando un contrasto giurisprudenziale sulla necessità di tale termine, la Corte ha rinviato la causa a una pubblica udienza per un approfondimento, senza ancora decidere nel merito.

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Pubblicato il 4 ottobre 2025 in Diritto Civile, Diritto Immobiliare, Giurisprudenza Civile

Dicatio ad Patriam: La Cassazione fa il punto sulla Servitù di Uso Pubblico

L’istituto della dicatio ad patriam rappresenta una delle modalità più particolari con cui un bene privato può essere assoggettato a un uso pubblico. Si tratta di un tema complesso, che si colloca al confine tra la volontà del privato e l’interesse della collettività. Con una recente ordinanza interlocutoria, la Corte di Cassazione ha deciso di approfondire un aspetto cruciale: per costituire una servitù di uso pubblico tramite questo istituto, è sufficiente il comportamento del proprietario che destina il bene all’uso pubblico, o è necessario anche un uso protratto per venti anni, come avviene per l’usucapione? Analizziamo la vicenda.

I Fatti del Caso: Un Monumento Storico e l’Uso Pubblico

La controversia nasce dalla richiesta di un Comune di accertare l’avvenuta usucapione di un antico monumento megalitico e dell’area circostante, di proprietà di alcuni privati. Tale area veniva utilizzata anche come sagrato per la vicina chiesa parrocchiale. La domanda di usucapione del Comune veniva rigettata, ma la Corte d’Appello accoglieva la domanda subordinata, riconoscendo la costituzione di una servitù di uso pubblico sui medesimi beni proprio attraverso la dicatio ad patriam.

Secondo i giudici di merito, la volontà di destinare il bene all’uso della collettività era emersa già nel 1952 da parte dell’allora proprietaria, che aveva manifestato l’intenzione di cedere una porzione del terreno per consentire il libero accesso al monumento e al sagrato della chiesa.

Il Ricorso in Cassazione e il contrasto sulla dicatio ad patriam

I proprietari del bene hanno impugnato la sentenza dinanzi alla Corte di Cassazione. La loro tesi principale si fonda su un punto di diritto: la Corte d’Appello avrebbe errato nel considerare la dicatio ad patriam come un modo autonomo di acquisto della servitù, slegato dal requisito temporale dell’usucapione. Secondo i ricorrenti, per far nascere un diritto di uso pubblico non è sufficiente la mera volontà del proprietario, ma è necessario che la collettività utilizzi il bene per almeno vent’anni, come previsto dall’art. 1158 del codice civile.

Questo ricorso ha portato alla luce un contrasto interpretativo all’interno della stessa giurisprudenza di legittimità, creando l’occasione per un intervento chiarificatore.

Le Motivazioni dell’Ordinanza Interlocutoria

La Seconda Sezione Civile della Cassazione, nell’esaminare il caso, ha rilevato l’esistenza di due orientamenti giurisprudenziali divergenti sul tema della dicatio ad patriam.

* Un primo orientamento ritiene necessario, per la costituzione del diritto di uso pubblico, il protrarsi dell’uso stesso per oltre venti anni. Questo requisito temporale servirebbe a distinguere una situazione di effettiva destinazione pubblica da una mera tolleranza del proprietario, che per sua natura è precaria e revocabile.
* Un secondo orientamento, al contrario, sostiene che la messa a disposizione del bene da parte del proprietario, attuata con continuità e senza precarietà, sia di per sé sufficiente a costituire la servitù, senza la necessità di attendere il decorso del termine ventennale. In questa visione, l’atto volontario del proprietario (che può essere attivo o anche omissivo, come il non opporsi all’uso pubblico) è l’elemento centrale che perfeziona la fattispecie.

Dato questo contrasto, la Corte ha ritenuto che la questione meritasse un approfondimento per stabilire se si tratti di un conflitto reale o solo apparente, magari legato alle diverse modalità (attive o omissive) con cui la volontà del proprietario si manifesta. Per tale ragione, ha deciso di non pronunciarsi immediatamente e ha rinviato la causa alla pubblica udienza per una discussione più ampia.

Le Conclusioni

Con questa ordinanza interlocutoria, la Corte di Cassazione sospende il giudizio sul caso specifico per affrontare una questione di massima importanza. La futura decisione avrà un impatto significativo sulla gestione dei beni privati aperti al pubblico, chiarendo definitivamente i presupposti per la costituzione di una servitù di uso pubblico tramite dicatio ad patriam. Si attende ora la pronuncia che dirimerà il contrasto, fornendo un principio di diritto uniforme per tutti i casi futuri.

Cos’è la ‘dicatio ad patriam’?
È un istituto giuridico attraverso il quale il proprietario di un bene privato manifesta, con un comportamento inequivocabile, la volontà di destinarlo in modo permanente all’uso da parte della collettività, creando così una servitù di uso pubblico.

Per costituire una servitù di uso pubblico tramite ‘dicatio ad patriam’ è sempre necessario l’uso del bene per venti anni?
La questione è oggetto di un contrasto giurisprudenziale. Secondo un orientamento, il periodo di vent’anni è necessario per escludere che si tratti di mera tolleranza. Secondo un altro orientamento, è sufficiente la sola volontà del proprietario di mettere a disposizione il bene, manifestata con continuità, senza bisogno del decorso del termine ventennale.

Qual è stata la decisione finale della Corte di Cassazione in questo caso?
La Corte non ha emesso una decisione finale. Con un’ordinanza interlocutoria, ha rilevato il contrasto giurisprudenziale sulla necessità del termine ventennale e ha rinviato la causa a una pubblica udienza per approfondire la questione prima di decidere nel merito.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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