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Dequalificazione professionale: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna di un’azienda pubblica al risarcimento del danno per dequalificazione professionale nei confronti di una dipendente. Dopo averle riconosciuto mansioni superiori, l’azienda l’aveva successivamente privata di responsabilità e risorse. La Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, ribadendo che la valutazione dei fatti spetta ai tribunali di merito e che l’onere di provare la legittimità del cambio di mansioni grava sul datore di lavoro.

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Pubblicato il 27 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Dequalificazione professionale: chi deve provare cosa?

La dequalificazione professionale è una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro, poiché incide direttamente sulla dignità e sulla carriera del lavoratore. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito chiarimenti cruciali su temi come l’onere della prova e il risarcimento del danno, confermando la tutela del dipendente ingiustamente demansionato.

I fatti del caso

Una dipendente di un’importante agenzia di riscossione aveva ottenuto il riconoscimento di mansioni superiori, vedendosi inquadrata prima nel 3° e poi nel 4° livello retributivo dei Quadri. Per anni, le era stata affidata la responsabilità del contenzioso tributario per un’intera provincia, con competenze poi estese a livello regionale. Tuttavia, a partire dal 2013, la lavoratrice veniva privata di tale responsabilità, venendo assegnata a una struttura con competenza limitata e un numero inferiore di risorse da coordinare. Ritenendo di aver subito un ingiusto demansionamento, la dipendente si è rivolta al Tribunale, che le ha dato ragione, condannando l’azienda al risarcimento del danno. La decisione è stata confermata anche dalla Corte d’Appello.

La decisione della Corte di Cassazione

L’azienda, non accettando le due sentenze sfavorevoli, ha presentato ricorso alla Corte di Cassazione, lamentando un’errata valutazione delle prove e una violazione delle norme sul demansionamento. La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso, condannando l’azienda a pagare le spese legali. La decisione si fonda su principi consolidati del nostro ordinamento processuale e del diritto del lavoro.

Le motivazioni della Corte sulla dequalificazione professionale

La Corte ha innanzitutto dichiarato inammissibile il primo motivo del ricorso, con cui l’azienda cercava di ottenere una nuova valutazione delle prove testimoniali e dei documenti. I giudici hanno ricordato che la Corte di Cassazione è un giudice di legittimità, non di merito. Il suo compito non è rivalutare i fatti, ma verificare che i giudici dei gradi precedenti abbiano applicato correttamente la legge. Proporre una diversa interpretazione delle prove equivale a trasformare il giudizio di Cassazione in un terzo grado di merito, cosa non consentita dalla legge, specialmente in presenza di una “doppia conforme”, ovvero due sentenze uguali nei primi due gradi.

Sul secondo motivo, relativo al risarcimento del danno, la Corte ha sottolineato che, in caso di dequalificazione professionale, spetta al datore di lavoro dimostrare l’esatto adempimento dei suoi obblighi. In altre parole, è l’azienda a dover provare che il cambio di mansioni non costituiva un demansionamento o che era giustificato da legittime ragioni imprenditoriali o disciplinari. Se non fornisce tale prova, si presume l’inadempimento.

Il lavoratore, dal canto suo, può provare l’esistenza del danno (di natura patrimoniale) anche attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti. Elementi come la qualità e la quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, la durata del demansionamento e il tipo di professionalità colpita sono sufficienti per consentire al giudice di determinare l’entità del risarcimento, anche in via equitativa.

Conclusioni

L’ordinanza riafferma un principio fondamentale a tutela del lavoratore: in un caso di demansionamento, l’onere della prova è a carico del datore di lavoro. Non è il dipendente a dover dimostrare l’illegittimità della condotta aziendale, ma è l’azienda a dover provare la sua correttezza. Questa decisione consolida un orientamento giurisprudenziale che protegge la professionalità del lavoratore come bene giuridicamente rilevante, la cui lesione deve essere risarcita. Per le aziende, ciò significa che ogni modifica delle mansioni di un dipendente deve essere attentamente ponderata e, se contestata, adeguatamente giustificata in giudizio.

Chi deve provare che un cambio di mansioni è legittimo e non costituisce una dequalificazione professionale?
Secondo la Corte, l’onere della prova grava sul datore di lavoro. È l’azienda che deve dimostrare di aver adempiuto correttamente ai propri obblighi contrattuali o che il cambio di mansioni era giustificato da legittime ragioni.

La Corte di Cassazione può riesaminare le prove, come le testimonianze, in un caso di demansionamento?
No, la Corte di Cassazione non può riesaminare le prove e i fatti del caso. Il suo ruolo è quello di verificare la corretta applicazione delle norme di legge da parte dei giudici di merito (Tribunale e Corte d’Appello), non di agire come un terzo grado di giudizio.

Come può un lavoratore dimostrare di aver subito un danno a causa della dequalificazione professionale?
Il lavoratore può dimostrare il danno attraverso elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, relativi alla qualità della sua esperienza, alla durata del demansionamento e alla professionalità persa. Sulla base di questi elementi, il giudice può liquidare il danno anche in via equitativa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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