Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 12875 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 12875 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 02035/2024 R.G., proposto da
NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE , in persona dell’amministratore unico e legale rappresentante NOME COGNOME; rappresentati e difesi dagli Avvocati NOME COGNOME (pecEMAILpecavvocatiEMAIL) e NOME COGNOME (pec: EMAIL), in virtù di procure in calce al ricorso;
-ricorrenti-
nei confronti di
RAGIONE_SOCIALE in persona del presidente del consiglio di amministrazione, NOME COGNOME; rappresentata e difesa dagli Avvocati NOME COGNOME (pec: EMAILpecavvocatiEMAILit) e
NOME COGNOME (pec: EMAIL, in virtù di procure in calce al controricorso;
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza n. 4731/2023 della CORTE d ‘ APPELLO di NAPOLI, depositata e notificata il 7 novembre 2023; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 febbraio 2025
dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
1. NOME COGNOME amministratore unico e legale rappresentante della società RAGIONE_SOCIALE, avente ad oggetto la commercializzazione di articoli per parrucchieri, fu sottoposto a procedimento penale per il reato di cui all’art. 473 cod. pen., per avere fatto uso, m ediante esposizione in vendita in occasione della Fiera Cosmoprof di Bologna dell’ aprile 2014, di sei asciugacapelli di diverso colore, contraffacenti il modello ornamentale già registrato dalla società RAGIONE_SOCIALE e commercialmente denominato Parlux 3500. Il procedimento penale fu iniziato su denuncia della RAGIONE_SOCIALE i cui dipendenti, presenti alla fiera bolognese, avevano chiesto l’intervento della Guardia di Finanza, che aveva sottoposto a sequestro gli asciugacapelli esposti nello stand della RAGIONE_SOCIALE
Dopo essere stato assolto in sede dibattimentale con la formula ‘perché il fatto non sussiste’ , con conseguente restituzione dei beni in sequestro, NOME COGNOME in proprio e quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE convenne la RAGIONE_SOCIALE in giudizio civile risarcitorio dinanzi al Tribunale di Napoli Nord, sul presupposto che, a causa dell’ingiusta accusa, la società da lui rappresentata ed egli stesso avevano subìto un ingente danno sia non patrimoniale che
patrimoniale, avuto riguardo, per un verso, alla lesione dei diritti all’onore, alla reputazione, all’immagine , alla libertà di iniziativa economica e all’integrità aziendale e, per altro verso, alle conseguenze pregiudizievoli di tali lesioni, consistenti, sul piano patrimoniale, nel lucro cessante conseguente alla mancata evasione dei molti ordini di acquisto ricevuti e nel danno emergente della perdita di valore dell’ azienda.
Il Tribunale di Napoli Nord rigettò la domanda, condannando gli attori al pagamento delle spese processuali in favore della società convenuta.
Questa decisione è stata integralmente confermata dalla Corte d’ appello di Napoli, che ha rigettato il gravame proposto dalla RAGIONE_SOCIALE e da NOME COGNOME, condannandoli alle spese del grado.
Per quanto ancora rileva, la Corte territoriale, richiamando la conforme motivazione del Tribunale, ha anzitutto ricordato -citando numerose pronunce di questa Corte -il consolidato principio di diritto secondo cui la denuncia di un reato perseguibile d ‘ ufficio o la proposizione di una querela per un reato così perseguibile, possono costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante (o querelante), in caso di successivo proscioglimento o assoluzione del denunciato (o querelato), solo ove contengano gli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) del reato di calunnia, con la conseguenza che colui che invochi il risarcimento del danno per avere subìto una denuncia calunniosa, ha l ‘ onere di provare la sussistenza di una condotta integrante il reato di calunnia dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo; ciò, in quanto, da un lato, al di fuori di tale ipotesi,
l ‘ attività del pubblico ministero titolare dell ‘ azione penale si sovrappone all ‘ iniziativa del denunciante-querelante, interrompendo ogni nesso causale tra denuncia calunniosa e danno eventualmente subìto dal denunciato (o querelato) , mentre, dall’a ltro lato, la presentazione della denuncia di un reato costituisce adempimento del dovere civico di segnalare fatti illeciti, rispondente a ll’interesse pubblico alla repressione dei reati, che rischierebbe di essere frustrato se il privato denunciante fosse esposto a responsabilità per avere presentato una denuncia semplicemente inesatta o rivelatasi infondata.
Ricordato tale principio di diritto, la Corte territoriale ha espresso il giudizio di merito che, nella fattispecie, il carattere calunnioso della condotta tenuta dai dipendenti della RAGIONE_SOCIALE nel momento in cui avevano denunciato l’u so di modelli ornamentali contraffatti da parte della RAGIONE_SOCIALE, facendo intervenire la Guardia di Finanza e ottenendo il sequestro degli asciugacapelli espositi in vendita da quella società, non fosse stato provato.
In tal senso, la Corte territoriale ha tratto principale argomento dal rilievo, già formulato dal Tribunale, secondo cui la peculiarità del reato contestato (uso, da parte della società RAGIONE_SOCIALE, in relazione agli asciugacapelli esposti per la vendita, di un design contraffatto, ovverosia di un modello ornamentale che contraffaceva quello già registrato dalla RAGIONE_SOCIALE) avrebbe postulato che con la denuncia fossero stati esposti fatti radicalmente falsi, idonei ad inficiare o alterare la valutazione di confondibilità rimessa al giudice penale; ciò che non era invece accaduto nella fattispecie, in cui, al contrario, i denuncianti avevano solo esposto la soggettiva percezione della
confondibilità del marchio (eventualmente) contraffatto con quello autentico. La sussistenza della «somiglianza contraffattiva» era stata quindi condivisa dalla polizia giudiziaria intervenuta e dallo stesso pubblico ministero, mentre l’ assoluzione era stata pronunciata all’esito del dibattimento e di una valutazione giudiziale di non confondibilità maturata sulla base delle risultanze di una consulenza tecnica, in seguito alla quale la responsabilità penale dell’inco lpato era stata esclusa pur riconoscendosi la sussistenza di innegabili similitudini tra i prodotti delle due società.
Altri argomenti, in funzione del giudizio circa il mancato raggiungimento della prova degli elementi (oggettivo e soggettivo) della calunnia sono stati tratti dalla Corte territoriale dalla circostanza che, all’esito dell’istruttoria , non erano emersi antefatti rilevanti da cui potesse inferirsi un’intenzionalità calunniosa (come, ad es., pregressi episodi di conflittualità tra le parti), nonché dalla circostanza che, al momento della chiamata della Guardia di Finanza, la società RAGIONE_SOCIALE aveva fatto intervenire sul posto un proprio legale (circostanza che, diversamente da quanto opinato dagli appellanti, deponeva nel senso della cautela, piuttosto che dell’ avventatezza, della scienza e della strumentalità dell ‘incolpazione) .
Propongono ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME sulla base di tre motivi; risponde con controricorso la RAGIONE_SOCIALE
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art.380 -bis .1 cod. proc. civ..
Il Procuratore Generale non ha depositato conclusioni scritte.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo viene denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la « violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., per avere la sentenza erroneamente ritenuto che perché sussista responsabilità risarcitoria in capo alla convenuta COGNOME sia necessario che la denunzia da essa presentata integri il reato di calunnia e per avere la sentenza omesso di applicare e comunque violato i criteri normativi che presiedono all’accertamento del nesso di causalità ».
Sono articolate due distinte doglianze.
In primo luogo, i ricorrenti censurano la sentenza impugnata per aver fatto applicazione, in relazione alla fattispecie, del principio di diritto secondo cui la denuncia di un reato perseguibile d ‘ ufficio o la proposizione di una querela per un reato così perseguibile, possono costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante, in caso di successivo proscioglimento o assoluzione del denunciato, solo ove contengano gli elementi costitutivi (oggettivo e soggettivo) del reato di calunnia. Deducono che, nel caso concreto, era stata formulata una più ampia domanda risarcitoria ex art. 2043 cod. civ. (la quale comprendeva la calunnia ma non si limitava ad essa) in ragione della lesione dei diritti soggettivi all’onore, alla reputazione, alla libertà di iniziativa economica e all’ integrità aziendale, perpetrata mediante la falsa denuncia di una attività di contraffazione.
In secondo luogo, i ricorrenti reputano che sia erronea, in quanto riferita al caso di specie, l’a ffermazione secondo la quale, al di fuori d ell’ipotesi della calunnia , l ‘ attività del pubblico ministero titolare
dell ‘ azione penale si sovrappone all ‘ iniziativa del denunciantequerelante, interrompendo ogni nesso causale tra denuncia calunniosa e danno eventualmente subito dal denunciato. Sostengono che il solo sovrapporsi dell’attività di un terzo non sarebbe sufficiente ai fini del l’interruzione del nesso causale, occorrendo altresì che questa attività sia inaspettata e imprevedibile, tale da integrare a sua volta una « ipotesi di autonoma responsabilità con un effetto causale autonomo »; evenienza che non si sarebbe integrata nella vicenda in esame, in cui l’intervento del pubblico ministero, fondato sulle sole affermazioni della società denunciante, non si era sovrapposto, escludendolo, al nesso causale della denuncia, ma vi aveva contribuito.
1.1. Il motivo è manifestamente infondato in relazione ad entrambe le censure formulate.
Va ribadito, conformemente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale -e dando seguito ad un orientamento pacifico e consolidato, più volte ribadito da questa Corte di legittimità -che colui che invochi il risarcimento del danno per avere subìto una denuncia calunniosa, ha l ‘ onere di provare la sussistenza di una condotta integrante il reato di calunnia dal punto di vista sia oggettivo che soggettivo, sicché, in mancanza di detta prova, la domanda risarcitoria deve essere rigettata.
Questo principio ha un duplice fondamento: da un lato, si giustifica in relazione all’esigenza di favorire (e non già di scoraggiare) l’ adempimento, da parte dei privati cittadini, del dovere civico di segnalare la sussistenza di fatti criminosi; dovere che trova rispondenza nell’interesse pubblico al la repressione dei reati e che
rischierebbe evidentemente di essere frustrato se il denunciante andasse incontro a responsabilità per avere presentato una denuncia semplicemente inesatta o infondata; dall’altro lato esso principio trova una ulteriore ratio giustificativa nel rilievo che, al di fuori dell’ipotesi della denuncia, stante il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale , l’attività del pubblico ministero, organo titolare di tale azione, si sovrappone all’iniziativa del denunciante, interrompendo ogni nesso causale tra denuncia e danno eventualmente subito dal denunciato.
I rilievi che precedono inducono a reputare manifestamente infondate le censure formulate con il primo motivo di ricorso, atteso che, al di fuori dell’ipotesi della calunnia, la denuncia di un reato, quand’anche si riveli infondata all’esito del processo penale al cui inizio ha dato impulso, non costituisce ex se , attività antigiuridica idonea a determinare la nascita di una fattispecie di responsabilità aquiliana ex art. 2043 cod. civ. a carico del denunciante, mentre per contro essa costituisce l’ occasione (necessaria o meno, secondo che il reato denunciato sia perseguibile a querela o d’ ufficio) per l’ esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.
Con il secondo motivo viene denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la « violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., per avere la sentenza omesso di applicare e comunque violato i criteri normativi che presiedono all’onere della prova, e travisamento della prova ».
I ricorrenti censurano il giudizio della Corte territoriale circa la mancata assoluzione, da parte loro, dell’onere di provare il carattere calunnioso (sotto il profilo sia oggettivo che soggettivo) della condotta
della convenuta. Osservano che « del tutto erroneamente la Corte territoriale che la necessità di una istruttoria in sede di giudizio penale e prima ancora il rinvio a giudizio, poi seguito da giudizio di piena assoluzione con motivazione facente riferimento alla evidenza della insussistenza della contraffazione, depongano non già per la calunnia, ma invece per la inesistenza della stessa ». Sostengono che il giudice d’appello « ha preso in esame elementi del tutto irrilevanti per giustificare il suo giudizio di insussistenza della calunnia, mentre ha escluso dal novero della prova elementi che, applicando correttamente il diritto, avrebbero dovuto portare all’accoglimento della domanda ». Reputano che scorrettamente la Corte di merito abbia omesso di considerare « le chiare figure sintomatiche addotte dagli attori della piena consapevolezza in capo a Parlux della calunniosa della sua denunzia (l’immediato riconoscimento della differenza di forme da parte del dipendente Parlux) » e che altrettanto scorrettamente abbia escluso « che tale prova sia stata appunto raggiunta ».
2.1. Il motivo è manifestamente inammissibile.
Al cospetto del motivato giudizio di fatto sopra illustrato, in ordine alla mancata assoluzione dell ‘o nere di provare i requisiti della calunnia, le censure formulate dai ricorrenti, ad onta della formale intestazione, tendono inammissibilmente a suscitare dalla Corte di legittimità un nuovo apprezzamento di merito, alternativo a quello espresso dalla Corte territoriale; in particolare, non è configurabile la dedotta violazione dell’art.2697 cod. civ. , atteso che lungi dall’attribuire l’onere probatorio ad una parte diversa da quella cui sarebbe spettato secondo
le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla distinzione tra fatti costitutivi ed eccezioni (nel che soltanto sarebbe ravvisabile la violazione dell’art. 2697 cod. civ.: cfr., ex multis , Cass. 29/05/2018, n. 13395 e Cass. 23/10/2018, n. 26769), la Corte d’appello , nel libero apprezzamento delle risultanze probatorie, ha reputato, con valutazione di merito insindacabile, che i danneggiati non avessero provato il dolo di calunnia della danneggiante.
Con il terzo motivo viene denunciata, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la « violazione e/o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. e 2043 c.c., per avere la sentenza omesso di considerare la costituzione di parte civile di RAGIONE_SOCIALE nel procedimento penale ai fini della condanna di RAGIONE_SOCIALE al rimborso delle spese legali ».
I ricorrenti deducono che la sentenza con cui era stato definito il processo penale a carico di NOME COGNOME nulla aveva statuito sulle spese. Di conseguenza, per un verso, « avrebbe dovuto esser accolta la domanda dei ricorrenti di esser rimborsati delle spese legali di difesa nel procedimento penale » e, « poiché la costituzione di parte civile introduce un rapporto civilistico in un processo penale », al di là della sussistenza o meno della calunnia, le spese di difesa avrebbero dovuto essere rimborsate dalla RAGIONE_SOCIALE, quale parte civile soccombente, alla parte risultata vittoriosa; per altro verso, « l ‘accogli mento di questa domanda si riflette anche sulle spese poste a carico degli odierni ricorrenti: non essendo soccombenti nel giudizio penale ma vittoriosi esse essere invece poste a carico di RAGIONE_SOCIALE, per tutti i gradi di giudizio ».
3.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Al di là dell’agevole rilievo che , nel processo penale, la statuizione sulle spese relative all’azione civile postula che il giudice abbia provveduto (accogliendola o rigettandola) sulla domanda restitutoria o risarcitoria (art. 541 cod. proc. pen.), il che a sua volta presuppone che sia stata emessa una sentenza di condanna e non di assoluzione (art.538 cod. proc. pen.), salve le eccezioni previste dalla legge (artt. 131bis cod. pen.; artt. 576, 578, 622 cod. proc. pen.), è altresì agevole osservare che quand’anche il giudice penale avesse omesso per errore di emettere una simile statuizione, esso errore (che avrebbe dovuto essere censurato mediante l’ impugnazione del relativo provvedimento) non incide sulla totale soccombenza degli attuali ricorrenti (NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE) nel successivo giudizio civile risarcitorio da essi introdotto nei confronti della RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE, con conseguente correttezza in iure delle statuizioni di condanna nelle spese processuali emesse a loro carico sia nel giudizio di primo grado che in quello d’ appello.
In definitiva, il ricorso proposto da NOME COGNOME in proprio e quale legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE, deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti , al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art.13, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, a rimborsare alla società controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 31.000,00 per compensi, oltre esborsi liquidati in Euro 200,00, spese forfetarie e accessori.
A i sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art.13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione