Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 15296 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 15296 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 31/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 16746/2021 R.G., proposto da
NOME COGNOME , NOME COGNOME ; rappresentati e difesi dall’AVV_NOTAIO (pec dichiarata: EMAIL), in virtù di procura in calce al ricorso;
-ricorrenti-
nei confronti di
NOME COGNOME ; rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO (pec dichiarata: EMAIL), in virtù di procura in calce al controricorso;
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza n. 183 /2021 della CORTE d’APPELLO di MESSINA, depositata il giorno 19 aprile 2021, notificata il 26 aprile 2021; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22 marzo 2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 12 agosto 2014 il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, Sezione penale, assolse , con la formula ‘perché il fatto non costituisce
reato’, NOME COGNOME dai reati di calunnia e diffamazione che gli erano stati contestati a seguito delle querele proposte da NOME COGNOME e NOME COGNOME, presunte persone offese.
Ottenuta l’assoluzione, NOME COGNOME citò i querelanti in giudizio risarcitorio dinanzi allo stesso Tribunale, Sezione civile, deducendone a propria volta la condotta calunniosa e domandandone la condanna al risarcimento del danno, da liquidarsi in 50.000 Euro.
La domanda, rigettata dal Tribunale, è stata però parzialmente accolta dalla Corte d’ appello di Messina, la quale, in accoglimento dell’impugnazione proposta da NOME COGNOME, ha condannato NOME COGNOME e NOME COGNOME a corrispondere all’attore -appellante la somma di Euro 10.000, oltre interessi e rivalutazione, nonché l’ulteriore somma di Euro 3.522,56 a titolo di rimborso delle spese di difesa sostenute nel processo penale, anche questa con interessi e rivalutazione.
La Corte territoriale ha deciso sulla base dei seguenti rilievi:
Iin primo luogo, la sentenza penale di assoluzione di NOME COGNOME, essendo stata emessa con la formula ‘perché il fatto non costituisce reato’ , non aveva efficacia di giudicato nel processo civile risarcitorio, essendo tale efficacia riservata alle pronunce assolutorie dibattimentali contenenti l’accertamento che il fatto non sussiste , l’ imputato non lo ha commesso, o che è stato compiuto nell’ adempimento di un dovere o nel l’ esercizio di una facoltà legittima;
IIin secondo luogo, rivalutando complessivamente le risultanze istruttorie, nell’esercizio della « libertà di giudizio » (p. 6 della sentenza impugnata) attribuita al giudice civile in ordine all’ accertamento della responsabilità degli autori della denuncia penale, in funzione della loro eventuale condanna risarcitoria, doveva ritenersi provata la sussistenza, nella condotta di NOME COGNOME e NOME COGNOME, degli elementi oggettivi e soggettivi del reato di calunnia: il primo, infatti, aveva affermato in querela che NOME COGNOME lo aveva diffamato con le lettere inviate ad autorità comunali e regionali; il secondo aveva svolto in querela analoghe affermazioni, lamentando di essere stato diffamato sull’assunto di avere voluto, in quanto assessore municipale, la promozione di NOME COGNOME per interesse personale, laddove, al contrario,
detta promozione sarebbe invece scaturita -« a suo dire » -da una deliberazione della Giunta comunale. Poiché la sentenza penale del Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto aveva accertato la veridicità dei ‘ fatti ‘ e delle ‘ contestazioni ‘ mosse da NOME COGNOME, da ciò poteva evincersi che i denuncianti avessero accusato quest’ultimo d i calunnia nella consapevolezza della sua innocenza, desumendosi il dolo specifico del reato « da dichiarazioni relative a fatti dai medesimi assunti come inesistenti ed invece accertati quali reali » (p. 7 della sentenza d’appello) .
Propongono ricorso per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME, sulla base di tre motivi. Resiste NOME COGNOME con controricorso.
La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art.380 -bis .1 cod. proc. civ..
Il Pubblico Ministero non ha presentato conclusioni scritte. Sia i ricorrenti che il controricorrente hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo viene denunciata, da un lato, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., la « Violazione degli artt. 2043 c.c., 2059 e 2967 c.c., nonché dell’articolo 368 c.p., 530 c.p.p. e 651, 652 e 654 c.p.p. »; dall’altro lato, la « nullità della sentenza del procedimento ai sensi dell’articolo 360 c.p.c., n. 4 in relazione all’articolo 111 Cost. ».
I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale abbia « fatto proprie, sic e simpliciter le querele, le denunzie, presentate dal COGNOME e dal COGNOME in conseguenza della missiva del COGNOME » e che abbia « ritenuto -‘ dal momento che l’appellante è stato assolto con sentenza passata in giudicato, emessa a seguito di dibattimento, che i fatti contestati al COGNOME erano veri, così, all’evidenza, mostrando, la mala fede del COGNOME e del COGNOME nella proposizione delle rispettive querele/denunzie » (p. 6 del ricorso).
Si dolgono che, in tal modo, la Corte di merito abbia tr atto l’ accertamento dalle prove acquisite in sede penale, indebitamente sollevando l’attore -appellante dall’onere, ad esso spettante, di dimostrare la sussistenza degli estremi -sia sul piano oggettivo che soggettivo -del reato di calunnia nella condotta delle controparti.
Evidenziano che la sentenza penale di assoluzione non aveva efficacia di giudicato nel processo civile, sicché la Corte messinese indebitamente avrebbe ritenuto « che il giudicato penale nel giudizio civile è vincolante in ordine all’accertamento dei fatti materiali » (p.10 del ricorso).
Ribadiscono che il giudice civile era invece tenuto ad accertare incidenter tantum tutti gli elementi costitutivi della fattispecie di calunnia in via assolutamente autonoma dal precedente accertamento penale.
1.1. Il motivo è infondato.
In primo luogo, non è vero che il giudice d’appello abbia attribuito efficacia vincolante al giudicato penale, avendo svolto il suo accertamento proprio sulla premessa che la decisione del Tribunale penale di Barcellona Pozzo di Gotto, contenente l’assoluzione del COGNOME con la formula ‘perché il fatto non costituisce reato’ , non esplicava la predetta efficacia nel giudizio civile.
In secondo luogo, posta tale premessa, correttamente il giudice civile d’ appello ha proceduto ad autonoma valutazione delle risultanze istruttorie in funzione di provvedere sulla domanda risarcitoria: al riguardo, la circostanza che egli abbia tratto il proprio giudizio dal contenuto delle denunce querele e, in generale, dalle risultanze del processo penale, non rende illegittimo il giudizio medesimo, giacché il giudice civile, nell’ esercizio del potere discrezionale di libero apprezzamento, può attribuire inferenza probatoria a qualsiasi elemento istruttorio ritualmente assunto nel processo e dunque anche alle prove assunte e agli atti contenuti nel giudizio penale, che entrano in quello civile come prove precostituite atipiche ( ex aliis , Cass. 20/01/2015, n.840; Cass.10/10/2018, n.25067; Cass. 31/01/2024, n. 2897).
In t erzo luogo, l’ apprezzamento di prove atipiche, ove ritualmente introdotte in giudizio per iniziativa delle parti, non concreta una indebita relevatio ab onere probandi della parte tenuta a dimostrare i fatti costitutivi del diritto risarcitorio azionato, dal momento che non si determina una violazione del principio dispositivo, né in senso sostanziale, restando devoluta alle parti la disponibilità dell’oggetto del processo, né in senso formale, r imanendo ad esse riservata la disponibilità delle prove.
In quarto luogo, infine, del tutto inconferente appare il richiamo dei ricorrenti alla necessità -in funzi one dell’accoglimento della domanda risarcitoria -che fossero accertati nella loro condotta tutti gli elementi costitutivi della calunnia; la Corte d’appello, infatti, ha operato proprio siffatto apprezzamento di merito, desumendo, in particolare, il dolo specifico del reato dalla circostanza che i fatti costituenti oggetto delle dichiarazioni asseritamente calunniose e diffamatorie poste in essere da NOME COGNOME, sebbene denunciati come inesistenti, erano invece risultati veri.
La Corte territoriale ha dunque emesso la condanna risarcitoria nei confronti di NOME COGNOME e NOME COGNOME in seguito all’ accertamento del carattere calunnioso delle denunce-querele da loro proposte, in perfetta conf ormità all’orientamento di questa Corte di legittimità , secondo il quale, colui che invochi il risarcimento del danno per avere subìto una denuncia calunniosa, ha l’onere di provare la sussistenza di una condotta integrante il reato di calunnia dal punto di vista sia oggettivo sia soggettivo poiché la presentazione della denuncia di un reato costituisce adempimento del dovere, rispondente ad un interesse pubblico, di segnalare fatti illeciti, che rischierebbe di essere frustrato dalla possibilità di andare incontro a responsabilità in caso di denunce semplicemente inesatte o rivelatesi infondate (Cass. 30/11/2018, n. 30988; Cass. 12/06/2020, n. 11271).
Il primo motivo va dunque rigettato.
2. Con il secondo motivo viene denunciato « Omesso esame di un fatto decisivo in relazione agli articoli 2043, 2059 e 2697 c.c. e all’articolo 115 c.p.c., comma 1 e articolo 116 c.p.c., comma 1, nonché all’articolo 368 c.p. e 595 c.p., ex articolo 360 c.p.c., n. 5 ». I ricorrenti censurano la sentenza impugnata per non avere preso in considerazione la circostanza che, nel processo penale, l’ assoluzione di NOME COGNOME ( tra l’altro, con la formula ‘perché il fatto non costituisce reato’ ) era maturata in dibattimento, dopo che il pubblico ministero aveva chiesto il rinvio a giudizio e il G iudice per l’Udienza Preliminare l’aveva disposto.
Tale circostanza sarebbe decisiva, in funzione del rigetto della domanda risarcitoria, avuto riguardo al principio sancito dalla giurisprudenza di legittimità,
secondo cui la consapevolezza del denuncian te in merito all’ innocenza del denunciato (dunque, il dolo del reato di calunnia) va esclusa qualora la supposta illiceità del fatto denunciato sia ragionevolmente fondata su elementi oggettivi e seri, tali da ingenerare dubbi condivisibili.
2.1. Anche questo motivo è infondato.
Per un verso, sotto il profilo fattuale, va osservato che la circostanza che NOME COGNOME era stato assolto in dibattimento (evidentemente, dunque, all’esito di rinvio a giudizio) è stata debitamente considerata dalla Corte d’ appello, la quale ha anche evidenziato che la pronuncia assolutoria non aveva effetto preclusivo in sede civile.
Per altro verso, sotto il profilo della inconsistenza giuridica della doglianza, giova ricordare che il principio sancito da questa Corte attribuisce all’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale, quale attività che si sovrappone all’iniziativa del denunciante (o querelante), valenza interruttiva del nesso di causalità tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato (o querelato), solo al di fuori dell’ ipotesi in cui la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio o la proposizione di una querela per un reato perseguibile solo su iniziativa di parte contengano sia l’elemento oggettivo che l’elemento soggettivo del reato di calunnia, poiché in tale ipotesi la detta denuncia (o querela) può comunque costituire fonte di responsabilità civile a carico del denunciante (o querelante) in caso di successivo proscioglimento o assoluzione del denunciato o querelato (Cass. 26/01/2010, n. 1542; Cass. 10/06/2016, n. 11898; Cass. 30/11/2018, n. 30988).
Anche il secondo motivo, dunque, deve essere rigettato.
Con il terzo motivo viene denunciata, ai sensi dell’art. 360 n. 3, cod. proc. civ., la « Violazione degli artt. 2043 c.c., 2059, nonché dell’articolo 368 c.p., art. 185 c.p. ».
I ricorrenti sostengono che sarebbe preclusa al giudice civile, in mancanza di accertamento del reato da parte del giudice penale (e salvo che non si sia verificato un definitivo ostacolo a quell’accertamento) , la liquidazione del danno non patrimoniale ex art.2059 cod. civ..
Assumono che la Corte territoriale non avrebbe « tenuto conto che il danno morale altro non è che quello non patrimoniale disciplinato dall’art. 2059 cod. civ., che ne prevede la risarcibilità solo nei casi previsti agli artt. 185 e 598 cod. pen. e 89, secondo comma, cod. proc. pen. ».
3.1. Il motivo è manifestamente infondato.
Il giudice civile, ove venga proposta domanda in tal senso, può liquidare anche il danno non patrimoniale non solo -ove consentito -in seguito all ‘incidentale accertamento degli elementi costitutivi di un reato nella condotta del danneggiante, ma in ogni caso di accertamento di un illecito civile lesivo dei diritti fondamentali della persona, ove reputi che l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale, che la lesione dell’interesse sia grave e che il danno non sia futile (Cass., Sez. Un., 11/11/2008, n. 26972; Cass. 25/09/2009, n. 20684; Cass. 12/11/2019, n. 29206; Cass. 21/11/2023, n.32276).
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo, con la precisazione che nulla va riconosciuto a titolo di esborsi, non avendo chiesto il controricorrente alcunché, a tale titolo, nella nota spese depositata.
Avuto riguardo al tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art.13, comma 1 -quater , del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente ufficio di merito, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell ‘impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.935,00 per compensi, oltre spese forfetarie e accessori.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, al competente
ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1bis dello stesso art.13, ove dovuto. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile,