Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 45 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L   Num. 45  Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 13824-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE,  in  persona  del  legale rappresentante  pro  tempore,  elettivamente  domiciliata  in INDIRIZZO, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato  NOME  COGNOME,  che  la  rappresenta  e  difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, INDIRIZZO,  presso  lo  studio  dell’avvocato  NOME COGNOME,  rappresentata e difesa dagli avvocati  NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
Oggetto
Risarcimento danni rapporto privato
R.G.N. 13824/2019
COGNOME.
Rep.
Ud. 21/11/2023
CC
avverso la sentenza n. 1449/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 31/10/2018 R.G.N. 620/2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/11/2023 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
RILEVATO CHE
Il  Tribunale  di  Milano  ha  accolto  parzialmente  la domanda proposta nel dicembre 2015 da NOME COGNOME, dipendente di RAGIONE_SOCIALE, accertando  la  sussistenza  di  un  demansionamento  patito dalla lavoratrice dal 30.7.2009 al 25.6.2015.
Il primo giudice, richiamata una sentenza, passata in giudicato, pronunciata tra le stesse parti, avente il medesimo oggetto e passata in giudicato, della Corte di appello di Milano, ha rilevato che la COGNOME, giornalista redattrice ordinaria che, dal 2003 aveva operato come conduttrice ed inviata speciale, aveva subito un demansionamento a decorrere dal luglio 2007 (per cui la società era stata condannata all’assegnazione di mansioni equivalenti -in particolare la conduzione e la assegnazione di incarichi quale inviato speciale- oltre ad un risarcimento danni pari al 20% della retribuzione mensile per ogni mese di demansionamento) e che tale demansionamento era perdurato fino al 25.6.2015, quando, cioè, con l’entrata in vigore della novella dell’art. 2 103 cc, lo ius variandi del datore di lavoro non incontrava più il limite nel concetto di ‘mansioni equivalenti’.
Il Tribunale, sulla base di tale impostazione giuridica, ha conseguentemente respinto sia la domanda di ripristino della situazione ex ante relativamente alla riassegnazione ai precedenti incarichi, in ragione della non  attualità del demansionamento, sia la domanda di risarcimento del danno professionale per omessa specificazione dei danni in concreto subiti.
La Corte di appello di Milano, con la sentenza n. 1449/2018 emessa sui gravami hic et inde proposti, confermando l’impianto decisionale del primo giudice in ordine al demansionamento e ritenendo ammissibile l’appello della lavoratrice, ha riformato la pronuncia di prime cure riconoscendo, per il periodo 30.7.2009 -25.6.2015, il diritto al risarcimento del danno professionale, liquidato nella misura del 20% della retribuzione mensile per ogni mese di demansionamento e ritenendo, nella fattispecie in esame, la sussistenza di idonei elementi presuntivi dell’esistenza d el pregiudizio patito.
Avverso la suddetta decisione ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE affidato a tre motivi cui ha resistito con controricorso NOME COGNOME.
La ricorrente ha depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
CONSIDERATO CHE
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo la ricorrente eccepisce la nullità della sentenza e del procedimento, per violazione dell’art. 434 cpc, come modificato dal D.l. n. 83 del 2012, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cpc, per non avere la Corte territoriale rilevato che l’appello presentato dalla COGNOME era da considerarsi inammissibile perché non risultavano specificate né le violazioni di legge in cui era incorso il primo giudice né le modifiche alla ricostruzione del fatto compiuta dallo stesso: in particolare, perché parte appellante non aveva in alcun modo censurato l’ interpretazione del nuovo articolo 2103 cc e la conseguente violazione di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale nell’applicare tale norma sia in ordine al fatto del demansionamento sia in relazione al danno patito.
Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 2103, 2697, 2727 e 2729 cc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, per avere la Corte territoriale ravvisato la sussistenza di un danno da
demansionamento, pur in assenza dei relativi presupposti e confondendo, in tale fattispecie, l’ inadempimento e il danno.
Con il terzo motivo la ricorrente obietta la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 cpc, in relazione all’art. 360 co. 1 n. 4 cpc, per non avere rilevato la Corte di merito che, nel ricorso introduttivo del primo grado di giudizio, non erano stati in alcun modo allegati gli elementi costitutivi del presunto danno da demansionamento.
Il primo motivo è infondato.
Invero, premesso che la Corte di cassazione in ordine al vizio denunciato è anche giudice del fatto (cfr. Cass. Sez. Un. n. 27199/2017), va sottolineato che correttamente i giudici di secondo grado hanno rilevato che dal gravame erano individuabili le questioni e i punti contestati, con l’indicazione delle relative doglianze, precisate schematicamente nella negata sussistenza di un demansionamento dopo il giugno 2015 e nel mancato riconoscimento del diritto alla reintegra nelle mansioni adeguate, nonché nel negato risarcimento del danno per il periodo dall’agosto 2009 al giugno 2015; pertanto, essendo stato censurato l’ iter logico-giuridico della decisione ed essendo stata avanzata la richiesta di integrale o parziale riforma della pronuncia, per le censure sopra menzionate, l’appello era pienamente rispettoso della previsione di cui agli artt. 342 e 434 cpc e correttamente è stato considerato ammissibile.
Il secondo motivo è anche esso infondato.
La Corte territoriale ha esattamente affermato che la prova  del  danno  professionale  può  desumersi  anche  da elementi presuntivi (Cass. n. 19923/2019; Cass. n. 24585/2019) e con un accertamento in fatto, adeguatamente motivato, ha proceduto ad una determinazione dello stesso in via equitativa, pari al 20% della retribuzione mensile.
Sono stati evidenziati, infatti, quali elementi di riferimento  -in  una  situazione  in  cui  la  sola  attività  di redazione di pezzi o in alcuni casi in esterna era stata ritenuta
non coerente, in senso oggettivo, con il bagaglio professionale della lavoratrice e, quindi, motivo di demansionamentola  durata  della  dequalificazione,  l’entità della stessa in relazione alle mansioni svolte in precedenza, la  preclusione alla crescita professionale, il comportamento aziendale volutamente elusivo di un ordine del giudice.
In ordine alla individuazione della percentuale della retribuzione mensile, cui è stato parametrato il danno risarcibile, trattandosi di esercizio del potere discrezionale del giudice di  merito in  cui  è  stato  dato  adeguatamente conto dell’uso  e  dei  criteri  adottati,  con  indicazione  del  processo logico e valutativo seguito, ogni censura relativamente a tale punto non è valutabile in quanto inammissibilmente posta e preclusa in sede di legittimità.
Infine, anche il terzo motivo non è meritevole di accoglimento.
La Corte distrettuale ha ricostruito la vicenda, a differenza di quanto sostenuto dalla ricorrente, avendo riguardo alla precedente sentenza passata in giudicato, intercorsa tra le stesse parti, e alla protrazione del comportamento, non contestata; inoltre, ha desunto gli altri indici presuntivi della determinazione del danno da demansionamento dalla allegazione dei fatti sia in ordine alla durata dello stesso, che alle mansioni svolte e alla prospettata lesione alla carriera nonché al comportamento della società: tutti dati allegati ed evincibili dagli atti processuali per cui non è ravvisabile alcuna violazione dell’art. 112 cpc.
Alla  stregua  di  quanto  esposto  il  ricorso  deve essere rigettato.
Al rigetto segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228,
deve  provvedersi,  ricorrendone  i  presupposti  processuali, sempre come da dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 21 novembre