Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 6245 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 6245 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/03/2025
Oggetto: Impiego pubblico – dirigente – retribuzione di risultato – revoca incarico di Segretario Generale – demansionamento
Dott. NOME COGNOME
Presidente
–
Dott. NOME COGNOME
Consigliere –
Dott. NOME COGNOME
Consigliere rel. –
Dott. COGNOME
Consigliere –
Dott. NOME COGNOME
Consigliere –
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23713/2020 R.G. proposto da:
COGNOME NOME , elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME con diritto di ricevere le comunicazioni presso l’indirizzo pec dei Registri di Giustizia;
– ricorrente –
contro
ASP – AZIENDA SERVIZI ALLA PERSONA DENOMINATA NOME RAGIONE_SOCIALE SANTA MARIA IN AQUIRO in persona del legale rappresentante pro
tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in ROMA, INDIRIZZO con diritto di ricevere le comunicazioni presso l’indirizzo pec dei Registri di Giustizia;
– controricorrente –
ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 15/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 15/01/2020 R.G.N. 137/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/01/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
1. NOME COGNOME, dirigente di prima fascia dell’ISMA – Istituti di Santa Maria in Aquiro -, Istituzione Pubblica di Assistenza e Beneficenza, con personalità giuridica pubblica, a cui si applica il CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali, aveva agito dinanzi al Tribunale di Roma deducendo che: -aveva ricoperto sino al marzo 2014 l’incarico di Segretario Generale dell’Ente (dal 2004 mediante una serie di contratti a tempo determinato e dal febbraio 2010 quale dirigente a tempo indeterminato); -con delibera del 13 marzo 2014 il suddetto incarico le era stato revocato; -a far data dal 28 aprile 2014 le erano state affidate mansioni inferiori alle precedenti (predisposizioni atti di gara e appalti nazionali ed europei, aggiornamenti normativi, elaborazione di progetti da presentare in sede nazionale ed europea ai fini della partecipazione ai relativi bandi, relazioni con amministrazioni ed enti pubblici) e non era stata comunque messa nelle condizioni di svolgerle; -era stata sottoposta ad una vera e propria guerra psicologica nonché a gravi vessazioni, essendole in particolare addebitato dal nuovo Segretario Generale che gli appalti precedentemente gestiti erano stati affidati sempre ai medesimi soggetti ed al di fuori delle procedure concorsuali.
Aveva chiesto di essere reintegrata nelle mansioni di Segretario Generale, l’accertamento del demansionamento subito e della illegittima
condotta datoriale che aveva determinato danni alla salute, del diritto all’inquadramento quale dirigente di prima fascia in virtù delle mansioni di Segretario Generale svolte, del diritto alla corresponsione della retribuzione di risultato per gli anni 2013 -2014.
Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio tra le parti, in parziale accoglimento della domanda, aveva condannato l’Istituto convenuto al pagamento in favore della Capozza della somma di euro 56.368,54 a titolo di retribuzione di risultato per gli anni 2013 e 2014 (‘in assenza dell’allegazione circa il mancato raggiungimento da parte della ricorrente dei parametri per conseguire la retribuzione di risultato per gli anni 2013 -2014 …. ‘), oltre interessi legali dalla maturazione al saldo, rigettando nel resto il ricorso.
Decidendo sull’impugnazione principale dell’ISMA e su quella incidentale della Capozza, la Corte d’appello di Roma confermava la decisione di prime cure.
Quanto alla retribuzione di risultato relativa agli anni 2013 e 2014 la Corte territoriale rilevava che la COGNOME nel ricorso introduttivo del giudizio aveva dedotto di aver raggiunto, per il 2013, i significativi risultati ivi indicati (per come indicati nella relazione al Presidente del 10.3.2014) e che, al riguardo, nessuna contestazione era stata mossa dall’Istituto, il quale non aveva, sul punto, svolto nella comparsa di costituzione in giudizio alcuna difesa.
Quanto alle censure di cui all’appello incidentale, valutata la documentazione asseritamente pretermessa dal primo giudice, riteneva che la stessa non provasse la sussistenza di un atteggiamento persecutorio posto in essere dal datore di lavoro in danno della COGNOME, o l’impossibilità per la medesima di svolgere il nuovo incarico conferitole.
Inquadrava la vicenda in oggetto nel contesto di una indagine della Corte dei Conti – in relazione agli esercizi 2010/2013 – relativa alla gestione degli affitti degli immobili di proprietà dell’IPAB, alla gestione degli appalti ed ai contributi regionali ricevuti ed alla situazione anomala
degli Istituti oggetto di numerose interrogazioni presentate al Consiglio Regionale del Lazio (che aveva visto la Capozza anche indagata per i reati di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen.) e riteneva che ciò giustificasse i richiami del nuovo Segretario Generale al rispetto delle norme di contabilità pubblica, in considerazione delle irregolarità dal medesimo riscontrate nella gestione degli acquisti e negli affidamenti operati in precedenza dall’Ente.
Escludeva il carattere vessatorio della richiesta avanzata dall’Istituto alla Capozza nel novembre e dicembre 2013 di spostarsi presso altro Istituto di Assistenza, rilevando che la stessa era volta a tutelare la medesima ricorrente, in considerazione della temporaneità degli incarichi dirigenziali prevista dal nuovo Regolamento dell’Ente e dalla necessità della loro rotazione, per come evidenziata dalla Regione Lazio nella mail del 16.12.2013 (nella quale si sottolineava la necessità della rotazione degli incarichi e di una mobilità tra le varie IPAB).
Riteneva che l’attribuzione dei poteri di firma ad altro dipendente dell’Ente era giustificata dalla revoca dell’incarico precedentemente attribuito alla COGNOME. Aggiungeva che il fatto che quest’ultima fosse rimasta inoperosa sino al 28.4.2014, quando con deliberazione n. 143 le erano state assegnate le nuove funzioni (tra cui anche le funzioni vicarie del Segretario Generale), era compatibile (come già rilevato dal Tribunale, con statuizione non censurata) con la necessità di una riorganizzazione degli uffici.
Infine, riteneva che non potesse costituire indice di vessatorietà la circostanza (peraltro scarsamente significativa) che per prendere i fascicoli la COGNOME doveva chiedere l’autorizzazione del Segretario Generale.
Avverso tale sentenza NOME COGNOME ha proposto ricorso per Cassazione affidato a quattro motivi.
L’ISMA ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale affidato a tre motivi.
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
Con il primo motivo la ricorrente principale denuncia la nullità della sentenza ex art. 360 n. 4 cod. proc. civ. -art. 111, comma 6, della Costituzione, art. 132, comma 2, n. 4 cod. proc. civ. e art. 6 CEDU -.
Lamenta che la Corte territoriale non ha chiarito su quali elementi ha fondato il suo convincimento e sulla base di quali argomentazioni ha fondato il giudizio.
Rileva che la Corte territoriale si è pronunciata solo su tre questioni ( lamentata impossibilità di accedere all’archivio; note del Segretario Generale; attribuzione dei poteri di firma ad altro dipendente dell’Ente) pretermettendo del tutto quelle ulteriori e più rilevanti, oggetto di deduzione nel ricorso di primo grado e nell’appello incidentale.
2. Il motivo è inammissibile.
Il percorso motivazionale, come sintetizzato nello storico di lite, è chiaramente esplicitato nella sentenza gravata, che resiste alle censure in esame, in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, ricorre il vizio motivazionale rilevante ai fini della nullità della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105/2017; conf. Cass. n. 20921/2019), restando il sindacato di legittimità sulla motivazione circoscritto alla sola verifica della violazione del cd. minimo costituzionale’ richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass. S.U. n. 8053/2014, n. 23940/2017, n. 16595/2019). Esula invece da questo perimetro la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle quaestiones implicante un raffronto tra le ragioni del decidere adottate ed espresse nella sentenza impugnata e le risultanze del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudice di merito.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 cod. civ. in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.
Assume che la mancata valutazione degli elementi dedotti richiamati nel precedente motivo integra anche la violazione delle ulteriori disposizioni denunciate, che impongono al Giudice di merito di compiere una ‘valutazione complessiva’ degli elementi sintomatici necessari per l’accertamento dei fatti.
Il motivo è inammissibile.
Ad onta delle denunciate violazioni di legge, le censure attengono al governo delle prove.
La Corte d’appello ha provveduto a valutare analiticamente tutti gli elementi indiziari offerti (compresi quelli non espressamente menzionati in motivazione) per poi individuare quelli ritenuti rilevanti e scartare quelli privi di significatività pervenendo, infine, alla sua decisione finale all’esito di una valutazione complessiva di tutti quegli elementi. Il relativo apprezzamento non è affetto da alcun vizio logico.
Peraltro, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. senza, però, censurare l’erronea applicazione da parte del giudice di merito della regola di giudizio fondata sull’onere della prova e dunque per avere attribuito l’ onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata, con la conseguenza che il rilievo si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 360, co. 1, cod. proc. civ. perché, nonostante il richiamo normativo in esso contenuto, sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda (non consentita in sede di legittimità) affinché si fornisca un diverso apprezzamento delle prove (Cass., Sez. un., 10 giugno 2016, n. 11892).
È, altresì, devoluta al giudice di merito non solo la valutazione delle risultanze delle prove ma anche la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ. per valorizzare
elementi di fatto come fonti di presunzione (v. tra le più recenti Cass. n. 1234/2019; Cass. n. 30908/2021).
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 cod. civ. e 4 e 53 del TUPI n. 165/2001.
Assume che la Corte d’appello ha errato nell’affermare che nessun atteggiamento vessatorio in danno della dott.ssa COGNOME si riscontra nelle note del 4 e 5 giugno, dovendosi collocare il contenuto delle stesse nel contesto di una indagine Corte dei Conti e di accertamenti in sede penale che avevano visto la COGNOME indagata per i reati di cui agli artt. 110 e 323 cod. pen.
Sostiene che i compiti assegnatile nel 2013 ed aventi ad oggetto la mera predisposizione di atti di gara ed appalti, senza alcuna autonomia di spesa e, soprattutto, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo, costituivano oggettivamente un demansionamento.
Deduce che tale demansionamento sarebbe stato riconosciuto nella stessa sentenza là dove la Corte territoriale lo ha giustificato sulla base del sospetto di avvenute irregolarità commesse dalla COGNOME quando rivestiva l’incarico di Segretario Generale.
6. Il motivo è inammissibile.
Esso, che non contiene alcuno specifico riferimento ad un totale svuotamento delle mansioni essendo più che altro incentrato su un asserito arretramento della professionalità, non evidenzia sulla base di quali argomentazioni sia stato sottoposto a revisione, dinanzi al giudice di appello, il ragionamento del Tribunale (riportato nella sentenza qui impugnata) secondo cui, mantenuto da parte della Capozza l’incarico dirigenziale, non rilevava la diversità delle mansioni e la stessa ricorrente non aveva contestato il contenuto dirigenziale dei compiti affidatile dopo la revoca dell’incarico di Segretario Generale.
In ogni caso, non vi è stato alcun riconoscimento di un avvenuto demansionamento avendo la Corte territoriale piuttosto evidenziato,
sulla base del devoluto, che non vi era stato alcun atteggiamento vessatorio ed alcuna valenza persecutoria delle note inviate alla lavoratrice dal Segretario Generale.
Senza dire che pretendere la retribuzione di risultato a fronte di un asserito demansionamento ha già in sé elementi di intrinseca contraddittorietà.
Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 cod. civ. e 53 del TUPI n. 165/2001.
Critica la sentenza impugnata per aver errato nell’escludere la vessatorietà e il demansionamento conseguente a quei (pochi) comportamenti che la stessa Corte d’appello ha ritenuto di esaminare, estrapolandoli dal contesto in cui erano inseriti.
Assume che le presunzioni andavano esaminate in modo complessivo e non singolarmente e peraltro in minima parte rispetto a quelle dedotte dalla parte.
Il motivo è inammissibile.
Anche in questo caso la censura sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile in questa sede.
La ricorrente, infatti, lungi dal prospettare a questa Corte un vizio della sentenza rilevante sotto il profilo di cui all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., si volge piuttosto ad invocare una diversa lettura delle risultanze procedimentali così come accertare e ricostruite dalla Corte territoriale, muovendo all’impugnata sentenza censure del tutto inaccoglibili, perché la valutazione delle risultanze probatorie, al pari della scelta di quelle fra esse – ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, postula un apprezzamento di fatto riservato in via esclusiva al giudice di merito il quale, nel porre a fondamento del proprio convincimento e della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, nel privilegiare una ricostruzione circostanziale a scapito di altre (pur astrattamente possibili e logicamente non impredicabili), non incontra altro limite che quello di
indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto ad affrontare e discutere ogni singola risultanza processuale ovvero a confutare qualsiasi deduzione difensiva.
Il ricorso principale va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.
Con il primo motivo di ricorso incidentale l’ISMA denuncia nullità della sentenza ( ex art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ.) in relazione alla violazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ.
Censura la sentenza impugnata per aver disatteso il primo motivo di appello dell’ISMA con il quale era stata impugnata la sentenza del Tribunale per aver ritenuto sussistente il diritto della lavoratrice a conseguire la retribuzione di risultato per gli anni 2013 e 2014 senza che, tuttavia, nel corso del giudizio, la medesima avesse dedotto e fornito la benché minima prova della sussistenza degli elementi fondanti le sue pretese.
Con il secondo motivo la ricorrente incidentale deduce la nullità della sentenza ( ex art. 360, comma 1, n. 4 cod. proc. civ.) in relazione alla violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., per omessa pronuncia, per non avere la Corte territoriale preso in considerazione lo specifico motivo di appello in cui veniva denunciata la violazione e la falsa applicazione delle norme di cui al CCNL del personale dirigente comparto Regioni e Autonomie Locali (artt. 20, 23, 43 del CCNL del 10.4.1996 e art. 29 CCNL del 23.12.1999) e dell’art. 7, comma 5, d.lgs. n. 165/2001.
Sostiene che la Corte territoriale, riconoscendo alla ricorrente la retribuzione di risultato nella stessa misura percepita fino al 2012 – si è di fatto illegittimamente sostituita all’Amministrazione nella valutazione ‘discrezionale’ circa l’effettivo grado di perseguimento degli obiettivi assegnati oltre ad aver erroneamente quantificato la spettanza della retribuzione rapportandola illogicamente alla misura percepita nell’anno 2012 senza alcuna verifica e/o riferimento al grado di raggiungimento degli obiettivi negli anni oggetto di domanda.
Con il terzo motivo la ricorrente incidentale si duole della regolamentazione delle spese.
Il ricorso incidentale va dichiarato inefficace ex art. 334, comma 2, cod. proc. civ., in quanto il ricorso principale è inammissibile.
La sentenza impugnata è stata depositata il 15 gennaio 2020 e il ricorso incidentale è stato notificato il 23 ottobre 2020 là dove il termine per tale notifica, trattandosi di processo iniziato dopo l’entrata in vigore della novella apportata all’art. 327, comma 1°, cod. proc. civ., dall’art. 46, comma 17, l. n. 69/2009 avrebbe dovuto essere proposto entro sei mesi dalla pubblicazione della sentenza e cioè, considerata la sospensione straordinaria dal 9 marzo all’11 maggio 2020 (art. 83, D.L. n. 18/2020 e art. 36, comma 1, D.L. n. 23/2020), entro il 17 settembre 2020.
Non rileva in contrario che il ricorso incidentale sia stato proposto nel rispetto del termine di cui all’art. 371, comma 2, cod. proc. civ., ossia di quaranta giorni dalla notificazione del ricorso principale, costituendo anzi tale tempestività ‘interna’ il presupposto stesso dell’operatività della sanzione di inefficacia per il caso di inosservanza del termine ‘esterno’ di impugnazione (così Cass. n. 3419/2004 e, da ult., Cass. n. 17707/2021).
Conclusivamente, va dichiarato inammissibile il ricorso principale e inefficace quello incidentale.
Le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza della ricorrente principale, che, stante l’inefficacia del ricorso incidentale, è l’unica soccombente (giusta il consolidato principio di diritto di cui a Cass. n. 4074 del 2014, secondo cui: ‘In caso di declaratoria di inammissibilità del ricorso principale, il ricorso incidentale tardivo è inefficace ai sensi dell’art. 334, secondo comma, cod. proc. civ., con la conseguenza che la soccombenza va riferita alla sola parte ricorrente in via principale, restando irrilevante se sul ricorso incidentale vi sarebbe stata soccombenza del controricorrente, atteso che la decisione della
Corte di cassazione non procede all’esame dell’impugnazione incidentale e dunque l’applicazione del principio di causalità con riferimento al ‘ decisum ‘ evidenzia che l’instaurazione del giudizio è da addebitare soltanto alla parte ricorrente principale’).
Sussistono, in relazione alla ricorrente principale – e non anche alla ricorrente incidentale tardiva (cfr., Cass. n. 18384/2017) -, le condizioni per l’applicazione dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e inefficace quello incidentale; condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese relative al giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.500,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della sola ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso all’adunanza camerale dell’8 gennaio 2025.