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Demansionamento e risarcimento: la prova presuntiva

Una dipendente pubblica, reintegrata dopo un’assoluzione penale, viene assegnata a mansioni inferiori (demansionamento). La Cassazione ha confermato la condanna dell’ente pubblico al risarcimento del danno professionale e di immagine, ritenendo sufficiente la prova presuntiva basata sulla differenza tra le vecchie e le nuove mansioni e sulla durata del demansionamento stesso.

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Pubblicato il 28 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Demansionamento nel Pubblico Impiego: Come Ottenere il Risarcimento

Il demansionamento è una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro, specialmente quando coinvolge un dipendente pubblico reintegrato dopo un’assoluzione in sede penale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce aspetti fondamentali riguardo al diritto del lavoratore di essere adibito a mansioni conformi alla propria qualifica e, soprattutto, alle modalità con cui può essere provato e risarcito il danno che ne deriva. Vediamo nel dettaglio questa importante pronuncia.

I Fatti del Caso: La Reintegrazione Dopo l’Assoluzione

La vicenda riguarda una dipendente di un ente pubblico, inquadrata nella categoria D con un ruolo di elevata responsabilità come responsabile del Servizio Finanziario e Tributario. Sospesa cautelarmente dal servizio a causa di un procedimento penale a suo carico, la lavoratrice è stata successivamente assolta con formula piena per insussistenza del fatto.

Al suo rientro in servizio, tuttavia, l’ente la assegnava a mansioni completamente diverse e dequalificanti: servizi di anagrafe, protocollo, stato civile e cimiteriali. Si trattava di compiti meramente esecutivi, di compilazione di modelli predefiniti, privi di qualsiasi autonomia, responsabilità o contenuto specialistico, al punto da essere coordinata da una collega di livello inferiore (C2).

Il Percorso Giudiziario: Dal Primo Grado alla Cassazione

Il Tribunale di primo grado, pur riconoscendo l’avvenuto demansionamento, rigettava la richiesta di risarcimento del danno per difetto di allegazione. La Corte di Appello, invece, ribaltava la decisione, condannando l’ente pubblico a risarcire la lavoratrice con una somma di quasi 40.000 euro. Secondo i giudici d’appello, la dipendente aveva fornito sufficienti elementi presuntivi per dimostrare il danno alla professionalità e all’immagine, descrivendo in modo dettagliato le mansioni precedenti, quelle nuove, la durata della dequalificazione e la penalizzante collocazione lavorativa a contatto con il pubblico, che rendeva palese la sua diminuita posizione.

L’ente pubblico ha quindi proposto ricorso in Cassazione, ma la Suprema Corte lo ha dichiarato inammissibile, confermando in toto la sentenza d’appello.

Le Motivazioni della Corte sul Demansionamento

La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i motivi di ricorso dell’ente, fornendo chiarimenti cruciali su due aspetti principali: la violazione delle norme sul demansionamento e la prova del danno.

La Violazione dell’Art. 52 D.Lgs. 165/2001

I giudici hanno confermato che l’assegnazione a mansioni meramente esecutive e prive di autonomia costituiva una palese violazione dell’art. 52 del D.Lgs. 165/2001, che garantisce al lavoratore pubblico il diritto ad essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti. La Corte ha sottolineato come le attività della categoria D, secondo il Contratto Collettivo, richiedano contenuto specialistico, conoscenze plurispecialistiche, elevata complessità, autonomia e assunzione di responsabilità, tutti elementi totalmente assenti nei nuovi compiti assegnati alla lavoratrice. Le nuove mansioni erano, di fatto, inferiori persino a quelle della categoria C.

La Prova Presuntiva del Danno Professionale

Il punto più significativo della decisione riguarda la prova del danno. La Cassazione ha stabilito che, anche se il danno da demansionamento non è in re ipsa (cioè non si presume automaticamente dall’inadempimento), esso può essere provato attraverso presunzioni. Il lavoratore non deve necessariamente fornire una prova diretta e specifica del pregiudizio subito, ma può allegare una serie di circostanze di fatto che, valutate nel loro complesso, permettano al giudice di risalire logicamente all’esistenza del danno.

Nel caso specifico, sono stati ritenuti sufficienti elementi come:
* La natura e la professionalità delle mansioni precedenti.
* Il contenuto meramente esecutivo e dequalificante delle nuove mansioni.
* La durata del demansionamento.
* La nuova collocazione lavorativa, che rendeva visibile all’esterno la dequalificazione subita.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

Questa ordinanza rafforza la tutela dei lavoratori contro il demansionamento, sia nel settore pubblico che in quello privato. Stabilisce chiaramente che il datore di lavoro non può svuotare di contenuto la posizione professionale di un dipendente, anche a seguito di una reintegra. Inoltre, semplifica l’onere della prova per il lavoratore che chiede il risarcimento del danno non patrimoniale (alla professionalità, all’immagine, alla dignità), valorizzando il ricorso alla prova presuntiva e consentendo al giudice di quantificare il danno in via equitativa sulla base di elementi concreti forniti dal ricorrente. Si tratta di un principio di equità che bilancia le esigenze di tutela del lavoratore con il rigore processuale.

Quando si verifica un demansionamento nel pubblico impiego?
Si verifica quando al dipendente vengono assegnate mansioni non corrispondenti alla sua categoria di inquadramento (nel caso di specie, Categoria D), prive di contenuto specialistico, autonomia, complessità e responsabilità, come stabilito dal Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL).

Come si può provare il danno da demansionamento se non ci sono prove dirette?
Il danno, specialmente quello non patrimoniale (all’immagine e alla professionalità), può essere provato in via presuntiva. Il lavoratore deve fornire al giudice elementi di fatto, come le mansioni svolte prima e dopo, la loro durata, la nuova e penalizzante collocazione lavorativa, dai quali il giudice può logicamente dedurre l’esistenza del danno.

La mancata impugnazione di un punto della sentenza di primo grado impedisce di discutere l’intero tema in appello?
No. La Corte ha chiarito che il “giudicato interno” si forma solo su capi autonomi della sentenza. La motivazione che ha portato al rigetto di una domanda (in questo caso, il danno) non è un capo autonomo. Pertanto, l’appello contro il rigetto della domanda riapre la cognizione sull’intera questione, impedendo la formazione del giudicato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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