Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15303 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15303 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/06/2025
1. Il Tribunale di Bergamo ha accertato il demansionamento subito da NOME COGNOME COGNOME (dipendente dell’Unione Media Val Cavallina, costituita dai Comuni di Borgo di Terzo, Luzzana e Vigano San Martino) dal 7.6.2018 ed ha rigettato le ulteriori domande proposte dalla medesima, volte ad ottenere il risarcimento del danno, la reintegrazione nella posizione organizzativa precedentemente ricoperta, la monetizzazione delle ferie non godute nel periodo di sospensione del rapporto di impiego ed il rimborso degli oneri di difesa del processo penale che aveva dovuto affrontare.
NOME COGNOME, assunta dall’Unione Media Val Cavallina nel 1998 per mobilità volontaria quale istruttore direttivo di VII qualifica funzionale, passata alla categoria D posizione giuridica D con la stipula del CCNL del 1999 e dal 2008 alla posizione economica D8, con delibera n. 8 del 11.1.2017 (epoca in cui ricopriva il ruolo di responsabile di posizione organizzativa ed era responsabile del Servizio Finanziario e del Servizio Tributi dell’Unione e dei Comuni associati), era stata sospesa cautelarmente dal servizio per la pendenza di un processo penale a suo carico per i reati di peculato e abuso d’ufficio.
La lavoratrice, poi assolta per insussistenza del fatto con sentenza n. 254/2018, passata in giudicato, era stata reintegrata in servizio in data 7.6.2018 ed assegnata ai servizi dell’anagrafe e protocollo, a quelli dello stato civile e a quelli cimiteriali, senza attribuzione di posizioni organizzative o di un ruolo di responsabilità.
La Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha condannato l’Unione Media Val Cavallina al risarcimento dei danni subiti dalla COGNOME a causa del demansionamento, e li ha quantificati in €
38.940,00, oltre interessi dal dovuto al saldo; ha dunque rigettato l’appello incidentale proposto dall’Unione Media Val Cavallina.
La Corte territoriale ha rilevato che le parti avevano prestato acquiescenza ai capi della sentenza di primo grado riguardanti l’assegnazione o la riassegnazione della posizione organizzativa in precedenza ricoperta dalla COGNOME, il compenso ad essa relativo, la monetizzazione delle ferie non godute nel periodo di sospensione dal servizio ed il rimborso degli oneri di difesa nel procedimento penale.
Ritenuta la legittimazione passiva dell’Unione Media Val Cavallina riguardo a tutte le domande proposte dalla COGNOME, all’esito dell’istruttoria testimoniale ha considerato dimostrato che dopo il suo rientro in servizio, alla lavoratrice erano state assegnate mansioni di mera compilazione di modelli di atti e schemi predefiniti (non comportanti alcun significativo apporto specialistico, alcuna scelta autonoma e alcun significativo grado di responsabilità), senza alcun potere di firma e senza alcuna responsabilità di funzione, con il coordinamento da parte della collega COGNOME, inquadrata nel livello C2.
Il giudice di appello ha ritenuto che le mansioni svolte dalla COGNOME fossero nella migliore delle ipotesi riconducibili alla categoria professionale C, la stessa area di inquadramento delle colleghe che svolgevano le sue stesse mansioni; ha tuttavia rilevato che a differenza delle medesime, la COGNOME non aveva la responsabilità del procedimento, né era stata dotata di delega o di poteri di firma con riferimento a dette mansioni, dovendo rivolgersi ad altri colleghi anche inquadrati in un livello inferiore al suo per la sottoscrizione degli atti che preparava.
Richiamata la declaratoria del CCNL, ha ravvisato i tratti salienti della categoria D nel contenuto specialistico delle attività da svolgere, l’applicazione di conoscenze plurispecialistiche e di un grado di esperienza pluriennale, con frequente necessità di aggiornamento, il riferimento ad importanti e diversi processi produttivi/amministrativi, con assunzione della relativa responsabilità, l’elevata complessità dei problemi da risolvere su modelli teorici non immediatamente utilizzabili, con elevata ampiezza delle soluzioni possibili; ha ritenuto che anche le ‘attività di istruzione, predisposizione e redazione di atti e
documenti riferiti all’attività amministrativa dell’ente’ devono comportare ‘un significativo grado di complessità’ e ‘attività di analisi, studio e ricerca con riferimento al settore di competenza’.
Ha dunque rilevato che la COGNOME aveva svolto mansioni semplici e prive di contenuto specialistico, che non avevano comportato l’applicazione di conoscenze plurispecialistiche o la soluzione di problemi di elevata complessità, lo svolgimento di attività di studio e ag giornamento, l’assunzione di responsabilità anche solo del procedimento ed ha pertanto ritenuto la violazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 da parte dell’Unione Media Val Cavallina.
Pur avendo considerato che la COGNOME aveva esposto allegazioni specifiche solo in materia di danno all’immagine professionale, la Corte territoriale ha evidenziato che la medesima aveva comunque fornito elementi per risalire alla loro sussistenza con prova presuntiva, avendo indicato in modo particolareggiato nel ricorso di primo grado le mansioni svolte in precedenza e la professionalità acquisita, il tipo di attività svolta dopo il suo rientro in servizio e la sua durata e la nuova penalizzante collocazione lavorativa presso l’ufficio demografico, che aveva palesato anche all’esterno la sua nuova inferiore posizione lavorativa, in quanto comportava anche il contatto con l’utenza.
In ragione della consistenza e della durata del demansionamento, il giudice di appello ha ravvisato elementi presuntivi sufficienti a riscontrare la sussistenza dei danni non patrimoniali, che ha quantificato in misura del 35% della retribuzione mensile base.
Avverso tale sentenza l’Unione Media Val Cavallina ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Illustrati da memoria.
NOME COGNOME ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
DIRITTO
1.Con il primo motivo il ricorso denuncia violazione degli artt. 100, 112, 324, e 329, comma secondo, cod. proc. civ., nonché dell’art. 2909 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma primo n. 4, cod. proc. civ., per avere la Corte
territoriale violato il giudicato interno derivante dall’acquiescenza alla decisione di primo grado sotto il profilo della mancata allegazione della dequalificazione.
Addebita alla Corte territoriale di avere accolto le domande di risarcimento del danno alla professionalità e del danno all’immagine derivanti dall’attribuzione di mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla categoria D, pur avendo dato atto della formazione del giudicato sulla liceità della mancata attribuzione della posizione organizzativa alla COGNOME.
Evidenzia che secondo la sentenza di primo grado, non appellata sul punto, a fondamento delle domande risarcitorie , sotto il profilo dell’ingiustizia del danno, la lavoratrice aveva dedotto esclusivamente la perdita o la mancata attribuzione della posizione organizzativa.
Aggiunge che l’atto di appello non aveva censurato nemmeno i capi della sentenza di primo grado relativi al rigetto delle domande risarcitorie in quanto fondate esclusivamente sulla mancata attribuzione della posizione organizzativa.
Addebita alla Corte territoriale di avere esteso il suo esame ad un punto non compreso nemmeno implicitamente nei termini prospettati dal gravame.
2. Il motivo è inammissibile.
Dalla sentenza impugnata risulta che il Tribunale, dopo avere escluso il diritto della COGNOME al mantenimento della posizione organizzativa, ha accertato il demansionamento della medesima, nonché il suo diritto ad essere adibita a mansioni conformi a quelle proprie della categoria D ed ha rigettato le domande risarcitorie per difetto di allegazione dei lamentati danni alla professionalità e all’immagine.
A fronte dell’impugnazione del capo della sentenza di primo grado che ha rigettato la domanda risarcitoria, deve escludersi la formazione del giudicato sul rigetto delle domande risarcitorie; le statuizioni poste a fondamento del rigetto sono peraltro prive di autonomia.
Deve in proposito rammentarsi che il giudicato interno si forma solo su capi autonomi della sentenza, che risolvano questioni aventi una propria individualità e autonomia, tali da integrare una decisione del tutto indipendente (Cass. n. 17935 del 2007; Cass. n. 23747 del 2008), non anche su quelli relativi ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in
concreto adottata (Cass. n. 22863 del 2008); si è inoltre precisato che costituisce capo autonomo della sentenza, come tale suscettibile di formare oggetto di giudicato anche interno, quello che risolve una questione controversa, avente una propria individualità ed autonomia, sì da integrare astrattamente una decisione del tutto indipendente; la suddetta autonomia non solo manca nelle mere argomentazioni, ma anche quando si verte in tema di valutazione di un presupposto necessario di fatto che, unitamente ad altri, concorre a formare un capo unico della decisione (Cass. n. 23747 del 2008; Cass. n. 22863 del 2007; Cass. n. 27196 del 2006).
Questa Corte ha inoltre chiarito che la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, con la conseguenza che la censura motivata anche in ordine ad uno solo di tali elementi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perché, impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione» (Cass. n. 16853/2018 e negli stessi termini Cass. n. 24783/2018 e Cass. n. 12202/2017).
Non è pertanto configurabile la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., peraltro denunciata ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.
Con il secondo motivo il ricorso denuncia violazione degli artt. 1223 e 2697 cod. civ., degli artt. 99, 112 e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo n. 4, cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale accolto la domanda risarcitoria in difetto di sufficienti e specifiche allegazioni della stessa lavoratrice in ordine alla sussistenza di tali danni.
Sostiene che nel ricorso di primo grado la lavoratrice aveva fondato le domande relative al danno alla professionalità e al danno all’immagine esclusivamente sulla perdita delle mansioni connesse all’incarico di posizione organizzativa.
Critica la sentenza impugnata per avere posto a base della decisione elementi fattuali mai allegati dalla lavoratrice, finendo per alterare la causa petendi delle sue domande.
4. La censura è inammissibile.
Al di là della formulazione del motivo, che denuncia ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ. anche la violazione degli artt. 1223 e 2697 cod. civ., degli artt. 99 e 115 cod. proc. civ., la censura non si confronta con il decisum.
La Corte territoriale, pur avendo rilevato che la COGNOME aveva proposto le domande risarcitorie sull’erroneo presupposto che il danno fosse risarcibile in re ipsa , aveva esposto allegazioni specifiche in materia di danno all’immagine professionale ed aveva comunque fornito elementi per risalire alla sussistenza del danno alla professionalità con prova presuntiva, avendo indicato in modo particolareggiato nel ricorso di primo grado le mansioni svolte in precedenza e la professionalità acquisita, il tipo di attività svolta dopo il suo rientro in servizio e la sua durata e la nuova penalizzante collocazione lavorativa presso l’ufficio demografico, che aveva palesato anche all’esterno la sua nuova inferiore posizione lavorativa, in quanto comportava anche il contatto con l’utenza.
A fronte di tali statuizioni, la censura non assolve compiutamente agli oneri previsti dall’art. 366 n. 6 cod. proc. civ. , in quanto non riporta né sintetizza il ricorso di primo grado.
Dal ricorso di primo grado risulta comunque che le domande di risarcimento del danno alla professionalità e del danno all’immagine sono state proposte in relazione al demansionamento subito al rientro dal lavoro dopo la sospensione.
Con il terzo motivo il ricorso denuncia violazione degli artt. 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo n. 4, cod. proc. civ., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto la sussistenza di un demansionamento.
Critica la sentenza impugnata per avere attribuito valore decisivo ad apprezzamenti e giudizi resi dai testi escussi.
6. Il motivo è inammissibile.
In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ul timo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento
critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione. (Sez. 1 – , Sentenza n. 6774 del 01/03/2022).
Si è infatti chiarito che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice di merito configura un errore di fatto che va censurato nei limiti consentiti dall’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 27847 del 12/10/2021).
In ogni caso la sentenza impugnata, pur avendo riportato integralmente le dichiarazioni dei testi escussi, che nel rispondere alle domande formulate hanno riferito anche loro valutazioni, ha fondato la decisione esclusivamente sui fatti concreti dai medesimi riferiti (inserimento dati, uso di una cartellina fissa di word , aggiunta al numero di protocollo della classificazione proposta da un menu a tendina, assenza di deleghe e di poteri di firma).
Con il quarto motivo il ricorso denuncia violazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165/2001, nonché dell’art. 3 e dell’Allegato A del CCNL 31.3.1999, in relazione all’art. 360, comma primo n. 4, cod. proc. civ.
Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto provato il demansionamento della COGNOME ed i relativi danni in ragione del confronto con le mansioni svolte dagli altri dipendenti dell’ente e della mancata attribuzione di deleghe e poteri di firma (che non caratterizzano necessariamente le mansioni afferenti alla categoria D), dello svolgimento di compiti a contatto con l’utenza (che ben possono caratterizzare lo svolgimento delle mansioni relative alla categoria di inquadramento), dello svolgimento di mansioni inferiori a quelle di p.o.responsabile di servizio svolte in precedenza, dello svolgimento di mansioni meramente accessorie ai compiti assegnati alla COGNOME, quanto al protocollo.
La censura è inammissibile, in quanto non coglie il decisum .
La Corte territoriale ha riportato la declaratoria relativa alla categoria D del CCNL, ne ha individuato i tratti salienti ed ha rilevato che le mansioni svolte dalla COGNOME erano prive di tali tratti; le ha inoltre ritenute meno articolate di quelle svolte dalle colleghe inquadrate nella categoria C.
La sentenza impugnata ha in particolare ravvisato i tratti salienti della categoria D nel contenuto specialistico delle attività da svolgere, nell’applicazione di conoscenze plurispecialistiche e di un grado di esperienza pluriennale, con frequente necessità di aggiornamento, nel riferimento ad importanti e diversi processi produttivi/amministrativi, con assunzione della relativa responsabilità, nell’elevata complessità dei problemi da risolvere su modelli teorici non immediatamente utilizzabili, con elevata ampiezza delle soluzioni possibili; ha ritenuto che anche le ‘attività di istruzione, predisposizione e redazione di atti e documenti riferiti all’attività amministrativa dell’ente devono comportare ‘un significativo grado di complessità’ e ‘attivi tà di analisi, studio e ricerca con riferimento al settore di competenza’; ha dunque evidenziato che la COGNOME aveva svolto mansioni semplici e prive di contenuto specialistico, che non avevano comportato l’applicazione di conoscenze plurispecialistiche o la soluzione di problemi di elevata complessità, né lo svolgimento di attività di studio e aggiornamento, né l’assunzione di responsabilità anche solo del procedimento ed ha ritenuto la violazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 da parte dell’Unione Media Val Cavallina.
Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell’art.13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, dell’obbligo, per parte ricorrente, di versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a rifondere le spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 200,00 per esborsi ed in € 4000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15% e accessori di legge;
dà atto della sussistenza dell’obbligo per parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n.115 del 2002, di versare l’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della