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Decreto di espulsione nullo se non tradotto

La Corte di Cassazione ha annullato un’ordinanza del Giudice di Pace che convalidava un decreto di espulsione. Il motivo risiede nella mancata traduzione del provvedimento in una lingua comprensibile per il cittadino straniero. La Suprema Corte ha ribadito che l’onere di provare la comprensibilità della lingua usata per la traduzione spetta alla Pubblica Amministrazione, a garanzia del diritto di difesa. Di conseguenza, il decreto di espulsione è stato ritenuto nullo e il caso è stato rinviato al Giudice di Pace per una nuova valutazione.

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Pubblicato il 22 settembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Decreto di Espulsione: Nullo se Tradotto in una Lingua Sconosciuta allo Straniero

Il diritto di difesa è un pilastro fondamentale del nostro ordinamento e si applica anche nei confronti dei cittadini stranieri. Un recente provvedimento della Corte di Cassazione ha riaffermato questo principio, chiarendo le condizioni di validità di un decreto di espulsione. In particolare, la Corte ha stabilito che il provvedimento è nullo se non viene tradotto in una lingua che lo straniero possa effettivamente comprendere, ponendo precisi oneri a carico dell’Amministrazione.

I Fatti di Causa

Un cittadino straniero proponeva opposizione contro un decreto di espulsione emesso dal Prefetto di Agrigento. Il ricorrente si trovava in Italia senza un valido permesso di soggiorno e aveva già ricevuto un precedente provvedimento espulsivo, al quale non aveva ottemperato. Il Giudice di Pace rigettava l’opposizione, ritenendo legittima la decisione della Prefettura. Tra le varie doglianze, il ricorrente lamentava che il decreto, redatto in italiano, era stato tradotto solo in lingua inglese, lingua che egli dichiarava di non comprendere. Insoddisfatto della decisione, lo straniero ricorreva per Cassazione.

I Motivi del Ricorso e la Questione della Traduzione

Il ricorso in Cassazione si basava su due motivi principali:
1. La presunta motivazione apparente del Giudice di Pace, che si sarebbe limitato a confermare l’operato della Prefettura senza svolgere un’autonoma istruttoria.
2. La violazione del diritto di difesa per l’omessa traduzione del decreto di espulsione in una lingua a lui nota.

Il primo motivo è stato respinto dalla Suprema Corte, la quale ha ritenuto che il giudice di merito avesse comunque vagliato gli elementi essenziali, come la presenza di un precedente decreto e l’assenza del permesso di soggiorno. È sul secondo motivo, invece, che si concentra l’attenzione della Corte e che porta all’accoglimento del ricorso.

L’obbligo di traduzione del decreto di espulsione

La normativa in materia di immigrazione (art. 13, co. 7, D.Lgs. 286/1998) prevede che il decreto di espulsione e gli altri atti relativi siano comunicati all’interessato in una lingua da lui conosciuta o, se non possibile, in francese, inglese o spagnolo. Tuttavia, questa seconda opzione non è automatica. L’Amministrazione deve dimostrare di aver assolto all’onere di specificare le ragioni della difficoltà tecnico-organizzativa che hanno impedito la traduzione nella lingua madre dello straniero. Nel caso di specie, il provvedimento era stato tradotto in inglese senza che fosse stato accertato se il destinatario comprendesse tale lingua e senza che gli fosse stata data la possibilità di indicare una lingua preferita.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, accogliendo il secondo motivo di ricorso, ha cassato l’ordinanza del Giudice di Pace. I giudici hanno ribadito un orientamento consolidato: l’effettiva comprensione dell’atto da parte del destinatario è un elemento costitutivo del suo diritto di difesa. Grava sulla Pubblica Amministrazione l’onere di provare che lo straniero conosca la lingua in cui il provvedimento è stato tradotto.

Il Giudice di Pace, nel caso concreto, non ha motivato adeguatamente su questo punto cruciale. Ha dato per scontato che l’uso della lingua inglese fosse legittimo, senza verificare se l’Amministrazione avesse giustificato l’impossibilità di una traduzione più appropriata e senza accertare il consenso, anche implicito, dello straniero all’uso dell’inglese. La Corte richiama precedenti in cui provvedimenti simili sono stati annullati proprio per questo vizio (ad esempio, un decreto tradotto in inglese anziché in bengali, lingua conosciuta dal destinatario). La mancata o errata traduzione non è un vizio formale, ma una lesione sostanziale del diritto di difesa, che rende nullo il provvedimento.

Conclusioni

La decisione in commento rafforza la tutela dei diritti fondamentali dello straniero nel procedimento di espulsione. Si afferma con chiarezza che la notifica di un decreto di espulsione non è una mera formalità, ma deve garantire la piena comprensione dell’atto e la possibilità di difendersi adeguatamente. La Pubblica Amministrazione non può limitarsi a una traduzione standard in una lingua veicolare come l’inglese, ma deve compiere uno sforzo attivo per accertare la lingua conosciuta dall’interessato o, in alternativa, motivare in modo specifico l’impossibilità di farlo. In assenza di tali cautele, il provvedimento espulsivo è da considerarsi nullo.

Quando un decreto di espulsione è nullo per un problema di traduzione?
Un decreto di espulsione è nullo quando non è tradotto in una lingua che il destinatario straniero comprende effettivamente. La semplice traduzione in una lingua veicolare comune (come l’inglese) non è sufficiente se non si prova che lo straniero la conosca o se l’amministrazione non giustifica l’impossibilità di tradurlo nella sua lingua madre.

Su chi ricade l’onere di provare che lo straniero comprende la lingua della traduzione?
L’onere di provare l’effettiva conoscenza della lingua utilizzata per la traduzione del provvedimento da parte del destinatario ricade sulla Pubblica Amministrazione. È l’Amministrazione che deve dimostrare di aver garantito la comprensibilità dell’atto, quale elemento essenziale per il corretto esercizio del diritto di difesa.

È sufficiente che il giudice convalidi l’espulsione richiamando gli atti dell’amministrazione?
No, non sempre. Sebbene il giudice possa motivare la sua decisione facendo riferimento agli atti amministrativi (per relationem), non può farlo in modo acritico. Deve comunque svolgere una propria valutazione autonoma, soprattutto quando vengono sollevate specifiche contestazioni, come quella sulla violazione del diritto di difesa per mancata traduzione.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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