Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 2592 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 2592 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 03/02/2025
ORDINANZA
sul ricorso 8192-2021 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME NOME e COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell’avv. NOME COGNOME che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
NOME e NOME COGNOME rappresentati e difesi da ll’ avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliati a ll’ indirizzo PEC del difensore iscritto nel REGINDE;
– controricorrenti –
nonchè contro
COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME DI NOME COGNOME
– intimati – avverso la sentenza n. 631/2021 della CORTE DI APPELLO di ROMA, depositata il 27/01/2021;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere NOME COGNOME nella camera di consiglio del 29 ottobre 2024.
FATTI DI CAUSA
Con distinti ricorsi per denuncia di nuova opera e danno temuto proposti, rispettivamente, il primo, da COGNOME NOME, COGNOME NOME COGNOME NOME, COGNOME NOME e COGNOME NOME, proprietari degli appartamenti posti al piano terra, con l’intervento di COGNOME NOME, ed il secondo, da COGNOME NOME e COGNOME Maurizio, proprietari degli appartamenti posti al piano secondo di un unico stabile sito in Velletri, veniva chiesta la sospensione dei lavori con i quali COGNOME Giuseppe, COGNOME NOME e COGNOME NOME, proprietari del primo piano dello stabile, avevano intrapreso la realizzazione di un balcone.
Riuniti i ricorsi, il Tribunale di Velletri rigettava la tutela interdittale con ordinanza del 22.7.2011, ma con successiva sentenza n. 2189/2016 accoglieva la domanda, ordinando la riduzione in pristino.
Con la sentenza impugnata, n. 631/2012, la Corte di Appello di Roma rigettava tanto l’appello principale che quelli incidentali proposti avverso la decisione di prime cure.
Propongono ricorso per la cassazione avverso detta decisione COGNOME NOMECOGNOME Mauro e COGNOME NOMECOGNOME affidato a cinque motivi.
Resistono con controricorso COGNOME NOME e COGNOME NOME
Le altre parti intimate non hanno svolto attività difensiva nel presente giudizio di legittimità.
A seguito di proposta di definizione anticipata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. la parte ricorrente, con istanza del 19.6.2023, ha chiesto la decisione del ricorso.
In prossimità dell’odierna adunanza camerale, la parte ricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, il collegio dà atto che, a seguito della pubblicazione della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 9611 del 10 aprile 2024, non sussiste alcuna incompatibilità del presidente della sezione o del consigliere delegato, che abbia formulato la proposta di definizione accelerata, a far parte, ed eventualmente essere nominato relatore, del collegio che definisce il giudizio ai sensi dell’art. 380-bis.1, atteso che la proposta non ha funzione decisoria e non è suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva, né la decisione in camera di consiglio conseguente alla richiesta del ricorrente si configura quale fase distinta del giudizio di cassazione, con carattere di autonomia e contenuti e finalità di riesame e di controllo sulla proposta stessa.
Con il primo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe reso una motivazione apparente, fondata sulla pedissequa ed acritica adesione al contenuto della decisione di prime cure.
Con il secondo motivo denunziano la violazione o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe ritenuto infondati i motivi di gravame da essi proposti senza fornire alcuna
motivazione, né indicare alcuno specifico elemento istruttorio, a sostegno della propria decisione.
Con il terzo motivo, poi, i ricorrenti contestano la violazione o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e la nullità della sentenza, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe fornito una motivazione inficiata da irriducibile contrasto logico, dapprima escludendo che le tettoie realizzate al piano terreno potessero ledere il decoro architettonico dell’edificio, e poi ravvisando la lesione dello stesso derivata dalle medesime tettoie. Ed ancora, dapprima dichiarando assorbito il motivo di gravame con il quale si contestava l’idoneità del balcone edificato dai proprietari del primo piano a limitare luce ed aria agli immobili siti al piano terreno dello stabile, e poi considerando invece accertata la ridetta limitazione, pur rilevando la carenza di prova nel quantum della domanda risarcitoria proposta da parte intimata.
Le tre censure – suscettibili di esame congiunto perché attinenti, a vario titolo, al percorso motivazionale seguito dal giudice di secondo grado nella sostanza criticato dai ricorrenti come apparente – sono inammissibili.
La Corte territoriale, dopo avere dato atto del contenuto della decisione del Tribunale ed avere dichiarato di condividerlo, ha affermato che dalla C.T.U. e dalla documentazione versata in atti del giudizio di merito emergeva la prova che, nel caso concreto, era stato realizzato dagli odierni ricorrenti un importante ampliamento del fabbricato preesistente, con innovazioni invasive e vietate perché incidenti su sagoma e volume del fabbricato, ritenute lesive anche del decoro architettonico (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata). La motivazione, dunque, non risulta né mancante, né incomprensibile, né affetta da intrinseca contraddizione o da apparenza, ma, al contrario,
perfettamente idonea ad integrare il c.d. minimo costituzionale e a dar atto dell’ iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass., Sez. Un., Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione degli artt. 1120 e 1102 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ricostruito i fatti di causa e le risultanze istruttorie, ritenendo che sagoma e volume del fabbricato fossero stati modificati dalla realizzazione del balcone per cui è causa, avvenuta nel 2010, mentre l’aggiunta di nuovi ambienti all’edificio risalirebbe ad un periodo compreso tra il 1965, data di edificazione dello stabile, ed il 1976.
La censura è inammissibile, perché essa attinge l’apprezzamento dei fatti e delle prove condotto dalla Corte di Appello. Ad avviso dei ricorrenti, in particolare, da un lato le opere realizzate non avrebbero carattere invasivo, e da altro profilo, non sarebbero idonee a pregiudicare l’estetica di un fabbricato già evidentemente compromesso per effetto di precedenti interventi. A tacer del fatto che la questione della precedente compromissione dell’estetica del cespite non risulta dalla sentenza impugnata, né i ricorrenti danno atto del momento del giudizio di merito e dello strumento processuale con cui essa sarebbe stata proposta, con conseguente deficit di specificità della doglianza; almeno sotto questo profilo, va osservato che quest’ultima propone, nel suo complesso, una lettura del fatto e del compendio istruttorio alternativa rispetto a quella prescelta dal giudice di secondo grado, senza tener conto che il motivo di ricorso non può mai risolversi in un’istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass., Sez.
Un., Sentenza n. 24148 del 25/10/2013). Né è possibile proporre un apprezzamento diverso ed alternativo delle prove, dovendosi ribadire il principio per cui ‘L’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata’ (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24/05/2006; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23/05/2014; Cass. Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13/06/2014).
Con il quinto motivo, infine, i ricorrenti si dolgono della violazione o falsa applicazione degli artt. 91, 92 c.p.c. e 13 del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1 della legge n. 228 del 2012, perché la Corte distrettuale li avrebbe erroneamente condannati a rifondere le spese non soltanto in favore degli appellati, odierni intimati, ma anche degli appellanti incidentali, odierni controricorrenti, nonostante avesse ritenuto infondato anche il gravame incidentale dai medesimi proposto. Ad avviso dei ricorrenti, dunque, il giudice di seconda istanza avrebbe dovuto, in ragione della reciproca soccombenza, compensare le spese tra appellanti principali ed incidentali.
La censura è infondata.
La Corte capitolina, nel confermare la decisione di prima istanza, ha regolato le spese in applicazione del criterio generale della soccombenza, limitatamente a quelle del secondo grado, condannando gli appellanti principali alla loro refusione in favore di tutte le altre parti. La statuizione non collide con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui ‘In tema di condanna alle spese processuali, il principio della soccombenza va inteso nel senso che soltanto la parte interamente vittoriosa non può essere condannata, nemmeno per una minima quota, al pagamento delle spese stesse. Con riferimento al regolamento delle spese, il sindacato della Corte di cassazione è pertanto limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte vittoriosa, con la conseguenza che esula da tale sindacato, e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, sia la valutazione dell’opportunità di compensare in tutto o in parte le spese di lite, tanto nell’ipotesi di soccombenza reciproca, quanto nell’ipotesi di concorso con altri giusti motivi, sia provvedere alla loro quantificazione, senza eccedere i limiti (minimi, ove previsti e) massimi fissati dalle tabelle vigenti’ (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 19613 del 04/08/2017; conf. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 406 del 11/01/2008).
Né è possibile sindacare in sede di legittimità la decisione del giudice di merito di compensare, o meno, in tutto o in parte le spese del doppio grado di giudizio, posto che ‘ La valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92, secondo comma, c.p.c., rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del
soccombente’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2149 del 31/01/2014; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 30592 del 20/12/2017; nonché Cass. Sez. 1, Sentenza n. 1703 del 24/01/2013 e Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 8421 del 31/03/2017).
In definitiva, il ricorso va rigettato.
Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380bis c.p.c., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380bis c.p.c.- il terzo e il quarto comma dell’art. 96 c.p.c., con conseguente condanna della parte ricorrente al pagamento di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento di una ulteriore somma -nei limiti di legge- in favore della cassa delle ammende.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore di quella controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 4.000,00 per compensi ed € 200,00 per esborsi, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15% e agli accessori di legge, inclusi iva e cassa avvocati.
Condanna altresì la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma
ulteriore pari ad € 4.000,00, nonché al pagamento della somma di € 2.500,00 in favore della cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda