Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 5525 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2   Num. 5525  Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 14163/2019 R.G. proposto da:
COGNOME NOME, COGNOME NOME E COGNOME NOME elettivamente domiciliati  in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME  che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato COGNOME
-ricorrenti- contro
RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, rappresentati e difesi dall’avvocato AVV_NOTAIO COGNOME
-controricorrenti-
nonché contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME
-intimati- avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO GENOVA n. 1932/2018 depositata il 20/12/2018.
Udita la relazione svolta nella camera  di  consiglio del  23/01/2025  dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Il  RAGIONE_SOCIALE  di  Toirano  nonché  i  condomini  NOME  COGNOME,  NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME impugnarono, avanti la Corte d’appello di Genova, la sentenza del Tribunale di Savona che aveva rigettato le loro  domande, volte ad ottenere la declaratoria di illegittimità  e  la  riduzione  in  pristino  in  relazione  ad  alcuni  interventi  edilizi compiuti dai condomini NOME COGNOME ed NOME COGNOME.
Con sentenza n. 1932, depositata il 20 dicembre 2018, il giudice di secondo grado  accolse  il  gravame  ed  in  riforma  della  sentenza  di  primo  grado, condannò la COGNOME alla rimessione in pristino della sua unità immobiliare ed al risarcimento dei danni e compensò le spese fra gli appellanti ed il COGNOME, riconosciuto privo di legittimazione passiva.
La Corte d’appello osservò che la CTU disposta in secondo grado era giunta a conclusioni omogenee rispetto a quelle del primo grado, sia con riguardo all’aumento volumetrico, sia con riguardo all’innalzamento di circa 30 cm. del solaio fra i piani terreno e primo, alla modifica della scala esterna ed alla violazione delle distanze: tali opere avrebbero comportato la creazione di una nuova costruzione, sottoposta come tale alla disciplina delle distanze. Inoltre, le predette opere avrebbero alterato il decoro architettonico dell’edificio , differenziandone l’andamento (curvo invece che retto) e l’altezza della scala di
accesso al primo piano rispetto a quelle delle contigue due unità immobiliari, alterazione ‘ tanto più evidente tenuto conto che si tratta di porzioni esterne di villette  a  schiera  affiancate  e  che  erano  sorte  con  identiche  caratteristiche  in tali accessori e nell’altezza del primo piano ‘ (pag. 9 sentenza impugnata).
NOME COGNOME e NOME COGNOME, quali eredi di NOME COGNOME (deceduta nelle more del giudizio di appello), nonché NOME COGNOME hanno proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di cinque motivi, contrastati con controricorso dal RAGIONE_SOCIALE  RAGIONE_SOCIALE  e  dal  condomino  NOME  COGNOME,  mentre  sono  rimasti intimati gli altri condomini originari attori.
In prossimità dell’adunanza camerale, i ricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con  la  prima  censura, i ricorrenti denunziano  la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c. per avere la Corte d’appello erroneamente respinto l’eccezione di inammissibilità dell’appello,  che  non  aveva  indicato  in  alcun  modo  le  parti  della  decisione appellata,  le  modifiche  richieste  alla  ricostruzione  dei  fatti  e  tanto  meno  le circostanze da cui sarebbero derivati i vizi della pronunzia di primo grado.
Il motivo è inammissibile per difetto di specificità.
Giova ricordare che il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito; ne consegue che, ove il ricorrente assuma la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte (Cass. ord. n. 20132/2020; Sez. L, n. 3612 del 4 febbraio 2022; Sez. 1, n. 29495 del 13 dicembre 2020).
Occorre  al  riguardo  rammentare  che,  come  costantemente  affermato  nella giurisprudenza  di  questa  Corte,  anche  in  ipotesi  di  denuncia  di  un error  in
procedendo , l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone, comunque, l’ammissibilità del motivo di censura, cosicché il ricorrente è tenuto – in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale – non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata (v Cass.. 20132/2020 cit.; Sez. 3, n. 21346 del 30 luglio 2024).
A  tanto  non  hanno  adempiuto  i  ricorrenti,  che  hanno  mancato  di  riportare  i pretesi motivi generici proposti nel gravame avversario.
In ogni caso -e il rilievo tronca ogni ulteriore discussione sull’argomento – la Corte d’appello ha individuato le censure, applicando correttamente il principio secondo cui l’art. 342 c.p.c. va interpretato nel senso che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Sez. U., n. 27199 del 16 novembre 2017).
Col secondo mezzo, le COGNOME ed il COGNOME denunziano , ai sensi dell’art. 360  n.  3  c.p.c.,  la  mancata  statuizione  della  sentenza  impugnata  in  ordine all’acquiescenza  parziale  degli  appellanti  circa  alcuni  capi  della  decisione  di primo grado, come la presunta lesione della statica condominiale o i profili di decoro estetico.
Il motivo è inammissibile.
L’acquiescenza tacita alla sentenza ex art. 329 c.p.c. può sussistere soltanto qualora l’interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, trattandosi di atti assolutamente incompatibili con la volontà di impugnare (Sez. 2, n. 3934 del 29 febbraio 2016).
Nella presente ipotesi va esclusa qualsivoglia acquiescenza, giacché la sentenza del primo giudice era stata gravata dagli originari attori nella sua totalità, ricomprendendosi dunque anche il profilo della violazione delle innovazioni ex art. 1120 cc che riguardano, appunto, anche il decoro architettonico (cfr. pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata ove è richiamato l’ atto di appello anche sul rigetto della domanda articolata ex art. 1120 cc e pag. 2 ove sono riportate le conclusioni degli appellanti con riferimento alle innovazioni vietate ex art. 1120 cc).
 Il  terzo  mezzo  di  ricorso  si  appunta  sulla  violazione  e  falsa  applicazione dell’art. 1102 c.c., in tema di distanze del condominio e  di  contemperamento degli interessi dei partecipanti alla comunione , ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.
I  giudici  di  secondo  grado -si  osserva  –  avrebbero  erroneamente  accordato agli appellanti la tutela in tema di distanze legali, senza verificarne l’esigibilità in  relazione  alla  concreta  situazione  dei  luoghi  ed  al  contemperamento  degli interessi di tutti i partecipanti alla comunione.
Attraverso la quarta lagnanza, i ricorrenti  denunziano la violazione e falsa applicazione,  ai  sensi  dell’art.  360  n.  3  c.p.c.,  degli  artt.  2  e  4  della  legge regionale Liguria n. 24/2001. Sostengono che la Corte d’appello non avrebbe tenuto  conto,  nonostante  un  espresso  richiamo  da  parte  del  CTU,  della normativa  regionale, la quale avrebbe  consentito la deroga  alle  norme urbanistiche.
I suddetti motivi, che possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili.
Come costantemente affermato da questa Corte, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e  autonome, singolarmente  idonee  a  sorreggerla  sul  piano  logico  e  giuridico,  la  ritenuta
infondatezza  delle  censure  mosse  ad  una  delle  rationes  decidendi  rende inammissibili,  per  sopravvenuto  difetto  di  interesse,  le  censure  relative  alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (cfr. tra le tante, Sez. 3 – , Ordinanza n. 5102  del  26/02/2024;  SSUU  n.  10012/2021  in  motivazione;  v.  anche  cass. 11493/2018).
Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha fondato l’ordine di riduzione in pristino sulla scorta di una pluralità di rationes decidendi , fra le quali l’ accertata alterazione del decoro architettonico (cfr. pag. 9 sentenza impugnata) e, come si è visto nell’esame del secondo motivo di ricorso, il decoro architettonico era stato stato comunque interessato dall’atto di appello . Pertanto, si rivelano inammissibili le censure sulle distanze, posto che la violazione del decoro architettonico accertata dalla Corte di merito non è stata fondatamente attinta dal ricorso.
Col quinto rilievo, si assume la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92  c.p.c..,  ex  art.  360  n.  3  c.p.c.,  giacché  la  sentenza  impugnata  avrebbe ingiustificatamente  compensato  le  spese  di  lite  rispetto  al  COGNOME, vittorioso in entrambi i gradi di giudizio, ma condannato alla restituzione delle spese di primo grado in virtù della compensazione.
Il motivo è infondato.
L’ individuazione  della  parte  soccombente,  ai  fini  della  condanna  alle spese, deve essere operata in considerazione dell’esito finale della controversia sulla base di una valutazione globale ed unitaria, senza che possa rilevare l’esito di una  particolare  fase  del  processo  (Sez.  6-3,  n.  13356  del  18  maggio  2021; Sez. 6-3, n. 6369 del 13 marzo 2021).
Nel caso in esame, la Corte di merito si è attenuta a tali principi, perché la COGNOME è stata condannata al pagamento delle spese in applicazione della regola della soccombenza (rapportata all’esito globale della lite), mentre la compensazione nei rapporti col COGNOME è stata giustificata da gravi ragioni espressamente
indicate (a pagg. 9 e 10 della sentenza) e quindi nel rispetto della previsione dell’art. 92 cpc .
Al  rigetto  del  ricorso  consegue  inevitabilmente  la  condanna  solidale  dei ricorrenti alla rifusione delle spese di lite, come liquidate in dispositivo.
Si  dà  atto  che  sussistono  le  condizioni  per  dichiarare  che  i  ricorrenti  sono tenuti  a  versare  un  ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo  unificato  pari  a quello  previsto  per  l’impugnazione,  ai  sensi  dell’art.  13,  comma  1-quater, D.P.R. 115/2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e  condanna in solido NOME COGNOME e NOME COGNOME  nonché  NOME  COGNOME  al  pagamento  delle  spese  processuali liquidate in € 200,00 per esborsi ed in € .  4.000 (quattromila) per compenso, oltre  ad  iva,  c.p.a.  e  rimborso  forfettario  delle  spese  generali  in  misura  del 15%.
Dà atto che sussistono le condizioni per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare  un  ulteriore  importo  a  titolo  di  contributo  unificato  pari  a  quello previsto  per  l’impugnazione,  ai  sensi  dell’art.  13,  comma  1-quater,  D.P.R. 115/2002, se dovuto.
Così deciso in Roma il 23 gennaio 2025.