Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21858 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21858 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 02/08/2024
ORDINANZA
Oggetto
OPPOSIZIONE ESECUZIONE
Clausola negoziale – Asserita violazione dell’art. 2965 c.c. Sindacato di legittimità Condizioni e limiti
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO
COGNOME.
Rep.
Ud. 27/03/2024
Adunanza camerale sul ricorso 30502-2022 proposto da:
COGNOME NOME, domiciliato presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore, rappresentato e difeso dall’ AVV_NOTAIO COGNOME;
– ricorrente –
contro
NOME, domiciliato presso l’indirizzo di posta elettronica del proprio difensore, rappresentato e difeso dall’ AVV_NOTAIO;
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 1129/2022 d ella Corte d’appello di Torino, depositata il 24/10/2022;
udita la relazione della causa svolta nell ‘adunanza camerale del 27/03/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME ricorre, sulla base di un unico motivo, per la cassazione della sentenza n. 1129/22, del 24 ottobre 2022, della Corte d’appello di Torino, che accogliendo il gravame esperito da NOME COGNOME, avverso la sentenza n. 4368/20, del 7 dicembre 2020, del Tribunale di Torino -ha accolto l’opposizione proposta dal predetto NOME COGNOME, avverso il precetto con cui il padre NOME gli aveva intimato il pagamento della somma di € 229.500,00, oltre interessi e spese.
Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver concluso con il figlio NOME, in virtù di rogito notarile del 1° agosto 2016, un contratto di cessione di azienda che prevedeva il pagamento di € 300.000,00, dei quali € 70.500,00 corrisposti in occasione della stipulazione, mentre i restanti € 229.500,00 da pagarsi entro un anno, e quindi non oltre il 1° agosto 2017.
Essendosi il cessionario reso inadempiente all’obbligazione di corrispondere il prezzo residuo, il cedente NOME -dopo aver tollerato il comportamento del figlio -con atto di precetto notificato l’11 dicembre 2018, intimava il pagamento della somma suddetta oltre accessori, sulla base del titolo esecutivo costituito dal predetto rogito notarile.
Proponeva opposizione l’intimato, tra l’altro deducendo per quanto qui ancora di interesse -a sostegno della stessa l’esistenza di una clausola negoziale, quella indicata sub 5) del contratto, intesa dall’opponente quale rinuncia , del cedente, alla ripetizione del prezzo residuo, qualora entro il 1° marzo 2018 non fosse stata intrapresa azione legale per il recupero delle somme non corrisposte.
Il giudice di prime cure, qualificata tale clausola -che l’opponente aveva ricondotto ad un ‘ pactum de non petendo ‘ –
come una decadenza convenzionalmente pattuita ex art. 2965 cod. civ., rigettava l’opposizione, sul rilievo che tale clausola fosse nulla, avendo reso eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del cedente. E ciò in considerazione dello stretto rapporto di parentela tra le parti, dell’entità del debito (pari, come detto, a € 229.500,00) e del termine di prescrizione ordinaria per il recupero del credito.
Esperito gravame dal già opponente, il giudice di appello lo accoglieva, esito al quale perveniva sul rilievo che -ferma la qualificazione della clausola suddetta, operata dal Tribunale, come decadenza convenzionale, non essendo ‘stata censurata da nessun a delle parti in appello’ il termine stabilito non potesse essere considerato eccessivamente breve. Lo stesso, infatti, andava ‘posto a confronto con quelli, ben più contenuti, previsti dalla legge per proporre opposizione a decreto ingiuntivo ovvero costituirsi in un ordinario giudizio di cognizione, in un procedimento di convalida di sfratto o in un procedimento sommario’.
Avverso la sentenza della Corte torinese ha proposto ricorso per cassazione NOME, sulla base -come detto -di un unico motivo.
3.1. Esso denuncia -ex art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. -violazione dell’art. 2965 cod. civ.
Evidenzia, in via preliminare, il ricorrente il contenuto della clausola, recante ‘Presunzione di avvenuto pagamento’ , a mente della quale ‘non occorrerà alcuna dichiarazione di quietanza finale, a saldo, decorso un periodo di sei mesi dall’ultima scadenza pattuita. A meno che in tale periodo non sia stata iniziata, per morosità azione esecutiva regolarmente notificata alla parte cessionaria. La parte cedente rilascia, ora per allora, a seguito
dell’esatto adempimento delle condizioni di cui sopra, quietanza di nulla più avere a pretendere per la causale del presente atto’.
Ciò premesso, assume il ricorrente che la decisione del giudice di appello di ritenere tale clausola pienamente valida sarebbe ‘errata sotto un duplice profilo’.
In primo luogo, perché ‘ha confrontato il termine di sei mesi con termini processuali posti dalla legge per difendersi in un giudizio già avviato da altri (ricorso per decreto ingiuntivo o altra azione), anziché confrontarlo con l’unico termine rilevante n ella specie, vale a dire il termine ordinario decennale per proporre l’azione’. Difatti, secondo l’insegnamento di questa Corte, sostiene il ricorrente, ‘l’eccessiva difficoltà per l’esercizio del diritto non può essere affermata dal giudice del merito in maniera assoluta ed aprioristica, bensì valutata e adeguata al particolare rapporto in contestazione e alle peculiari modalità di esecuzione’. Essa, per l’esattezza, deve apprezzarsi ‘in rapporto a colui il quale deve svolgere l’attività prevista per evitare la decadenza’, e, segnatamente, alle contingenti circostanze di fatto in cui egli si trova al tempo dell ‘esercizio del diritto’. Sotto questo profilo, pertanto, si sarebbe dovuto dare rilievo al fatto che, nei sei mesi successivi alla scadenza del termine per il pagamento del prezzo residuo, l’odierno ricorrente ‘stava cercando di salvare il proprio patrimonio immobiliare, facendo fronte ai numerosi debiti’, per giunta essendo afflitto -circostanza non contestata dalla controparte -da ‘gravi problemi di salute’.
In secondo luogo, si assume che la Corte piemontese avrebbe operato una ‘errata interpretazione della clausola decadenziale’, essendosi discostata ‘dalle risultanze istruttorie’. Difatti, secondo ‘quanto spiegato dal AVV_NOTAIO‘, che curò la redazione del rogito e che venne ascoltato come teste in primo grado, una clausola siffatta ‘normalmente è inserita per una eventuale successiva rivendita, o richiesta di mutuo in banca; vale per i terzi
per evitare un apposito atto di quietanza, per evitare un esborso all’acquirente attuale (al cessionario dell’atto) per circa € 1.200,00′. Di conseguenza, sarebbe ‘evidente l’erroneità dell’interpretazione data dalla Corte d’Appello’, giacché tale clausola , ‘inserita a vantaggio del signor NOME COGNOME, in modo da evitare i costi di un atto notarile di quietanza decorsi diciotto mesi dalla stipula della cessione d’azienda’, è stata , invece, intesa ‘come onere a carico del signor NOME COGNOME di proporre un’ azione giudiziale in un termine decadenziale di sei mesi anziché in quello ordinario decennale’.
Ha resistito all’avversaria impugnazione, con controricorso, NOME COGNOME, chiedendo che la stessa sia dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380bis .1 cod. proc. civ.
Entrambe le parti hanno presentato memoria
Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso è inammissibile, in entrambe le censure nelle quali si articola il suo unico motivo.
8.1. Inammissibile è la prima delle censure proposte dal ricorrente, ovvero quella attinente alla pretesa nullità, per l’eccessiva difficoltà dell’esercizio del diritto , della clausola n. 5), apposta al contratto di cessione d’azienda .
Sul punto, deve muoversi dalla constatazione che -secondo la giurisprudenza di questa Corte -‘la valutazione, a norma dell’art. 2965 cod. civ., circa la congruità del termine di decadenza previsto contrattualmente’, sebbene ‘di competenza del giudice di merito, deve avere riguardo alla brevità dello specifico termine e alla particolare situazione del soggetto obbligato a svolgere l’attività prevista per evitare la decadenza’ (così, da ultimo, Cass. Sez. Lav., sent. 20 maggio 2004, n. 9647, Rv. 572986-01).
La norma in esame, dunque -secondo un modello comune a tutte quelle che contemplano c.d. ‘clausole generali’ ( tale è la ‘eccessiva difficoltà’ dell’esercizio di un diritto spettante alla parte contrattuale) -si limita a fissare i parametri della valutazione demandata al giudice di merito, rimettendo, invece, ad esso la loro concreta applicazione.
Decisione, questa, che, proprio in quanto ‘di competenza del giudice di merito’, è suscettibile di censura in sede di legittimità, come meglio si dirà di seguito, soltanto attraverso la denuncia di errori di diritto, specialmente in un contesto ordinamentale nel quale si è ridotto al ‘minimo costituzionale’ il sindacato di questa Corte sulla motivazione della sentenza impugnata (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 62983001, nonché, ‘ ex multis ‘, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 238 28, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 1, ord. 30 giugno 2020, n. 13248, Rv. 658088-01).
In tale prospettiva, dunque, deve notarsi -proprio sulla scorta dell’arresto di questa Corte sopra citato -che il giudice d’appello, anche nel presente caso, non ha affatto ignorato la natura peculiare della relazione intercorrente tra cedente e cessionario, avendo, invece, soltanto negato ad essa rilievo. Su tali basi, pertanto, deve osservarsi che, pure in relazione alla presente fattispecie, l’impugnazione proposta , mira in definitiva, a
sollecitare ‘una valutazione differente rispetto a quella adottata dal giudice del merito’, senza che venga ‘esplicitato un principio di diritto eventualmente violato o indicato un diverso principio applicabile alla fattispecie e neppure evidenziato un qualsiasi errore argomentativo’, limitandosi il ricorrente ad enunciare ‘una diversa valutazione circa la congruità del termine di semestrale, cosi contrapponendosi a un giudizio di fatto altro giudizio di fatto di segno differente’ (così, in motivazione, Cas s. Sez. Lav., sent. n. 9647 del 2004, cit .).
D’altra parte, nella medesima prospettiva, non sembra irrilevante osservare che, essendo quella presente ne ll’art. 2965 cod. civ. una ‘clausola generale’, il sindacato di questa Corte in ordine alla sua corretta applicazione incontra limiti alquanto stringenti, spettando al giudice di merito concretizzare, di simili clausole, la portata ‘ tramite fattori esterni relativi alla coscienza generale e principi tacitamente richiamati dalla norma e, quindi, mediante specificazioni di natura giuridica ‘ , sicché è solo la loro ‘ disapplicazione ‘ ad essere ‘ deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l ‘ accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi integranti il parametro normativo costituisce un giudizio di fatto, demandato al giudice di merito ed incensurabile in cassazione se privo di errori logici o giuridici ‘ ( così, tra le pronunce più recenti in tema di sindacato sull’applicazione di clausole generali, Cass. Sez. Lav., ord. 9 marzo 2023, n. 7029, Rv. 667031-01).
8.2. Inammissibile è pure la seconda censura, prospettata nell’ultima parte dell’illustrazione dell’unico motivo di ricorso (ma, a rigore, persino di carattere pregiudiziale), ovvero quella con cui il ricorrente pretenderebbe di contestare l’interpretazione della clausola negoziale sub 5) del contratto di cessione d’azienda .
Tale esito, infatti, discende -in primo luogo -dalla constatazione che, come rilevato espressamente nella sentenza impugnata, l’interpretazione ‘quale decadenza convenzionale’ della clausola suddetta, operata dal primo giudice, ‘non è stata censurata da nessuna delle parti in appello’, sicché essa, come già in quella sede, ‘non può essere messa in discussione’ neppure nel presente giudizio di legittimità.
Il tutto, poi, senza tacere del fatto che la contestazione di tale interpretazione avrebbe richiesto la previa individuazione dei canoni di ermeneutica contrattuale che si assumono violati e del modo in cui il giudice di merito avrebbe perpetrato tale violazione (Cass. Sez. 3, ord. 21 luglio 2017, n. 15350, Rv. 644814-02; Cass. Sez. 3, sent. 28 novembre 2017, n. 28319, Rv. 64664901), non potendo una censura siffatta essere affidata unicamente alla denuncia di un discostamento ‘dalle risultanze istruttorie’ .
Le spese del presente giudizio di legittimità vanno interamente compensate tra le parti, costituendo giusto motivo di compensazione -ex art. 92, comma 2, cod. proc. civ. -l’alterno esito delle fasi di merito, oltre al loro carattere eminentemente fattuale che ha giustificato valutazioni diametralmente opposte da parte dei giudici di merito.
A carico del ricorrente, stante la declaratoria di inammissibilità del ricorso, sussiste l’obbligo di versare , al competente ufficio di merito, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo un accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 65719801), ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio dio legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale della