Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 12154 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 12154 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/05/2025
Oggetto: Addetto lavori idraulico forestale – reiterazione contratti a termine – risarcimento del danno
Dott.
NOME COGNOME
Presidente
–
Dott. NOME COGNOME
Consigliere –
Dott. NOME COGNOME
Consigliere rel. –
Dott. COGNOME
Consigliere –
Dott. NOME COGNOME
Consigliere –
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11529/2022 R.G. proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME ;
– ricorrente –
contro
ASSESSORATO DEL TERRITORIO E DELL’AMBIENTE DELLA REGIONE SICILIA E ASSESSORATO DELL’AGRICOLTURA, DELLO SVILUPPO RURALE E DELLA PESCA MEDITERRANEA DELLA REGIONE SICILIA;
– intimato – avverso la sentenza n. 94/2022 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 27/1/2022 R.G.N. 266/2020;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 06/02/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
la Corte d’ Appello di Catania, in riforma della sentenza del Tribunale di Ragusa, ha dichiarato inammissibile, per intervenuta decadenza ex art. 32 della legge n. 183/2010, la domanda proposta da NOME COGNOME – operaio assunt o a termine per lavori di sistemazione idraulico-forestale ai sensi della legge reg. Sicilia n. 16/1996 e dell’art. 43 legge reg. Sicilia n. 14/2006 con la quale era stata denunciata l’illegittima reiterazione nel tempo di contratti a termine tra le parti;
erano intercorsi, infatti, con gli Assessorati in epigrafe, dal 1987 al 2014, plurimi contratti a termine per un periodo complessivamente superiore ai 36 mesi e il lavoratore aveva ottenuto, in primo grado, la condanna delle amministrazioni al risarcimento del danno, pari a 10 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, per l’abusiva reiterazione del termine;
senonché, la Corte d’ Appello, andando di contrario avviso, aveva stabilito che i contratti a termine tra il 2001 e il 2010 avrebbero dovuto essere impugnati entro 60 gg. decorrenti dal 1° gennaio 2012, mentre i successivi «avrebbero dovuto essere impugnati entro 60 gg. o entro 120 gg., a seguito dell’entrata in vigore delle modifiche di cui alla legge n. 92/2012, secondo la normativa vigente ratione temporis » e tutto ciò anche se i contratti erano privi di forma scritta;
in definitiva, poiché nessuno dei contratti era stato impugnato nei termini di decadenza neanche l’ultimo che era cessato il 29.12.2014 – la domanda era inammissibile;
contro tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi, mentre gli Assessorati sono rimasti intimati;
CONSIDERATO CHE:
1. nel primo motivo di ricorso il lavoratore denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 32 della legge n. 183 del 2010 nonché
dell’articolo 116 cod. proc. civ. e dell’articolo 12 delle preleggi;
egli sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, la decadenza ex art. 32 legge n. 183 del 2010 non era applicabile alla fattispecie in esame, che non atteneva alla nullità del termine contrattuale ma, piuttosto, al superamento del limite di durata dei 36 mesi, sicché, in applicazione dell’articolo 5 comma 4bis d.lgs. n. 368/2001, l’impugnativa poteva essere proposta in tal caso entro il termine di prescrizione ordinario;
il ricorrente rileva, in particolare, che non v’è richiamo, da parte dell’art. 32, nel testo vigente ratione temporis al tempo dell’introduzione del giudizio di primo grado (cioè nel 2015), all’ipotesi prevista dall’art. 5, comma 4 bis del d.lgs. n. 368 del 2001, che è quella invocata nella specie;
assume che la previsione della decadenza ha carattere eccezionale, con la conseguenza che la disposizione prevista per l’impugnativa del contratto a termine non è applicabile analogicamente;
evidenzia che la Corte d’Appello di Catania avrebbe dovuto rilevare che nessun atto datoriale era stato impugnato (né con riferimento alla nullità del termine apposto al contratto né alla sua proroga) essendosi richiesto -ancorché in via subordinata -il riconoscimento dell’indennità risarcitoria ai sensi e per gli effetti dell’art. 32 legge n. 183/2010 per l’abuso contrattuale perpetrato in oltre vent’anni di rapporti reiterati, al momento del superamento dei limiti temporali, domanda di natura non impugnatoria di alcun
atto datoriale e che poteva essere proposta nel termine di prescrizione ordinario ;
1.1 il motivo è infondato;
con esso viene in sostanza contestato il passaggio argomentativo in cui la Corte d’ A ppello afferma che la decadenza dell’art. 32, comma 4, lett. a), della legge n. 180/2010 si riferisce non soltanto all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. 368 del 2001 ma anche all’ipotesi, diversa, prevista dall’art. 5 comma 4 -bis del d.lgs. n. 368 del 2001, in cui si fa valere l’abusiva reiterazione dei contratti a termine;
1.1.1 la censura deve essere disattesa, anche se la motivazione della pronuncia impugnata, conforme a diritto nel suo dispositivo, merita di essere rivista e integrata ex art. 384 comma 4 cod. proc. civ.;
il rilievo della Corte distrettuale secondo cui il termine di decadenza decorrerebbe dalla cessazione di ciascuno dei singoli contratti ricalca Cass. n. 8038/2022, precedente sottoposto a rimeditazione in pronunce successive, alle quali va data in questa sede continuità, essendosi ivi chiarito come, in caso di azione promossa dal lavoratore per l’accertamento dell’abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato, il termine di impugnazione, previsto a pena di decadenza dall’art. 32 comma 4 lett. a) della legge n. 183 del 2010, «deve essere osservato e decorre dall’ultimo ( ex latere actoris ) dei contratti intercorsi tra le parti, atteso che la sequenza contrattuale che precede l’ultimo contratto rileva come dato fattuale, che concorre ad integrare l’abusivo uso dei contratti a termine e assume evidenza proprio in ragione dell’impugnazione dell’ultimo contratto» (così Cass., Sez. L, n. 4960 del 16/2/2023; cui adde Cass., Sez. L, n. 34741 del 12/12/2023);
si è comunque precisato, in tutte le pronunce sopra richiamate, che la decadenza opera sul piano della certezza dei rapporti ed è
imprescindibile in ragione della “ratio” della disposizione di assicurare, per tutti i casi in cui si intenda contestare la legittima apposizione del termine, tempi certi di stabilizzazione di situazioni giuridiche incerte; si è anche aggiunto che il risarcimento del danno, a sua volta, sarà soggetto all’ulteriore termine decennale di prescrizione, egualmente decorrente dall’ultimo di tali contratti a termine, in considerazione della natura unitaria del predetto diritto, sicché il numero dei contratti in questione rileva solo ai fini della liquidazione del danno, potendo anche quelli stipulati oltre dieci anni prima della richiesta di risarcimento avere incidenza sulla quantificazione del pregiudizio patito dal dipendente (così Cass., n. 34741/2023 cit.);
1.1.2 né vale obiettare – per sostenere l’inapplicabilità all’ipotesi di superamento dei 36 mesi della decadenza ex art. 32, commi 3 e 4, della legge n. 183/2010, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 – che non è espressamente richiamato, da tale disposizione, l’art. 5, comma 4 bis, del d.lgs. n. 368/2001;
1.1.3 come recentemente precisato da questa Corte (Cass., Sez. L, n. 2876 del 5/2/2025), il suddetto art. 32, nel testo antecedente alla modifica operata dalla legge n. 92 del 28/6/2012, estende la decadenza prevista per l’impugnazione del licenziamento dall’art. 6 della legge n. 604/1966, «all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo», (comma 3 lett. d) e prevede l’applicazione della nuova normativa anche «ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine» nonché «ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di
legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge» (comma 4 lett. a e b);
la ratio della normativa, come detto, è quella di assicurare tempi certi di stabilizzazione di situazioni giuridiche incerte, ratio con la quale non sarebbe coerente un’interpretazione che, valorizzando il richiamo contenuto nella lettera d) del comma 3 e nella lettera a) del comma 4 ai soli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001, «escluda dall’ambito di applicazione della decadenza fattispecie che, al pari di quelle espressamente richiamate dalla norma, ancorino la legittimità o meno del termine apposto al contratto al rispetto di regole di dettaglio peraltro ulteriori rispetto a quelle generali cui la norma esplicitamente rinvia» (così Cass., Sez. L, n. 30975 del 20/10/2022 che ha affermato l’applicabilità dell’art. 32 della legge n. 183/2010 anche alle azioni di nullità del termine per omesso rispetto delle condizioni imposte dall’art. 3 del d.lgs. n. 368/2001); il rinvio fatto agli artt. 1, 2, e 4 del d.lgs. n. 368/2001, come reso evidente anche dall’apprezzamento congiunto, a fini interpretativi, dei commi 3 e 4 dell’art. 32, è finalizzato unicamente ad indicare l’oggetto dell’azione di nullità, che può riguardare sia il termine apposto al contratto (art. 1), anche se stipulato dalle aziende indicate nell’art. 2, sia la proroga dello stesso (art. 4);
il richiamo non è, invece, finalizzato ad operare una distinzione, quanto alla decadenza, fra le diverse violazioni dalle quali può derivare la nullità o l’illegittimità del termine medesimo o della sua proroga, violazioni che vanno fatte valere nel rispetto del termine decadenziale anche se la disciplina che si assume violata è dettata da norme non richiamate, ossia dagli artt. 3 e 5 del decreto;
conferma questa interpretazione la lettera b) del comma 4 dell’art. 32 legge cit. che, nell’estendere il nuovo regime anche ai contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della nuova
legge, non opera alcuna differenziazione fra le diverse tipologie di vizio, rendendo ulteriormente chiaro che il rinvio agli artt. 1, 2, 4 del d.lgs. n. 368/2001 si riferisce alla tipologia di atto oggetto di impugnazione e non al vizio denunciabile;
d’altro canto, come pure sopra ricordato, questa Corte non ha mai dubitato della applicabilità della decadenza anche all’azione con la quale si faccia valere in giudizio il superamento del limite massimo dei trentasei mesi e, proprio prendendo le mosse da detta applicabilità, ha affermato, e va qui ribadito, che, qualora il superamento derivi dalla stipulazione in successione di più contratti, è sufficiente che venga tempestivamente impugnato l’ultimo contratto «atteso che la sequenza contrattuale che precede l’ultimo contratto rileva come dato fattuale, che concorre ad integrare l’abusivo uso dei contratti a termine e assume evidenza proprio in ragione dell’impugnazione dell’ultimo contratto, concluso tra le parti, per far accertare l’abusiva reiterazione» (cfr. sempre Cass. n. 4960/2023 e Cass. n. 34741/2023 citate);
1.1.4 avvalora, peraltro, tale ricostruzione il testo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 368 del 2001, come riformulato dal d.l. 20/3/2014, n. 34, conv. in legge n. 78/2014, il quale stabilisce che è «consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato »;
se il contratto previsto ab origine , ovvero per effetto di eventuali proroghe, di durata superiore ai 36 mesi vede, infatti, proprio in virtù del richiamo a tale ipotesi dell’art. 32 comma 4 lett. a) della legge n. 183/2010, applicarsi de plano il termine di decadenza in parola, non v’è (evidentemente) alcuna ragione di operare un distinguo in relazione a fattispecie, sostanzialmente analoga, in cui
il termine complessivo di 36 mesi viene superato per effetto di più contratti a termine oggetto di rinnovo oppure stipulati con periodi di interruzione fra l’uno e l’altro;
1.1.5 in conclusione, deve ritenersi che il previsto termine di decadenza trovi applicazione anche in relazione all’azione per l’accertamento dell’abusiva reiterazione dei contratti a termine e si può osservare che la ratio di tale disciplina risponde, appunto, all’esigenza di favorire la certezza delle situazioni giuridiche (cfr. sul punto Corte cost., sentenza n. 155 del 2014);
1.1.6 nella specie, la corte di merito, se è vero che ha fatto erroneamente riferimento al termine di decadenza in relazione a ogni singolo contratto a tempo determinato, ha aggiunto tuttavia, con accertamento di fatto che ha valenza decisiva e che non è stato specificamente censurato in sede di legittimità, che anche in relazione all’ultimo contratto concluso inter partes il termine di decadenza ex art. 32 legge n. 183/2010, cit., non è stato affatto rispettato;
ne consegue che il dictum di inammissibilità della domanda reso dalla corte territoriale rimane esente da censure;
nel secondo motivo si denuncia violazione, ex art. 360 n. 5 cod. proc. civ., per avere la Corte d’Appello condannato la lavoratrice al pagamento delle spese processuali liquidate in €. 2.800,00 quanto al giudizio di primo grado e in €. 3.308,00 quanto al presente giudizio di appello, oltre spese generali;
si tratta di spese che si assume siano state liquidate in modo ‘eccessivo’ , senza considerare la difficoltà della materia del contendere, il contegno delle parti e le condizioni economiche della lavoratrice, nonché la natura dei crediti di lavoro oggetto di causa;
il motivo è inammissibile perché non deduce la violazione dei massimi tariffari e spettando alla discrezionalità del giudice del merito liquidare le spese di lite purché, a meno di motivare
espressamente, non al di sopra di tali massimi (Cass. 10 maggio 2019, n. 12537);
si è del resto anche spiegato che la parte, la quale intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi (o dei massimi) tariffari, ha pur sempre l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che deve ritenersi inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in difetto (o in eccesso) rispetto alla tariffa massima (Cass., Sez. 1 -, n. 18584 del 30/06/2021; cui adde Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 11657 del 30/4/2024: «In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si lamenti che il giudice abbia liquidato, in maniera onnicomprensiva, il compenso per onorari – ove, ratione temporis , non sia più in vigore la categoria dei diritti -, senza dolersi né della violazione della tariffa, nel massimo o nel minimo, spiegandone le ragioni, né della mancata distinzione fra compensi ed esborsi»);
nel caso di specie, il motivo è privo di argomentazioni specifiche rispetto ai valori tariffari e dunque non restano integrati neanche i presupposti richiesti dalla giurisprudenza appena citata;
conclusivamente il ricorso va rigettato;
tale esito esime, per il principio della durata ragionevole del giudizio, dal disporre la rinnovazione presso l’Avvocatura generale dello Stato (il cui patrocinio per l’Amministrazione regionale siciliana è previsto dall’art. 1 del d.lgs. 2 marzo 1948, n. 142), della notifica del ricorso alle Amministrazioni regionali intimate, che parte ricorrente ha erroneamente eseguito presso l’Avvocatura distrettuale (su tale principio v., ex aliis , Cass. n. 394/2021; Cass. n. 26997/2020; Cass. n. 6924/2020);
6. nulla va disposto in ordine alle spese non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione