Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 19256 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 19256 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/07/2025
Oggetto
R.G.N. 19497/2022
COGNOME
Rep.
Ud. 01/07/2025
CC
ORDINANZA
sul ricorso 19497-2022 proposto da:
NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
ASSESSORATO DEL TERRITORIO E DELL’AMBIENTE DELLA REGIONE SICILIANA, ASSESSORATO DELL’AGRICOLTURA, DELLO SVILUPPO RURALE E DELLA PESCA MEDITERRANEA DELLA REGIONE SICILIANA;
– intimati –
avverso la sentenza n. 95/2022 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 10/02/2022 R.G.N. 514/2020; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 01/07/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Catania, in riforma della sentenza del Tribunale di Ragusa – che aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dalla lavoratrice, dichiarando illegittimi i contratti stipulati dal 1986 al 2014 con le PP.AA. indicate in epigrafe in ragione dell’abusiva reiterazione degli stessi, altresì condannando le parti datoriali al risarcimento del danno (esclusa la conversione) – rigettava in toto la domanda proposta dall’attuale ricorrente.
Riteneva la Corte territoriale che i contratti stipulati tra il 2001 ed il 2010 avrebbero dovuto essere impugnati entro 60 giorni dal 1° gennaio 2012 giusta proroga di cui al d.l. n. 225/2010 conv. in l. n. 10/2011 e che i successivi contratti avrebbero dovuto essere impugnati entro 60 o 120 giorni, a seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 92/2012 ratione temporis applicabile anche alle ipotesi di abusiva reiterazione del contratto a termine.
Precisava che la decadenza qui all’attenzione (ex art. 32 l. n. 183 del 2010) si applica anche all’abusiva reiterazione dei contratti a termine per superamento dei trentasei mesi e che la parte appellata non aveva allegato, né documentato l’impugnativa in via stragiudiziale dei contratti a termine indicati nel ricorso introduttivo, sicché dovendosi ritenere equipollente all’impugnazione stragiudiziale il ricorso giudiziale , esso avrebbe dovuto essere notificato all ‘amministrazione datrice di lavoro entro i termini perentori previsti per l’impugnazione stragiudiziale (60 o 120 gg.), applicandosi le disposizioni di cui all’art. 1335 c.c.
Ebbene, tanto premesso, la Corte di appello osservava che neppure l’ultimo dei contratti a termine è tempestivamente impugnato.
Contro tale decisione il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi.
Gli Assessorati regionali sono rimasti intimati.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., la violazione dell’art. 32 della legge n. 183/2010, dell’art. 116 cod. proc. civ., dell’art. 12 disp. prel. cod. civ., per avere la Corte territoriale erroneamente dichiarato la decadenza dall’azione risarcitoria avente ad oggetto il pagamento dell’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità.
Sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d’appello, la decadenza ex art. 32 cit. non era applicabile alla fattispecie in esame, in quanto non è proposta azione volta all’accertamento della nullità del termine contrattuale apposto ai contratti, ma di verifica del superamento del limite di durata dei 36 mesi.
La parte ricorrente in cassazione argomenta, quindi, che in applicazione dell’art. 5, comma 4 -bis , del d.lgs. n. 368/2001, l’impugnativa poteva essere proposta in tal caso entro il termine di prescrizione ordinario. Rileva, in particolare, che non v’è richiamo, da parte dell’art. 32, nel testo vigente ratione temporis al tempo dell’introduzione del giudizio di primo grado (cioè nel 2015), all’ipotesi prevista dall’art. 5, comma 4 -bis , del d.lgs. n. 368 del 2001, che è quella invocata nella specie. Sostiene che la previsione della decadenza ha carattere eccezionale con la conseguenza che la disposizione prevista per l’impugnativa del contratto a termine non è applicabile analogicamente.
Evidenzia che la Corte d’appello di Catania avrebbe dovuto rilevare che nessun atto datoriale era stato impugnato (né con riferimento nullità del termine apposto al contratto né alla sua proroga) essendosi richiesto – ancorché in via subordinata – il ricon oscimento dell’indennità risarcitoria ai sensi e per gli effetti dell’art. 32 legge n. 183/2010 per l’abuso contrattuale perpetrato per oltre vent’anni di rapporti reiterati, con ampio superamento dei limiti temporali, domanda di natura non impugnatoria che, quindi, poteva essere proposta nel termine di prescrizione ordinario.
Nel secondo mezzo è denunziata, in relazione all’ art. 360 n. 5 cod. proc. civ., la pronunzia sulle spese legali.
E’ lamentata la condanna della lavoratrice al pagamento delle spese processuali liquidate in euro 2.800,00 quanto al giudizio di primo grado e in euro 3.308,00 quanto al giudizio di appello, oltre spese generali.
Sostiene il ricorrente che le spese sono state liquidate in modo ‘eccessivo’ senza considerare la difficoltà della materia del contendere, il contegno delle parti e le condizioni economiche della lavoratrice nonché la natura dei crediti di lavoro oggetto di causa.
In via preliminare, rileva il Collegio che le questioni oggetto del presente giudizio sono già state oggetto di valutazione e decisione da parte di questa Corte nelle pronunzie Cass. n. 12154/2025 e 10353/2025, ai cui percorsi motivazionali, integralmente condivisi, si fa rinvio anche ex art. 118 disp. att. c.p.c., non essendo emerse ragioni o questioni nuove per rimeditare quanto in esse affermato.
Tanto premesso, la prima censura -volta a contestare l’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui la decadenza dell’art. 32, comma 4, lett. a), della legge n.
180/2010 si riferisce non soltanto all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. 368 del 2001 ma anche all’ipotesi, diversa, prevista dall’art. 5, comma 4 -bis , del d.lgs. n. 368 del 2001, in cui si fa valere l’abusiva reiterazione dei contratti a termine -è infondata e va rigettata, sebbene la motivazione della pronuncia impugnata, conforme a diritto nel suo dispositivo, merita precisata ex art. 384 comma 4 cod. proc. civ. 5. Il rilievo della Corte distrettuale secondo cui il termine di decadenza decorrerebbe dalla cessazione di ciascuno dei singoli contratti ricalca Cass. n. 8038/2022, precedente sottoposto a rimeditazione in pronunce successive, cui va data in questa sede continuità e nelle quali si è chiarito come, in caso di azione promossa dal lavoratore per l’accertamento dell’abusiva reiterazione di contratti a tempo determinato, il termine di impugnazione, previsto a pena di decadenza dall’art. 32 comma 4 lett. a) della legge n. 183 del 2010, « deve essere osservato e decorre dall’ultimo (ex latere actoris) dei contratti intercorsi tra le parti, atteso che la sequenza contrattuale che precede l’ultimo contratto rileva come dato fattuale, che concorre ad integrare l’abusivo uso dei contratti a ter mine e assume evidenza proprio in ragione dell’impugnazione dell’ultimo contratto » (così Cass., cui adde Cass., Sez. L, n. 34741 del 12/12/2023). Si è comunque precisato, in tutte le pronunce sopra richiamate, che la decadenza opera sul piano della certezza dei rapporti ed è imprescindibile in ragione della ratio della disposizione di assicurare, per tutti i casi in cui si intenda contestare la legittima apposizione del termine, tempi certi di stabilizzazione di situazioni giuridiche incerte. Si è anche aggiunto che il risarcimento del danno, a sua volta, sarà sog getto all’ulteriore termine decennale di prescrizione, egualmente decorrente
dall’ultimo di tali contratti a termine, in considerazione della natura unitaria del predetto diritto, sicché il numero dei contratti in questione rileva solo ai fini della liquidazione del danno, potendo anche quelli stipulati oltre dieci anni prima della richiesta di risarcimento avere incidenza sulla quantificazione del pregiudizio patito dal dipendente (così Cass., n. 34741/2023 cit.).
Né vale obiettare per sostenere l’inapplicabilità all’ipotesi di superamento dei 36 mesi della decadenza ex art. 32, commi 3 e 4, della legge n. 183/2010, nel testo vigente prima delle modifiche apportate dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 – che non è espressamente richiamato, da tale disposizione, l’art. 5, comma 4-bis, del d.lgs. n. 368/2001.
Sul punto, infatti, questa Corte (cfr. Cass., Sez. L, n. 2876 del 5/2/2025) ha già precisato che l’ art. 32 cit., nel testo antecedente alla modifica operata dalla legge n. 92 del 28/6/2012, estende la decadenza prevista per l’impugnazione del licenziamento dall’art. 6 della legge n. 604/1966, « all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo », (comma 3 lett. d) e prevede l’applicazione della nuova normativa anche « ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della presente legge, con decorrenza dalla scadenza del termine » nonché « ai contratti di lavoro a termine, stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e già conclusi alla data di entrata in vigore della presente legge, con
decorrenza dalla medesima data di entrata in vigore della presente legge » (comma 4 lett. a e b).
La ratio della normativa, come detto, è quella di assicurare tempi certi di stabilizzazione di situazioni giuridiche incerte, ratio con la quale non sarebbe coerente un’interpretazione che, valorizzando il richiamo contenuto nella lettera d) del comma 3 e nella lettera a) del comma 4 ai soli artt. 1, 2 e 4 del d.lgs. n. 368/2001, « escluda dall’ambito di applicazione della decadenza fattispecie che, al pari di quelle espressamente richiamate dalla norma, ancorino la legittimità o meno del termine apposto al contratto al rispetto di regole di dettaglio peraltro ulteriori rispetto a quelle generali cui la norma esplicitamente rinvia » (così Cass., Sez. L, n. 30975 del 20/10/2022 che ha affermato l’applicabilità dell’art. 32 della legge n. 183/2010 anche alle azioni di nullità del termine per omesso rispetto delle condizioni imposte dall’art. 3 del d.lgs. n. 368/2001).
Il rinvio fatto agli artt. 1, 2, e 4 del d.lgs. n. 368/2001, come reso evidente anche dall’apprezzamento congiunto, a fini interpretativi, dei commi 3 e 4 dell’art. 32, è finalizzato unicamente ad indicare l’oggetto dell’azione di nullità, che può riguardare sia il termine apposto al contratto (art. 1), anche se stipulato dalle aziende indicate nell’art. 2, sia la proroga dello stesso (art. 4).
Il richiamo non è, invece, finalizzato ad operare una distinzione, quanto alla decadenza, fra le diverse violazioni dalle quali può derivare la nullità o l’illegittimità del termine medesimo o della sua proroga, violazioni che vanno fatte valere nel rispetto del termine decadenziale anche se la disciplina che si assume violata è dettata da norme non richiamate, ossia dagli artt. 3 e 5 del decreto.
Conferma questa interpretazione la lettera b) del comma 4 dell’art. 32 legge cit. che, nell’estendere il nuovo regime anche ai contratti a termine già conclusi alla data di entrata in vigore della nuova legge, non opera alcuna differenziazione fra le diverse tipologie di vizio, rendendo ulteriormente chiaro che il rinvio agli artt. 1, 2, 4 del d.lgs. n. 368/2001 si riferisce alla tipologia di atto oggetto di impugnazione e non al vizio denunciabile; d’altro canto, come pure sopr a ricordato, questa Corte non ha mai dubitato della applicabilità della decadenza anche all’azione con la quale si faccia valere in giudizio il superamento del limite massimo dei trentasei mesi e, proprio prendendo le mosse da detta applicabilità, ha affermato, e va qui ribadito, che, qualora il superamento derivi dalla stipulazione in successione di più contratti, è sufficiente che venga tempestivamente impugnato l’ultimo contratto « atteso che la sequenza contrattuale che precede l’ultimo contratto rileva come dato fattuale, che concorre ad integrare l’abusivo uso dei contratti a termine e assume evidenza proprio in ragione dell’impugnazione dell’ultimo contratto, concluso tra le part i, per far accertare l’abusiva reiterazione » (cfr. sempre Cass. n. 4960/2023 e Cass. n. 34741/2023 citate).
Avvalora, peraltro, tale ricostruzione il testo dell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 368 del 2001, come riformulato dal d.l. 20/3/2014, n. 34, conv. in legge n. 78/2014, il quale stabilisce che è « consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione, sia nella forma del contratto a tempo determinato, sia n ell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato ». Se il contratto previsto ab origine , ovvero per
effetto di eventuali proroghe, di durata superiore ai 36 mesi vede, infatti, proprio in virtù del richiamo a tale ipotesi dell’art. 32 comma 4 lett. a) della legge n. 183/2010, applicarsi de plano il termine di decadenza in parola, non v’è (evidentemente) alcuna ragione di operare un distinguo in relazione a fattispecie, sostanzialmente analoga, in cui il termine complessivo di 36 mesi viene superato per effetto di più contratti a termine oggetto di rinnovo oppure stipulati con periodi di interruzione fra l ‘uno e l’altro.
In conclusione, deve ritenersi che il previsto termine di decadenza trovi applicazione anche in relazione all’azione per l’accertamento dell’abusiva reiterazione dei contratti a termine e si può osservare che la ratio di tale disciplina risponde, appunto, all’esigenza di favorire la certezza delle situazioni giuridiche (cfr. sul punto Corte cost., sentenza n. 155 del 2014). Nella specie, la Corte di merito, se è vero che ha fatto erroneamente riferimento al termine di decadenza in relazione a ogni singolo contratto a tempo determinato, ha aggiunto tuttavia, con accertamento di fatto che ha valenza decisiva e che non è stato specificamente censurato in sede di legittimità, che anche in relazione all’ultimo contratto concluso inter partes , il termine di decadenza ex art. 32 legge n. 183/2010, cit., non è stato affatto rispettato ( cfr. sentenza impugnata pag. 4).
Ne consegue che il dictum di inammissibilità della domanda reso dalla Corte territoriale rimane esente da censure.
6. Il secondo motivo è inammissibile perché con esso non deduce la violazione dei minimi o dei massimi tariffari, spettando alla discrezionalità del giudice del merito liquidare le spese di lite, purché non al di sotto o al di sopra delle predette soglie.
Peraltro, la parte, che intenda impugnare per cassazione la liquidazione delle spese, dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, per pretesa violazione dei minimi (o dei massimi) tariffari, ha pur sempre l’onere di specificare analiticamente le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la conseguenza che è inammissibile il ricorso che contenga il semplice riferimento a prestazioni che sarebbero state liquidate in difetto o in eccesso rispetto alla tariffa massima (Cass., Sez. 1-, n. 18584 del 30/06/2021; cui adde Cass. Sez. 2 -, Sentenza n. 11657 del 30/4/2024: « In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si lamenti che il giudice abbia liquidato, in maniera onnicomprensiva, il compenso per onorari – ove, ratione temporis, non sia più in vigore la categoria dei diritti -, senza dolersi né della violazione della tariffa, nel massimo o nel minimo, spiegandone le ragioni, né della mancata distinzione fra compensi ed esborsi »).
Conclusivamente il ricorso va rigettato.
Tale esito esime, per il principio della durata ragionevole del giudizio, dal disporre la rinnovazione presso l’Avvocatura generale dello Stato (il cui patrocinio per l’Amministrazione regionale siciliana è previsto dall’art. 1 del d.lgs. 2 marzo 1948, n . 142), della notifica del ricorso all’Amministrazione regionale intimata, che parte ricorrente ha erroneamente eseguito presso l’Avvocatura distrettuale (su tale principio v., ex aliis , Cass. n. 394/2021; Cass. n. 26997/2020; Cass. n. 6924/2020).
Infine nulla va disposto in ordine alle spese non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.
Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., S.U., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni
processuali richieste dall’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115/2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di cassazione il 1.7.2025
La Presidente NOME COGNOME