Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 12943 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 12943 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6520/2021 R.G. proposto da :
NOMECOGNOME domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO
COGNOME presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
COMUNITA’ COGNOME, in persona del Presidente e legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di SALERNO n. 1573/2019 depositata il 18/11/2019;
udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/03/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
L’ingegnere NOME COGNOME conveniva in giudizio la Comunità Montana degli Alburni per sentirla condannare al pagamento di € 25.661,92 quale arricchimento senza causa, ex art. 2041 c.c., determinato dall’esecuzione di un’attività progettuale per conto dell’Ente, avente ad oggetto il completamento del tratto di strada Tempone di Persano -Ponte Fasanella. Costituitasi, l’Amministrazione eccepiva l’insussistenza della sussidiarietà per l’azione ex art. 2041 c.c., deducendo che l’opera progettata dal professionista non era mai stata realizzata, sicché nessuna utilità aveva tratto dall’attività del Principato.
Il Tribunale di Salerno, con la sentenza n. 874/2015, accoglieva la domanda del Principato e condannava la Comunità Montana degli Alburni al pagamento di € 25.661,92.
La Corte d’appello di Salerno, con la sentenza n. 1573/2019 pubblicata in data 18 novembre 2019, riformando la sentenza impugnata, accoglieva l’appello della Comunità Montana.
Il giudice dell’appello premetteva che l’incarico di cui alla delibera di C.G. n. 57 del 4.7.1994, annullata dal CORAGIONE_SOCIALE di Salerno, era stato conferito al Principato in assenza di un corretto impegno finanziario sul competente capitolo di bilancio e di una valida convenzione scritta e che le successive deliberazioni non comportavano un riconoscimento da parte dell’Ente e, pertanto, dichiarava inammissibile, per difetto del requisito della sussidiariet à , la domanda di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c., ponendo a carico dell’appellato la rifusione delle spese del doppio grado di giudizio.
Propone ricorso in cassazione NOME COGNOME sulla base di quattro motivi.
3.1. La Comunità Montana degli Alburni resiste con controricorso.
3.2. Tutte le parti hanno depositato memorie, anche all’esito della rifissazione dell’adunanza camerale, seguita alla conferma ad opera della Prima Presidente di questa Corte -dell’assegnazione dell’affare a questa Terza Sezione civile, posta in dubbio con ordinanza interlocutoria 07/11/2024, n. 28770.
Il Collegio si è riservato il deposito nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.1. Con il primo motivo, parte ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione (ratione temporis) dell’art. 11 delle preleggi e dell’art. 2041 e 2042 del c.c., in relazione all’art. 23 del D.L. n. 66 del 23 marzo 1989, convertito con modificazioni dalla legge n. 144/89, concernente la responsabilit à diretta del funzionario (o dell’amministratore) che abbia consentito la prestazione da parte del terzo in assenza di copertura contabile.
Il Principato sostiene l’irretroattività dell’art. 23 del decreto legge sopra indicato e, conseguentemente, l’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all’entrata in vigore della normativa. In particolare, non difetterebbe il requisito della sussidiarietà per il fatto che il privato possa agire direttamente contro chi – amministratore o funzionario – abbia invalidamente commissionato le opere o i servizi, atteso che la responsabilità diretta dei funzionari e dipendenti pubblici sarebbe posta dall’articolo 28 Cost su di un piano alternativo e paritetico. Infatti, andava considerato anche che la prestazione era stata svolta con la consegna del primo progetto fatto, proprio dall’ente con la delibera di giugno del 17 agosto 1988, n. 477 e che, così, il diritto a ristoro economico a fronte dell’arricchimento della Comunità montana spettava al Principato nei confronti anche direttamente dell’ente.
4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’inapplicabilità dell’art. 23 del D.L n. 66/1989 -nell’ipotesi di insussistenza della forma scritta ad substantiam .
Denuncia che la normativa richiamata non si attaglierebbe al caso di specie, ove, da un lato, si assume la mancanza del contratto scritto e, dall’altra, non si prende in considerazione l’intervenuto integrale finanziamento dell’opera, con recepimento da parte dell’ente delle risorse finanziarie dedicate ivi compresi gli oneri di progettazione dell’opera.
4.3. Con il terzo motivo, parte ricorrente censura la sentenza ancora sotto il profilo della violazione dell’art. 23 del D.L. 66/89, deducendo che la norma ripresa nel suo dettato dall’art. 191, c. 4, e 194 del D.l.gs. 267/00 – non possa operare al cospetto del sostanziale riconoscimento del debito da parte dell’Ente, che sarebbe avvenuto con la delibera di Consiglio Generale n. 76/94, di approvazione del progetto e con la successiva n. 14/95, con la quale l’Organo consiliare, oltre a confermare l’incarico di progettazione, deliberava di assumere, con la Cassa Depositi e Prestiti, un mutuo di lire 793.000.000 a copertura dell’intera opera, comprese le spese dei tecnici progettisti.
4.4. Con il quarto motivo, infine, il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2033, 2041, 1325 c.c., nonché la violazione di legge art. 4, n. 3, TUE e art. 19 TUE.
Il ricorrente si duole che la norma di cui all’art. 23 D.L. 66/1989 e successive modificazioni andrebbe, nel caso di specie, interpretata in conformità alla normativa eurounitaria nel senso di ricomprendere la possibilità di sanatoria in caso di contratto nullo per mancanza di forma scritta laddove la p.a. ha effettivamente usufruito dell’opera e questa è stata finanziata, nonché riconosciuta dall’organo competente (nel caso il Consiglio Generale della Comunità Montana); ovvero disapplicata ai sensi dell’art. 19 TUE, perché comporterebbe la paradossale conseguenza di una
diminuita tutela del privato cittadino a fronte di acquisizione gratuita da parte dell’ente sia del bene progetto, sia dell’opera realizzata, essendo entrambi i beni totalmente finanziati, e la scelta resterebbe affidata alla sola amministrazione senza possibilità di interloquire da parte del privato.
In disparte seri dubbi di ammissibilità per carenza di indicazione, in ricorso, dei tempi e delle modalità di sottoposizione della specifica questione di cui al primo motivo anche ai giudici del merito, i motivi, congiuntamente esaminati, in quanto strettamente connessi, sono tutti infondati.
In tema di assunzione d’impegni ed effettuazione di spese da parte degli enti locali, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che, a norma del D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (convertito in L. n. 144 del 1989, riprodotto senza sostanziali modifiche dal D.Lgs. n. 77 del 1995, art. 35, ed ora rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191), qualora la richiesta di prestazioni e servizi proveniente da un amministratore o un funzionario dell’ente locale non rientri nello schema procedimentale di spesa tipizzato dal terzo comma di tale disposizione, non sorgono obbligazioni a carico dell’ente, bensì dell’amministratore o del funzionario, i quali ne rispondono con il proprio patrimonio, con la conseguente esclusione della proponibilità dell’azione di indebito arricchimento nei confronti dell’ente (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. 1, 30 ottobre 2013, n. 24478; 26 maggio 2010, n. 12880; 22 maggio 2007, n. 11854).
È stato, peraltro, precisato che, ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, comma 1, lett. e), il predetto principio non esclude la facoltà dell’ente di riconoscere a posteriori il debito fuori bilancio, con apposita deliberazione consiliare, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza, fermo restando che, in caso di mancato riconoscimento, il rapporto contrattuale intercorre unicamente tra il terzo contraente e il
funzionario o l’amministratore che ha autorizzato la prestazione, i quali restano comunque soggetti all’azione diretta e rispondono delle obbligazioni irregolarmente assunte nei limiti della parte non riconosciuta mediante la procedura relativa alla contabilizzazione dei debiti fuori bilancio (cfr. Cass., Sez. 3, 18 aprile 2006, n. 8950; 31 maggio 2005, n. 11597).
Circa la possibilità che il riconoscimento del debito possa essere anche desunto dalla condotta tenuta dall’Amministrazione, si segnala un primo orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il riconoscimento dell’utilità della prestazione non richiede necessariamente un’espressa deliberazione dell’organo competente a formare la volontà dell’ente, ma può essere desunto anche per implicito da fatti concludenti, e segnatamente dalla consapevole utilizzazione della prestazione, purché la stessa risulti ascrivibile agli organi rappresentativi dell’ente, e quindi tale da rivelare un positivo apprezzamento in ordine alla rispondenza dell’opera all’interesse pubblico, nella cui valutazione, avente carattere discrezionale, il giudice non può sostituirsi alla Pubblica Amministrazione (cfr. ex plurimis , Cass., Sez. 1, 7 marzo 2014, n. 5397; 18 aprile 2013, n. 9486; Cass., Sez. 3, 6 settembre 2012, n. 14939).
Un più recente orientamento di questa Corte (Cass. civ. Sez. I, 09/12/2015, n. 24860) ha disatteso tale conclusione, affermando che, in tema di assunzione di obbligazioni da parte degli enti locali, agli effetti di quanto disposto dall’art. 23, comma 4, del d.l. n. 66 del 1989 (convertito, con modificazioni nella l. n. 144 del 1989), qualora le obbligazioni contratte non rientrino nello schema procedimentale di spesa, insorge un rapporto obbligatorio direttamente con l’amministratore o il funzionario che abbia consentito la prestazione, per difetto del requisito della sussidiarietà, sicché resta esclusa l’azione di indebito arricchimento nei confronti dell’ente, il quale può, comunque, riconoscere “a
posteriori” il debito fuori bilancio, ai sensi dell’art. 194 del d.lgs. n. 267 del 2000, nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso. Peraltro, tale riconoscimento può avvenire solo espressamente, con apposita deliberazione dell’organo competente, e non può essere desunto anche dal mero comportamento tenuto dagli organi rappresentativi, insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gli indirizzi di fondo della gestione economicofinanziaria dell’ente e con le scelte amministrative compiute.
Secondo tale pronuncia, il riconoscimento del debito fuori bilancio richiede, ai sensi dell’art. 194, D.Lgs. n. 267 del 2000 ‘un’apposita deliberazione dell’organo competente a formare la volontà dell’ente, da allegarsi al bilancio di esercizio, con cui quest’ultimo non deve limitarsi a dare atto del vantaggio arrecato dalla prestazione, in relazione all’espletamento di funzioni e servizi di competenza dell’ente, ma deve procedere alla verifica dell’incidenza del corrispettivo sugli equilibri generali di bilancio, e adottare, in caso di alterazione degli stessi, le misure necessarie a ripristinare il pareggio ed a ripianare il debito, in tal modo compiendo una valutazione globale che investe la compatibilità della prestazione ricevuta con la situazione economicofinanziaria dell’ente e con gli impegni già assunti sulla base delle risorse disponibili, nonché la reperibilità dei fondi necessari per far fronte ad ulteriori obblighi. A differenza di quella riguardante l’utilità della prestazione, che può emergere anche dall’appropriazione del relativo risultato da parte dell’Amministrazione, tale valutazione non può evidentemente essere desunta dal mero comportamento degli organi rappresentativi, che, in quanto riferibile al singolo rapporto, risulta di per sé insufficiente ad esprimere un apprezzamento di carattere generale in ordine alla conciliabilità dei relativi oneri con gl’indirizzi
di fondo della gestione economicofinanziaria dell’ente e con le scelte amministrative già compiute’.
Pertanto, questa Corte ha affermato che la mancanza di una formale deliberazione, adottata nelle forme prescritte del cit. D.Lgs. n. 267, art. 193, comma 2 e art. 191, comma 4, esclude ‘la stessa imputabilità dell’obbligazione all’Amministrazione, prevedendo che il rapporto s’instauri direttamente tra il privato fornitore e l’amministratore, il funzionario o il dipendente che hanno consentito la fornitura, i quali rispondono con il loro patrimonio, con la conseguente esclusione dell’esperibilità dell’azione d’ingiustificato arricchimento, per difetto del requisito della sussidiarietà prescritto dall’art. 2042 c.c., il quale presuppone che nessun’altra azione sia proponibile non solo nei confronti dell’arricchito, ma anche nei confronti di terzi (cfr. Cass., Sez. 1, 30 ottobre 2013, n. 24478; Cass. 14 ottobre 2010, Cass. n. 21242; 22 maggio 2007, n. 11854)’.
Secondo quest’ultimo orientamento, cui si intende dare seguito per la sua maggiore coerenza con l’evoluzione interpretativa nomofilattica dello stesso istituto dell’arricchimento senza causa nei confronti di una P.A. (che ha finito con l’escludere la stessa necessità di un riconoscimento, escludendo i soli arricchimenti cosiddetti imposti), quindi, ‘la questione riguardante l’accertamento dell’utilità della prestazione è destinata a porsi soltanto nel caso in cui l’Amministrazione abbia espressamente provveduto al riconoscimento del debito fuori bilancio, assumendo a suo carico l’obbligazione nei limiti consentiti dalle preminenti esigenze di salvaguardia degli equilibri di bilancio, ovvero nel caso in cui il funzionario, l’amministratore o il dipendente, responsabili nei confronti dell’autore della prestazione, propongano a loro volta l’azione di cui all’art. 2041 c.c., nei confronti dell’Amministrazione (cfr. Cass., Sez. 6, 23 gennaio 2014, n. 1391)’.
In quest’ottica, non assume rilievo la pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 10798 del 26 maggio 2015, nella quale si osserva, in via generale, che il riconoscimento dell’utilità della prestazione da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di cui all’art. 2041, e si afferma pertanto che l’esercizio di tale azione nei confronti di un ente pubblico pone a carico dell’attore l’onere di provare soltanto il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che il convenuto possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso. In tale occasione, infatti, le Sezioni Unite hanno precisato che nel caso sottoposto al loro esame non era in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell’azione, non essendo applicabile ratione temporis la disciplina dettata dal D.L. n. 66 del 1989, art. 23, che, in quanto non avente efficacia retroattiva, non è riferibile a prestazioni e servizi resi in epoca anteriore alla sua entrata in vigore.
Nel caso di specie, è invece pacifico che l’incarico professionale posto a fondamento della domanda è assoggettabile alla disciplina dettata dagli artt. 191 e segg. del D.Lgs. n. 267 del 2000, che, riproducendo quella introdotta dal D.L. n. 66 del 1989, impone di accertare, ancor prima del vantaggio arrecato dalla prestazione al Comune, l’eventuale adozione di una delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio da parte del Consiglio comunale (Cass. n. 12608/2017; Cass. 17940/2018).
Al riguardo, non sono adeguatamente somministrati a questa Corte, nel solo rilevante contesto del ricorso (neppure essendo ammessa, per giurisprudenza consolidata, alcuna sua integrazione con atti successivi), gli elementi indispensabili per vagliare la non novità della questione dell’inapplicabilità della normativa speciale in relazione al tempo di espletamento della prestazione: o, in altre parole, per verificare che, in tali esatti termini, una tale questione sia stata ritualmente sottoposta ai giudici del merito e, in ogni caso, alla Corte territoriale.
Pertanto, la sentenza della Corte di appello di Salerno, che ha escluso l’esperibilità dell’azione d’ingiustificato arricchimento nei confronti dell’ente, in considerazione della mancanza di un previo impegno di spesa e non rilevando neppure il riconoscimento al debito della qualità di debito fuori bilancio, è scevra da qualsiasi vizio logico giuridico e si sottrae alle critiche ad essa mosse col ricorso: il quale va, pertanto, rigettato.
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 1.600 oltre 200 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento al competente ufficio di merito, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis del citato art. 13. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza