Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 21572 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 21572 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 27/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6137/2023 R.G. proposto da :
COGNOME rappresentata e difesa da ll’avvocato NOME (CODICE_FISCALE, domiciliazione telematica legale
-ricorrente-
contro
COGNOME COGNOME rappresentati e difesi da ll’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, domiciliazione telematica legale
-controricorrenti-
Avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di BARI n. 1843/2022 depositata il 21/12/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio in data 8/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che
NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME convenivano in giudizio NOME COGNOME al fine di ottenerne la condanna di quest’ultima al risarcimento dei danni non patrimoniali causati dalla condotta ascritta alla medesima in sede penale;
gli attori deducevano di aver subito, a causa della condotta calunniosa posta in essere dalla convenuta, una duplice tipologia di danno all’immagine, l’una inerente ai rapporti con il proprio ufficio, ovvero la Sezione di polizia giudiziaria della Polizia di Stato presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Bari, a séguito della false accuse che li avevano messi in cattiva luce nei confronti dei colleghi e magistrati con i quali lavoravano quotidianamente; l’altra inerente all’opinione pubblica, in quanto la vicenda della piccola bimba scomparsa, e poi rivenuta morta, aveva avuto una significativa risonanza mediatica;
esponevano, in particolare, che il Tribunale penale di Bari aveva dichiarato la penale responsabilità di COGNOME per il reato di cui agli artt. 110 e 368, cod. pen., perché, in concorso con NOME COGNOME rendendo dichiarazioni disgiunte ma concordate a personale della Sezione di polizia giudiziaria presso la Procura della Repubblica, aveva accusato, sapendoli innocenti, l’agente COGNOME e gli ispettori COGNOME COGNOME e COGNOME, dei delitti di cui agli artt. 326 e 319, cod. pen., ossia rilevazione dei segreti investigativi e corruzione per compiere atti contrari ai loro uffici di ufficiali ed agenti di PG;
COGNOME era stata, quindi, condannata alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione oltre al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili costituite, demandando la quantificazione degli stessi alla cognizione del giudice civile;
la Corte di Appello di Bari, sezione penale, aveva dichiarato estinto per intervenuta prescrizione il reato di calunnia e, al contempo, aveva confermato le statuizioni civili, rimettendo al giudice civile la liquidazione dei danni;
questa Corte, a sua volta, aveva dichiarato inammissibile il ricorso promosso dalla COGNOME, sicché COGNOME, COGNOME, COGNOME e COGNOME avevano agito in sede civile;
il Tribunale accoglieva per quanto di ragione la domanda con pronuncia parzialmente riformata, dimidiando il quantum liquidato, dalla Corte di appello secondo cui, in particolare:
-con riferimento al danno all’immagine inerente ai rapporti degli attori con il proprio ufficio, la decisione impugnata, valutando il pregiudizio risentito dagli attori, aveva mostrato di «avere preso in considerazione la posizione personale e professionale dei soggetti lesi, in riferimento sia al profilo oggettivo della gravità dell’accusa loro rivolta (di aver commesso atti contrari ai doveri d’ufficio, rivelazione di segreti investigativi e corruzione nell’ambito di un’indagine penale di rilevante gravità ed allarme sociale, quale quella relativa ad una bimba di etnia Rom , di soli sette anni, scomparsa e poi ritrovata morta), sia a quello soggettivo, relativo alla qualità professionale dei soggetti lesi (rispettivamente agente la COGNOME ed ispettori di polizia giudiziaria, gli altri) ed all’incidenza che la condotta illecita posta in essere dalla COGNOME (la quale ultima, nella qualità di agente di P.S. presso la procura di Bologna incaricata, insieme all’interprete di lingua rumena NOME NOME dell’ascolto e trascrizione delle conversazioni intercettate, attribuiva ai colleghi la commissione di gravi reati, dei quali non veniva trovata traccia da parte del perito poi nominato dal GIP) aveva presumibilmente avuto in riferimento al contesto
professionale cui si riferiva, ‘per definizione votato al rispetto della legalità’»;
-si era trattato, quindi, di un giudizio in cui si era «indubbiamente tenuto conto delle circostanze allegate per valutare il danno all’immagine derivato dall’illecito…con ragionamento inevitabilmente presuntivo, data la impalpabilità del danno reputazionale»;
-diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure, non potevano invece valutarsi risarcibili «la perdita di serenità e lo stress dell’intero giudizio penale, invero neanche allegati dagli attori, pregiudizi di cui non tenersi alcun conto ai fini della liquidazione del cd. danno conseguenza»;
-né risultava «rinvenibile alcuna traccia delle accuse calunniose mosse dalla COGNOME nei confronti degli attori, negli articoli di stampa prodotti», sicché doveva escludersi la risarcibilità del danno all’immagine quanto all’opinione pubblica;
avverso questa decisione ricorre per cassazione NOME COGNOME articolando due motivi;
resistono con controricorso NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno altresì depositato breve nota di richiami difensivi.
Rilevato che
con il primo motivo si prospetta la violazione degli artt. 2043, 2059, 2056, 1223, 1226, 2697, 2727, 2729, cod. civ., 115, 278, cod. civ., poiché la Corte di appello avrebbe errato mancando di spiegare quali allegazioni e prove fossero state effettuate ed offerte in ordine al danno conseguenza riconosciuto, specie con riguardo all’incidenza negativa delle condotte imputate sui rapporti con i colleghi e con l’ufficio giudiziario nel suo complesso, in termini relazionali o di ricadute professionali, mentre, per converso, erano
risultati mancanti procedimenti disciplinari ed erano risultate permanenze nell’ufficio, anzi essendo emersi anche avanzamenti in carriera di COGNOME non potendosi utilizzare l’equità giudiziale per liquidare pregiudizi non allegati né concretamente dimostrati;
con il secondo motivo si prospetta la violazione dell’art. 132, n. 4, cod. proc. civ., poiché la Corte di appello avrebbe motivato in modo solo apparente in ordine alla operata quantificazione del danno non patrimoniale, non spiegando quale fosse la base di calcolo del pretium doloris , da rapportare poi alla specificità del caso concreto.
Considerato che
i motivi, da esaminare congiuntamente per connessione, sono in parte inammissibili, in parte infondati;
questa Corte ha chiarito che, ferma la distinzione tra evento di danno e pregiudizio risarcibile, entrambi da allegare e dimostrare ai fini del risarcimento richiesto a titolo di responsabilità civile, dovendosi escludere fattispecie di danno in re ipsa , il giudice, alla luce della complessiva e non formalistica interpretazione dei profili assertivi della parte istante in lite, il giudice può far ricorso non solo a presunzioni ma, altresì, a massime di esperienza per evincere la sussistenza del pregiudizio quanto meno entro una soglia minima e, dunque, salve ulteriori specificità che risultino nel corso del processo;
in questo senso si è osservato che si può far capo al criterio di normalità che generalmente presiede, salvo casi specifici, ad alcune fattispecie di danno conseguenza (Cass., Sez. U., 15/11/2022, n. 33645, pag. 26, ma v. da pag. 24 a pag. 27), tanto più quando, ad esempio, vi sia una dimensione eminentemente soggettiva ovvero interiore del pregiudizio che si tratta di risarcire, all’esistenza del quale non corrisponde sempre una fenomenologia suscettibile di percezione immediata (Cass., Sez. U., 6/03/2025, n. 5992, pag. 33);
nella fattispecie, una parte del danno conseguenza avrebbe potuto avere profili di percettibilità esterna, quali quelli, in ipotesi, di palesate condotte avversative ovvero di manifestata disistima in ufficio nei riguardi dei danneggiati, ma, parimenti, la Corte distrettuale ha fatto richiamo alla ‘impalpabilità del danno reputazionale’, con ciò implicitamente quanto univocamente volendo intendere che:
l’allegazione in quei termini di quel danno doveva ritenersi effettuata per necessaria implicazione rispetto ai fatti narrati;
la consistenza minima dello stesso, da inferirsi secondo un canone di normalità fattuale, non poteva dirsi esclusa dalla mancanza di manifestazioni esteriori suscettibili di specificazione e prova;
quest’ultima non poteva che risarcirsi equitativamente apprezzando il caso concreto;
le ragioni sub a) e b) sono da ritenere corrette alla luce di quanto sopra osservato, tenuto conto del richiamato ‘canone di normalità’, relazionabile evidentemente a massime di esperienza;
la massima di esperienza, difatti, non opera sul terreno dell’accadimento storico, ma su quello della valutazione dei fatti, essendo regola di giudizio basata su leggi naturali, statistiche, di complessiva scienza o anche di diffusa e recepita esperienza, quale minimo comun denominatore di ciò che è accettato come vero in un determinato momento e contesto ambientale, la cui utilizzazione nel ragionamento probatorio, e la cui conseguente applicazione, risultano doverose per il giudice, ravvisandosi, in difetto, un’illogicità della motivazione, sicché la stessa può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante (cfr. Cass., Sez. U., n. 5992 del 2025, cit., pagg. 33-34, in cui si richiama alla motivazione di Cass. 10/11/2020, n. 25164);
la liquidazione equitativa di cui al punto c), pertanto, non soccorre, nel caso, a carenze assertive o probatorie, ma costituisce la traduzione ultima del suddetto principio, senza che possano imporsi, sempre e comunque, basi di computo tabellari cui debba fare riferimento l’equità giudiziale, non necessariamente schermata da riferimenti o metodi di tipo regolamentare che restano convenzionali e anch’essi frutto di decisione prima che di attuazione applicativa, in particolare in fattispecie strettamente casistiche come quella del danno reputazionale in questo giudizio venuto in questione (cfr., utilmente, Cass., 29/04/2022, n. 13515); né, alla luce di quanto sopra evidenziato, la sentenza impugnata risulta, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente, solo apparentemente motivata in relazione alla operata liquidazione del danno;
spese secondo soccombenza, senza liquidazioni per la memoria della difesa resistente del 28 aprile 2025, in quanto priva di ulteriori illustrazioni e limitata al mero richiamo di quanto già dedotto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese dei controricorrenti, in solidarietà attiva, liquidate in 2.800,00, oltre a 200,00 per esborsi, 15% di spese forfettarie e accessori legali.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, al competente ufficio di merito, da parte ricorrente, se dovuto e nella misura dovuta, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, in data 8/05/2025.