Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 13865 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 13865 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 25/05/2025
ORDINANZA
COGNOME elettivamente domiciliato presso l’avvocato LO PEC EMAIL che lo rappresenta sul ricorso iscritto al n. 7940/2024 R.G. proposto da : COGNOME NOME COGNOMEindirizzo e difende,
-ricorrente-
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA
-intimato- avverso DECRETO di CORTE D’APPELLO CATANIA n. 351/2023 depositata il 07/10/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22/01/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME aveva richiesto sia il riconoscimento di indennizzo per equa riparazione per l’irragionevole durata del processo penale che lo aveva visto prima indagato e poi imputato, svoltosi avanti al Tribunale di Siracusa e durato undici anni, sia il risarcimento del danno patrimoniale pure affermato subito.
Il Giudice delegato aveva accolto il ricorso limitatamente al danno non patrimoniale, attribuendo a titolo di indennizzo per l’irragionevole durata del processo l’importo di € 6.300,00 (nove anni di ritardo per i quali è stato riconosciuto un indennizzo di € 700,00 all’anno), senza riconoscere il danno patrimoniale per ritenuta carenza di prova.
NOME COGNOME aveva proposto opposizione solo in relazione al mancato riconoscimento del danno patrimoniale e, all’esito, la Corte d’Appello di Catania aveva integralmente confermato il decreto opposto.
La Corte d’Appello di Catania aveva ritenuto che ‘l’art.2 bis della L.89/2001 prevede un indennizzo che è onnicomprensivo di tutti i danni subiti dal ricorrente, nonché un limite minimo e massimo che, con i correttivi previsti dal suddetto articolo, è inderogabile. Ne consegue che la somma riconosciuta all’avv. NOME COGNOME è stata correttamente valutata, tenuto conto che il procedimento de quo è relativo al riconoscimento di un’equa riparazione e non ad un giudizio risarcitorio’.
Avverso il decreto della Corte d’Appello di Catania propone ricorso per cassazione NOME COGNOME affidandolo ad un unico motivo articolato in più punti.
Il Ministero non ha depositato controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Non è più questione sull’esistenza del diritto di NOME COGNOME all’equa riparazione per il danno non patrimoniale subito per l’irragionevole durata del procedimento penale al quale è stato
sottoposto -protrattosi per ben nove anni oltre il termine che sarebbe stato congruoe sull’entità dell’indennizzo riconosciuto.
5. Il ricorrente si duole solo del mancato riconoscimento del risarcimento dei danni patrimoniali affermati subiti, pure richiesto inutilmente alla Corte d’Appello di Catania, attraverso la formulazione di un unico articolato motivo rubricato come ‘ -Violazione ed errata applicazione dell’art.2697 c.c. -Violazione dell’art.2 bis l. n.89/2001 -Erronea determinazione dei criteri di valutazione e di liquidazione del danno -Mancato riconoscimento dell’indennizzo -Erronea ed omessa valutazione degli elementi allegati al ricorso -Travisamento delle prove -Illogicità della motivazione’.
Nella sostanza, il ricorrente ritiene che gli debba essere riconosciuto il danno patrimoniale in concreto subito a causa dell’eccessiva durata del processo, che egli prospetta come un danno reale in tesi dimostrato con l’allegazione di ventidue documenti, affermati come per la maggior parte attinenti alla situazione reddituale precedente alla sua ingiusta sottoposizione al procedimento penale oggetto del ricorso riparatorio. La pronuncia impugnata sarebbe da considerare, secondo NOME COGNOME affetta da illogicità intrinseca e da travisamento della prova, oltre che violativa del disposto dell’art.2697 c.c., perché non terrebbe conto della specificità della situazione e delle prove offerte a sostegno dell’esistenza ed entità del danno. I danni in concreto subiti sarebbero, sempre nella prospettazione dei fatti esposta in ricorso, da lucro cessante perché l’avv. COGNOME avrebbe dovuto rinunciare alla ‘brillante carriera’ che avrebbe intrapreso sia come libero professionista che in ambito accademico e ai riconoscimenti sociali che ne sarebbero seguiti e che avrebbero, a suo dire, continuato a incrementarsi se non fosse stato prima indagato e poi imputato, subendo conseguenze negative sia per lo stigma sociale, sia economiche, correlate queste anche alla necessità propria e
della propria famiglia di origine di esitare il patrimonio immobiliare per sostenere le spese legali e di sostentamento e per far fronte ai debiti di natura tributaria conseguenti alla sopravvenuta difficoltà professionale.
5.1. Il motivo disattende costanti indirizzi di questa Corte suprema e incorre in altrettante plurime ragioni d’inammissibilità.
5.2. La proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata comporta l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possano rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366, primo comma, n. 4, del codice di procedura civile (v. Cass. n. 3612/04). In altri termini, il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (v. Cass. n. 17125/07), essendo, per contro, inammissibile il motivo che non si confronti con la ratio decidendi (cfr. n. 5001/18).
In tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, c.p.c., non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di legge e dell’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, in quanto una tale formulazione mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito
di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 3397/24).
L’asserita violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (cfr., per tutte e da ultimo, Cass. n. 26739/24), e non, invece, laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 n. 5 c.p.c. (cfr. ex multis Cass. n. 13395/18).
Limiti che le S.U. di questa Corte (e la granitica giurisprudenza che ne è, poi, seguita) hanno ormai da tempo indicato in ciò, che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al ‘minimo costituzionale’ del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’, nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione (così, S.U. n. 8053/14).
Ne deriva che mentre il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento
impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (v. fra le tanti, Cass. n. 24155/17).
Di conseguenza: a) il vizio di violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., giusta il disposto dell’art. 366, comma 1, n. 4), c.p.c., dev’essere dedotto, a pena d’inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme che si assumono violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si assumono in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione. (Cass. n. 20870/24); pertanto, b) deve ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un’alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme (v. Cass. n. 10927/24).
Nel caso di specie, l’allegata violazione dell’art. 2697 c.c., (i) non si riferisce al decisum (che, in realtà, è basato solo sull’affermata irrisarcibilità del danno patrimoniale, e non già sulla regola di giudizio, insita nella disposizione anzidetta, in base alla quale la mancata prova dei fatti costitutivi del diritto azionato conduce al rigetto della domanda); (ii) scherma, invano, la richiesta d’un
rinnovato apprezzamento delle risultanze istruttorie (come evidenzia la reiterata doglianza di erronea e omessa valutazione degli elementi allegati al ricorso e di travisamento delle prove), incompatibile con la funzione ordinamentale svolta da questa Corte suprema; (iii) suppone implicitamente un controllo di sufficienza motivazionale non più esercitabile, lì dove qualifica come illogica una motivazione di per sé chiara nel presupposto da cui procede; e, infine, (iv) è dedotta senza separare in maniera intelligibile gli aspetti giuridici (gli unici a poter essere astrattamente valutabili in sede di legittimità) da quelli di puro merito (insindacabili in questo ambito), nella fallace supposizione che la violazione di legge possa dipendere dall’erroneo apprezzamento dei fatti, mentre essa si invera unicamente nel ragionamento giuridico espresso nel provvedimento impugnato.
L’inammissibilità dell’unico motivo così come dedotto e la conseguente impossibilità di porvi rimedio, non potendo questa Corte assolvere oneri che gravano sulla parte -osta a qualsivoglia ulteriore considerazione inerente al nesso tra la decisione impugnata e il ricorso.
Del quale ultimo, pertanto, s’impone analoga declaratoria, anche in riferimento all’art. 360 -bis, n. 1 c.p.c., come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17.
Nulla sulle spese, essendo rimasto il Ministero intimato.
PQM
La Corte di cassazione, Sezione Seconda Civile, dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, nell’adunanza in camera di consiglio del