Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 18505 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 18505 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 17723/2020 R.G. proposto da:
NOMECOGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, con domiciliazione digitale ex lege
-ricorrente-
contro
CACCETTA NOME
-intimato- avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di CATANIA n. 582/2020 depositata il 7/03/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio in data 8/05/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
Fatti di causa
1.- NOME COGNOME è stato presidente di sezione elettorale durante le elezioni regionali siciliane del 2008.
In quella occasione dovette sostituire due scrutatori che erano venuti meno, l’uno perché non si era presentato e l’altro perché aveva optato per un seggio diverso. Anziché assegnare uno dei due posti vacanti a NOME COGNOME ha destinato a quel posto un altro aspirante.
Per tale scelta è stato accusato dalla COGNOME di abuso d’ufficio in quanto il posto a lei sottratto era più remunerativo di quello a cui è stata poi effettivamente destinata.
Ne è derivato un procedimento penale nel quale, in primo grado davanti al Tribunale di Ragusa, il COGNOME è stato condannato per abuso d’ufficio. Questa decisione è stata riformata dalla Corte di appello di Catania, la quale ha ritenuto insufficienti le prove di una condotta abusiva ed in particolare dell’intenzione dell’imputato di favorire un proprio conoscente ai danni della Modica.
Questa decisione è stata a sua volta annullata dalla Corte di Cassazione ai soli effetti civili.
La causa è stata dunque riassunta davanti alla Corte di appello di Catania che, preso atto dell’abuso d’ufficio commesso ai danni della ricorrente, ha condannato il COGNOME ad un risarcimento pari a 1.100 €, rispetto ai 20.000 domandati dalla danneggiata.
2.- Quest’ultima ricorre qui con due motivi di censura, illustrati anche da memoria, avverso quella decisione della Corte di appello. L’intimato non si è costituito.
Ragioni della decisione
1.La decisione impugnata, pur prendendo atto dell’illecito commesso dal convenuto, consistito nel fatto di aver favorito un suo amico per il seggio più remunerativo, ai danni dell’attuale ricorrente, ha limitato il danno subito da quest’ultima alla perdita patrimoniale conseguente, ossia al guadagno che costei avrebbe lucrato ove fosse
stata destinata al seggio più remunerativo, dal quale invece la condotta illecita del presidente l’ha esclusa.
Per contro, la decisione impugnata ha escluso che vi fosse la prova di un danno morale, ossia di una sofferenza d’animo conseguente alla ingiustizia subita, ed ha pertanto rigettato il relativo risarcimento.
2.- Il primo motivo di ricorso, che prospetta violazione degli articoli 2043, 2059, 2056, 2727, 2729 del codice civile, nonché 115 116 del codice di procedura civile e 185 del codice penale, mira a contestare questa ratio decidendi , ossia a contestare la tesi della mancata prova del danno non patrimoniale.
L’argomento è il seguente.
Sostiene la ricorrente che il danno non patrimoniale può essere provato anche per presunzioni e ritiene che esse erano state offerte alla Corte di merito, che avrebbe dovuto farne tesoro e che invece le ha trascurate.
Gli elementi presuntivi che indicavano la sofferenza d’animo, secondo la ricorrente, erano costituiti dalla diffusione che la notizia aveva avuto nella stampa e nei media locali, attraverso i quali peraltro erano stati diffusi commenti a volte sgradevoli a volte offensivi sulla persona stessa della ricorrente.
Il contenuto, dunque, di quei commenti era indicativo della sofferenza d’animo patita dalla ricorrente, che ne era fatta bersaglio.
Oltre a ciò, si osserva che il danno ben avrebbe potuto essere liquidato sulla base della gravità del reato.
Il motivo è inammissibile e comunque infondato.
E’ inammissibile in quanto, sotto l’apparente censura di violazione del procedimento presuntivo, in realtà mira a contestare un giudizio di fatto, qual è quello circa la sufficiente prova di un danno, e mira dunque a proporre un diverso apprezzamento degli elementi indiziari, diverso da quello effettuato dalla Corte di merito.
Ma, a parte ciò, la ricorrente pretende che la prova della sua sofferenza morale venga ricavata dal fatto che la notizia ebbe risalto mediatico e che in tanti furono a commentarla, a volte anche con osservazioni lesive della sua reputazione.
A voler dunque considerare la diffusione di stampa ed i relativi commenti come indizi, essi, a ben vedere, lo sono non di una condotta lesiva del convenuto, ma di terzi.
Ed infatti, si tratta di elementi che indicano non già una responsabilità del danneggiante, a cui quei commenti non sono riferibili, bensì una responsabilità di terzi, che quei commenti hanno fatto o divulgato.
La stessa ricorrente riconosce questo argomento, salvo ad attribuire efficacia causale comunque alla condotta della controparte, dicendo che tale condotta avrebbe dato occasione alla pubblicazione della notizia e dai relativi commenti. Come dire: se il presidente di seggio elettorale non avesse commesso l’abuso, nessuno ne avrebbe parlato e nessuno avrebbe fatto apprezzamenti negativi sulla vittima di tale abuso.
Viene qui però usata una nozione di antecedente causale del tutto priva di rilievo euristico, in quanto si assume che la mera occasione, ossia il fatto di aver creato le condizioni per la condotta illecita altrui, ha efficacia causale al pari di un antecedente vero e proprio.
Il che evidentemente non è poiché la condotta illecita del convenuto non è a sua volta neanche in correlazione causale con la condotta illecita altrui, ossia con i contenuti degli articoli di giornale ed i relativi commenti. Questi ultimi, infatti, non dipendono necessariamente dal fatto commentato: aver commesso l’illecito non ha dato causa ai commenti negativi, che non erano obbligati da quel fatto, non erano determinati dalla pubblicità da dare a quel fatto, la quale ben poteva essere data senza bisogno di commenti negativi. Con la conseguenza che la scelta del commento negativo non è causalmente collegata al fatto commentato.
Inoltre, è di tutta evidenza che, ammesso che in casi simili il risarcimento possa essere commisurato alla gravità del reato, il che postula a dire il vero un danno punitivo, ciò presuppone pur sempre che il danno venga provato.
2.- Con il secondo motivo si prospetta violazione degli articoli 91 e seguenti del codice di procedura civile.
La Corte di Appello ha ritenuto di dover compensare le spese del procedimento per tre quarti del loro ammontare ‘alla luce dell’esito complessivo della vicenda penale e della parziale soccombenza reciproca sulle questioni civili, mentre il restante quarto segue la soccombenza prevalente e deve essere posto a carico di NOME COGNOME .
La ricorrente ritiene che questa compensazione sia illegittima ed assunta in violazione delle regole che presiedono alla liquidazione delle spese di lite, le quali prevedono che la parte che risulta vittoriosa in alcun modo può essere condannata come se fosse soccombente, neanche a pagare una piccola parte delle spese di lite. Inoltre, la compensazione delle spese, sia pure parziale, non è giustificata quando non si dia reciproca soccombenza, e ciò anche a voler ritenere il procedimento iniziato sotto il vigore della vecchia disciplina, che consentiva di compensare le spese ove ricorressero ragioni ‘gravi ed eccezionali’.
Inoltre, il motivo censura la decisione impugnata anche quanto alla mancata applicazione dei criteri tabellari, avendo il giudice di merito liquidato gli onorari sotto al minimo tabellare ( e dunque in violazione del DM 55 del 2014) ma soprattutto in spregio al decoro professionale, e dunque in violazione dell’art. 2233 , comma 2, c.c. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Non coglie la ratio decidendi la quale non ha posto una parte delle spese a carico della parte vincitrice, ossia della ricorrente, ma le ha compensate in parte.
Ed è evidente che la compensazione delle spese non significa che la parte risultata vittoriosa ne subisce in parte la condanna: la compensazione non è condanna.
Né può censurarsi la compensazione (che, tra l’altro può trovare fondamento nell’accoglimento solo parziale , quanto all’ ammontare della domanda), per errata motivazione, in quanto è principio di diritto che ‘ Nel giudizio di legittimità il sindacato sulle pronunzie dei giudici del merito riguardo alle spese di lite è diretto solamente ad evitare che possa risultare violato il principio secondo cui esse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, restando del tutto discrezionale – e insindacabile – la valutazione di totale o parziale compensazione per giusti motivi, la cui insussistenza il giudice del merito non è tenuto a motivare .’ (Cass. 26912/ 2020).
Peraltro, la stessa parte ricorrente, a p. 29 del ricorso, rettamente precisa che, quanto alla data di inizio del procedimento, occorre far riferimento al procedimento penale il quale, in base a quanto riportato proprio a p. 2 del ricorso, è iniziato nel 2008, come si evince dal RGNR del procedimento penale ivi indicato n. 5000723/08. Ne consegue che per la compensazione delle spese occorre far riferimento, per i procedimenti iniziati tra il 1° marzo 2006 ed il 4.7.2009, al testo dell’art. 92 c.p.c. ratione temporis applicabile, che richiedeva, per l’esercizio del potere del giudice di compensare le spese, la sussistenza della soccombenza reciproca o la concorrenza di altri giusti motivi, esplicitamente indicati in motivazione (v. Cass. n. 11284 del 29/05/2015 e Cass. n. 13460 del 27/07/2012). E nella specie tali giusti motivi sono indicati, precisandosi che, a differenza di quanto indicato dalla parte ricorrente (v. p. 31 e sgg. del ricorso), la ‘non particolar e complessità delle questioni trattate’ e ‘l’esiguo ammontare della somma oggetto del capo di condanna’ non sono stati indicati dalla Corte di merito come giusti motivi per la compensazione delle spese ma come elementi considerati per
determinare gli importi delle stesse, come liquidati per la restante parte (1/4) non compensata.
Ne consegue che il motivo in scrutinio a tale ultimo riguardo è infondato.
Quanto alla ulteriore censura, di cui si è detto prima, relativa alla liquidazione in misura inferiore ai minimi tabellari, essa è inammissibile . E’ infatti principio di diritto che <> (Cass. 18584/ 2021).
Invece, il ricorrente si limita ad una generica doglianza del mancato rispetto dei minimi tabellari, da cui non è neanche dato evincere in che misura i giudici di merito si siano discostati, e rispetto a quali voci.
Il ricorso va pertanto rigettato. Non si dà luogo a pronuncia sulle spese attesa la mancata costituzione dell’intimato.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, se dovuto, al competente ufficio di merito, de ll’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, in data 8/05/2025.