Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 26339 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 26339 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 09/10/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26698/2022 R.G. proposto da: COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE) che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, COGNOME, domiciliato ex lege in ROMA, INDIRIZZO presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrenti-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO CALTANISSETTA n. 161/2022 depositata il 20/05/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 01/07/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Fatti di causa
1.- NOME COGNOME, quale redattrice del quotidiano il Tempo, ha pubblicato un articolo riguardante i lavori di ricostruzione post terremoto a L’Aquila, e, nell’ambito di tale articolo, ha dato conto della revoca del subappalto concesso alla impresa RAGIONE_SOCIALE, poi denominata RAGIONE_SOCIALE, riferendo che la revoca era dovuta ai sospetti di infiltrazione mafiosa nella società, presumibili tra l’altro dai precedenti di polizia di NOME COGNOME, NOME COGNOME e NOME COGNOME, il primo dei tre amministratore della società e gli altri aventi un ruolo nella sua gestione.
Inoltre, nell’articolo, sia adombrava la tesi che la società avesse assunto alle proprie dipendenze alcuni personaggi anch’essi oggetto di indagini di polizia per vicende mafiose.
1.2.La società RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante NOME COGNOME, ed in proprio, nonché NOME COGNOME e NOME COGNOME, hanno agito davanti al tribunale di Gela sostenendo di essere stati diffamati da tale articolo, ed hanno citato in giudizio, oltre che la giornalista NOME COGNOME, altresì la società RAGIONE_SOCIALE e NOME COGNOME, direttore del quotidiano.
1.3.Il tribunale di Gela ha condannato i tre convenuti al risarcimento del danno non patrimoniale subìto dagli attori, sulla base del fatto che la notizia che essi avevano diffuso, vale a dire la revoca del subappalto, era falsa, nel senso che il provvedimento non era stato adottato in ragione di sospetti di infiltrazione mafiosa, quanto piuttosto per la mancata comunicazione del contratto ai fini dell’autorizzazione amministrativa; così come falsa era la notizia dei trascorsi di mafia dei gestori della società e dei suoi dipendenti.
1.4.- Questa decisione è stata integralmente confermata dalla corte di appello di Caltanissetta.
1.5.- Ricorre per Cassazione NOME COGNOME con tre motivi illustrati da memoria.
Si è costituita la RAGIONE_SOCIALE ed ha chiesto il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
2.- Con il primo motivo si prospetta motivazione apparente nonché omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
La questione attiene alla verità del fatto attribuito.
Come si è detto, entrambi i giudici di merito hanno ritenuto che la giornalista ha dato notizia della revoca del subappalto lasciando intendere che essa era stata originata dalle infiltrazioni mafiose nella società. Invece, secondo i giudici di merito, era emerso che la ragione della revoca era tutt’altra, ed era dovuta alla irregolarità amministrativa della mancata comunicazione del subappalto.
Secondo la ricorrente questo accertamento è frutto di un omesso esame degli atti di causa, ed in particolare è frutto di un’incompleta valutazione della deposizione fatta dal colonnello della DIA, escusso in primo grado, e senza, tra l’altro, tenere conto, delle informative della stessa DIA, da cui emergevano segnalazioni di continuità mafiosa tra i gestori della società ed una cosca locale.
La ricorrente censura, dunque, un’incompleta valutazione degli atti di causa ed una motivazione fatta per relazione in modo insufficiente rispetto alla decisione di primo grado.
2.1.- Con il secondo motivo si prospetta un difetto assoluto di motivazione e omesso esame di un fatto decisivo.
Si contesta al giudice di merito di non aver assunto alcuna decisione rispetto alla richiesta dell’ordine di esibizione della predetta informativa della DIA, da cui si potevano trarre elementi a sostegno della veridicità della notizia pubblicata dalla ricorrente.
Osserva la ricorrente che i giudici di appello hanno dato atto di tale richiesta di acquisizione del documento ma l’hanno ignorata completamente senza decidere in merito.
I due motivi presentano connessione logica e possono valutarsi insieme.
Essi sono inammissibili.
Questione centrale di entrambe le censure è il rilievo che avrebbe dovuto darsi alla informativa della DIA, che, secondo la ricorrente, è stata in un primo momento segretata, e dunque il suo contenuto era rimasto ignoto, e che solo in un secondo momento è stata resa disponibile: precisa la ricorrente di aver fatto istanza per averla, che però le è stata rigettata.
Tuttavia, dalla circostanza che quella informativa non era agli atti, come ammesso dalla ricorrente, circostanza di cui la stessa ricorrente si duole con il secondo motivo, significa che non si può trattare di un fatto nella cui omessa valutazione è incorsa la corte di appello.
A ben vedere, la ricorrente si duole dell’omesso esame di atti che però non erano acquisiti al processo, di cui la stessa ricorrente aveva, sì, chiesto l’acquisizione, che tuttavia non era stata disposta.
Né può ritenersi fondata la doglianza espressa al secondo motivo quanto alla mancata acquisizione del documento ritenuto più
importante, poiché non è dimostrato che era stata fatta richiesta in primo grado, né è dimostrato in che termini tale richiesta sia stata reiterata in appello. Né è dimostrato che il documento era coperto da segreto quando ne è stata chiesta copia: tutte questioni poste, dunque, qui per la prima volta.
Infine, la censura relativa all’omesso esame della deposizione del colonnello si traduce a ben vedere in una censura di erronea valutazione di quelle deposizioni e come tale è inammissibile, poiché mira a contestare un apprezzamento rimesso al giudice di merito ed incensurabile in Cassazione purché adeguatamente motivato.
In altri termini, i due motivi censurano l’accertamento del fatto da parte del giudice di merito, prospettandone uno diverso, e lo fanno assumendo la rilevanza di atti non risultanti dal processo (come la informativa DIA), dunque in maniera inammissibile.
Ciò senza tacere del fatto che la rilevanza di quella informativa è data dal suo contenuto (vi sarebbero indicazioni circa le infiltrazioni mafiose), contenuto di cui nulla si sa: per poter dire che si trattava di un documento (e dunque di un fatto) rilevante, occorre conoscerne il contenuto, che a tutt’oggi è processualmente ignoto: la ricorrente non lo riporta né dimostra quale esso fosse.
2.3.- Il terzo motivo prospetta violazione dell’articolo 2059 del codice civile e 185 del codice penale.
La corte di merito ha liquidato un risarcimento per la lesione della reputazione subita a causa della diffusione della notizia falsa, stimandone l’ammontare in via equitativa.
La ricorrente eccepisce che il danno è stato liquidato senza che fosse stata offerta alcuna prova da parte degli attori di averlo effettivamente subito, e dunque è stato liquidato un danno in re ipsa.
Il motivo è fondato.
Va ricordato che il danno non patrimoniale, anche quando derivi dalla lesione di un bene come l’onore e la reputazione, non coincide con la lesione medesima, dunque non coincide con la lesione del bene protetto, ma consiste nelle conseguenze pregiudizievoli che da tale lesione derivino, con la conseguenza che la prova del danno consiste nella prova non già del fatto che è stata lesa la reputazione, bensì nella dimostrazione che da tale lesione sono derivate conseguenze pregiudizievoli: la prova di tali conseguenze pregiudizievoli può anche essere fornita per presunzioni, ma deve tuttavia essere offerta (Cass. 8861/ 2021; Cass. 19551/ 2023).
Che il danno consista non nella lesione dell’interesse protetto, bensì nelle conseguenze di tale lesione, dipende dal fatto che la lesione dell’interesse, reputazione compresa, non necessariamente ha conseguenze negative, e solo se le ha è risarcibile.
Risulta chiaramente dalla motivazione impugnata che i giudici di merito fanno coincidere il danno con la lesione dell’interesse leso: a
pagina 12 della sentenza premettono che il danno, non potendo essere provato, deve essere liquidato in via equitativa.
È altresì regola che il giudice può provvedere alla liquidazione equitativa solo qualora la prova del danno sia difficile o impossibile. Nella fattispecie, i giudici di merito non dicono alcunché sulla oggettiva prova del pregiudizio subito dagli attori a causa dell’articolo diffamatorio, e provvedono alla liquidazione equitativa pur senza porsi la questione dell’assolvimento dell’onere della prova da parte dei danneggiati.
In conclusione, era onere dei danneggiati dimostrare che dalla notizia diffamatoria, e dunque dalla lesione della loro reputazione, era comunque derivato un pregiudizio risarcibile ed in cosa tale pregiudizio consisteva.
Solo in caso di oggettiva difficoltà di tale prova, che, si ripete, può essere data anche per presunzioni, il giudice avrebbe potuto procedere ad una stima equitativa: con la precisazione che i criteri utilizzati per la stima, e tra questi l’importanza del quotidiano e la diffusione della notizia, altro non sono che criteri per l’appunto di quantificazione di un danno, che però deve essere innanzitutto provato nella sua esistenza prima ancora che nel suo ammontare.
Il ricorso va pertanto accolto in questi termini è la decisione cassata con rinvio, con la precisazione che la dimostrazione del danno, nel giudizio di rinvio, non ammette nuove prove e va effettuata sulla base di quelle già fornite.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, dichiara inammissibili gli altri.
Cassa la decisione impugnata e rinvia alla corte di appello di Caltanissetta, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso in Roma, il 01/07/2024.