Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 12879 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 12879 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 14/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 8092/2020 R.G. proposto da: COGNOME difeso dall’avvocato NOME COGNOME
-ricorrente-
contro
COGNOME, elettivamente domiciliata in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CODICE_FISCALE, difesa dall’avvocato COGNOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO BARI n. 2642/2019 depositata il 23/12/2019.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, affermando di essere proprietaria di un immobile al piano terra, con sovrastante terrazzino pertinenziale dotato di veduta diretta sul fabbricato confinante, di proprietà di
NOME COGNOME conveniva quest’ultimo dinanzi al Tribunale di Trani per l’accertamento della violazione delle distanze legali ai sensi dell’art. 907 c.c. L’attrice esponeva che il convenuto, a seguito di lavori di ricostruzione del solaio di copertura del proprio immobile, lo aveva sopraelevato, violando la distanza minima di tre metri imposta dall’art. 907 c.c. rispetto alla veduta esercitata dal terrazzino. Chiedeva quindi l’accertamento della violazione e la condanna del convenuto alla riduzione in pristino dell’immobile sino al rispetto della distanza legale, oltre al risarcimento del danno, quantificato in € 10.000 o nella somma ritenuta di giustizia ex art. 1226 c.c., con interessi e rivalutazione monetaria. Rigettata in primo grado per prescrizione del diritto, la domanda è stata accolta in appello.
Ricorre in cassazione il convenuto con quattro motivi, illustrati da memoria. Resiste l’attrice con controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Il primo motivo denuncia la violazione degli artt. 2697 e 907 c.c., nonché l’omesso esame di un fatto decisivo. Si contesta che la C orte territoriale abbia accolto l’appello senza accertare la titolarità del diritto di veduta ex art. 907 c.c., e senza verificare se il diritto fosse stato acquisito iure proprietatis o iure servitutis. Si deduce che la prova del titolo spettava alla parte attrice e che la corte distrettuale avrebbe errato nel riconoscere un diritto di veduta in assenza di un valido titolo di acquisto.
Il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 900 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo, nonché la violazione dell’art. 115 c.p.c. Si censura la sentenza per avere ritenuto esistente un diritto di veduta dal terrazzino dell’attrice, nonostante fosse impossibile il prospicere a causa della presenza di una grata metallica fissa da oltre trent’anni, con maglie strette e altezza di 2,05 metri, che impediva ogni affaccio. Si lamenta inoltre che la Corte territoriale non abbia considerato la documentazione
fotografica prodotta dalle parti, che dimostrerebbe tale impossibilità.
I primi due motivi possono essere esaminati contestualmente.
Essi sono infondati.
La parte ricorrente prospetta come questioni di diritto ovvero come omesso esame di fatti decisivi censure mosse in realtà alla ricostruzione istruttoria della situazione di fatto rilevante compiuta dal giudice di appello. Dinanzi a tali censure, il compito di questa Corte è di verificare che il giudice di merito manifesti di aver fatto buon governo del proprio potere di apprezzamento. Ciò è accaduto nel caso di specie. Infatti, il giudice di merito che fondi il proprio apprezzamento su alcuni elementi probatori piuttosto che su altri non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento in una motivazione effettiva, risoluta e coerente (che rispetti quindi i canoni dettati da Cass. SU 8053/2014). Di talché egli – in obbedienza al canone di proporzionalità di una motivazione necessaria, idonea allo scopo e adeguata – non è tenuto a discutere esplicitamente ogni singolo elemento probatorio o a confutare ogni singola deduzione che aspiri ad una diversa ricostruzione della situazione di fatto rilevante. Sarebbe superfluo ricordare che l’esito positivo della verifica compiuta dalla Corte di cassazione non implica logicamente che essa faccia proprio tale apprezzamento: esso è e rimane del giudice di merito.
Nel caso di specie la Corte ha risolto la questione ritenendo che la configurazione dei luoghi e il dislivello tra i fondi fossero elementi sufficienti per qualificare la posizione dell’attrice come titolare di un diritto di veduta, mentre la rete metallica non impedisce che si dia veduta, in quanto svolge esclusivamente la funzione di protezione della proprietà. La Corte ha desunto dalla documentazione in atti che la nuova costruzione edificata dalla parte convenuta si ponga in violazione delle distanze legali e con un’altezza superiore rispetto a quella precedente, escludendo completamente luce e veduta alla
proprietà dell’appellante, determinando così una violazione dell’art. 907 c.c.
I primi due motivi sono rigettati.
– Il terzo motivo denuncia la violazione degli artt. 115 c.p.c., 1226, 2043, 2059, 2697 e 2727 c.c., lamentando che la Corte territoriale abbia riconosciuto il danno non patrimoniale in re ipsa, senza prova della sua effettiva sussistenza e senza che vi fosse una specifica previsione normativa in tal senso. Si sostiene che la violazione della distanza legale non comporta automaticamente un danno risarcibile, ma è necessario dimostrare un effettivo pregiudizio subito dal proprietario del fondo confinante.
Il motivo è fondato.
L’argomentazione della Corte d’appello (« in tema di violazione delle distanze tra costruzioni, il danno che il proprietario confinante subisce, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria, essendo il detto danno l’effetto, certo e indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà ») deve essere valutata criticamente alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale più recente sul danno in re ipsa, che ha conosciuto una tappa importante con Cass. SU 33645/2022.
Le Sezioni Unite hanno proposto di sostituire la locuzione ‘ danno in re ipsa ‘ con quella di ‘ danno presunto ‘ o ‘ danno normale ‘ , privilegiando la prospettiva di una presunzione basata sull’allegazione di specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio. Secondo le Sezioni Unite, nel caso di occupazione sine titulo di un immobile, il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto) che è andata perduta. Questo significa che, sebbene non si richieda una prova precisa dell’ammontare del danno (che può essere liquidato
equitativamente, ad esempio tramite il canone locativo di mercato), la parte che chiede il risarcimento deve comunque allegare la concreta possibilità di godimento che ha perso a causa dell’occupazione abusiva. Il convenuto può poi contestare specificamente tale allegazione, nel rispetto dell’art. 115 co. 1 c.c. In presenza di una contestazione specifica, sorge per l’attore l’onere di provare lo specifico godimento perso, onere che può essere assolto anche tramite nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.
Pur essendo pronunciata su un fattispecie diversa da quella qui controversa, l’ orientamento delle Sezioni Unite segna una tendenza -da condividersi – a riconfigurare l’applicazione del concetto di danno in re ipsa, riconoscendo la necessità di allegare e, se necessario, di provare il danno effettivo subito come conseguenza dell’illecito.
Il terzo motivo è accolto.
– Il quarto motivo, formulato in via subordinata ai primi due, denuncia la violazione dell’art. 1073 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo. Si lamenta che la Corte territoriale non abbia dichiarato estinto il diritto di veduta per non uso ultraventennale, nonostante l’esistenza della grata rendesse impossibile l’affaccio sin dal 1965. Si richiama la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto provato il non uso del diritto per oltre vent’anni, e si censura la Corte di appello per non avere considerato tale circostanza.
Al pari dei primi due, il quarto motivo non può aver sorte diversa dal rigetto, in quanto rinviene il suo asse portante nell’argomentare dalla presenza della grata come impeditiva dell’esercizio del diritto: ciò che la Corte di appello ha escluso con una motivazione che -come si è già considerato – non si espone a censure in sede di legittimità.
– La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo ascolto e rinvia alla Corte di appello di Bari, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta i restanti motivi, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Bari, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 19/03/2025.