Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 10410 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 10410 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 26511/2020 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME e NOME COGNOME;
-ricorrente –
contro
COGNOME rappresentata e difesa dagli avvocati NOMECOGNOME e COGNOME
-controricorrente- avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI ANCONA n. 528/2020 depositata il 27/05/2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20/03/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
La controversia riguarda la realizzazione da parte di NOME COGNOME di un manufatto esterno al fabbricato condominiale, il quale, secondo l’attrice NOME COGNOME viola le distanze legali ai sensi dell’art. 873 c.c., altera il decoro architettonico dell’edificio e pregiudica il suo diritto di servitù di veduta e di accesso per la manutenzione delle
fosse biologiche. La COGNOME ha domandato la demolizione dell’opera realizzata sotto il balcone, con ripristino dello stato dei luoghi e il risarcimento del danno. Il Tribunale di Pesaro ha accolto la domanda, condannando il Battaglia alla demolizione del manufatto e al risarcimento del danno, liquidato in € 3.000,00 per ogni anno dal 2012 fino alla demolizione effettiva, oltre a € 500,00 per ogni mese di ritardo nell’esecuzione dell’obbligo.
Il convenuto ha proposto appello, contestando l’utilizzo da parte del Tribunale di provvedimenti cautelari emessi in altro procedimento, l’erronea valutazione della consulenza tecnica d’ufficio e la statuizione sul risarcimento del danno. Ha inoltre chiesto la rinnovazione della consulenza tecnica e la revoca dell’ordine di demolizione. COGNOME ha resistito all’appello, eccependo l’inammissibilità dello stesso e contestando integralmente le censure.
La Corte di appello, con la sentenza oggi impugnata, ha confermato la condanna di Battaglia alla demolizione del manufatto, asseverando l’accertamento del Tribunale secondo cui il manufatto non è interrato, ma seminterrato, e quindi soggetto alle norme sulle distanze legali. Ha escluso che il manufatto possa essere qualificato come vano tecnico e ha rilevato che esso altera il decoro archi tettonico dell’edificio, creando un corpo estraneo rispetto alla struttura originaria. Per quanto riguarda il diritto di servitù di veduta e di accesso alle fosse biologiche, la Corte ha confermato che la costruzione riduce la colonna d’aria e di luce e rende più gravoso l’esercizio della servitù, determinando una lesione giuridicamente rilevante. Ha altresì respinto le contestazioni dell’appellante sul risarcimento del danno , confermando il principio secondo cui il danno derivante dalla violazione delle distanze legali è in re ipsa. Tuttavia, ha ridotto la somma liquidata dal Tribunale, ritenendo eccessiva la quantificazione in assenza di un’adeguata prova delle voci
di danno. Ha pertanto rideterminato il risarcimento in € 10.000 , lasciando ferma invece la penalità di €. 500,00 per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione dell’obbligo di demolizione.
Ricorre il convenuto con tre motivi. Resiste l’attrice con controricorso e memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo denuncia violazione dell’art. 873 c.c., anche in correlazione all’art. 2058 co. 2 c.c., per avere la Corte di appello confermato la violazione delle distanze legali con riferimento al manufatto realizzato dal ricorrente. Si osserva che il manufatto, destinato ad accogliere impianti tecnici, è stato realizzato in aderenza su tre lati: a nord-est contro il muro di sostegno del terreno della corte comune, a nord-ovest contro il fabbricato esistente di proprietà comune del ricorrente e della controricorrente, e a sud-ovest contro altro fabbricato. Il quarto lato, quello sud-est, risulta interamente ricompreso nella proprietà esclusiva del ricorrente, delimitato da una fila di blocchi autoportanti con funzione di contenimento del terreno. Si assume che, ai fini dell’applicazione dell’art. 873 c.c., la distanza legale si impone solo tra costruzioni non in aderenza, e che la Corte di appello avrebbe errato nel ritenere che l’opera fosse soggetta a tale obbligo. Si afferma altresì che la Corte av rebbe trascurato il rilievo che l’opera, per struttura e funzione, debba qualificarsi come vano tecnico e che quindi non rientri nella nozione di «costruzione» rilevante ai fini del calcolo delle distanze. Il motivo contesta infine la ricostruzione fattuale operata dal giudice di merito, negando che l’opera sia fuori terra, e afferma che la sua collocazione parzialmente interrata e l’aderenza ai manufatti preesistenti avrebbero dovuto escludere la violazione delle distanze.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, la Corte di appello, attraverso una autonoma ratio decidendi , ha anche argomentato: « Le censure sollevate dall’appellante non sono poi idonee a scalfire l’impianto logico -motivazionale della pronuncia di primo grado neppure nella parte in cui il Tribunale ha rilevato che la costruzione altera il decoro architettonico del fabbricato e apporta una modifica della veduta, della colonna d’aria e luce dell’appartamento della COGNOME. Al riguardo infatti il Tribunale ha rilevato, sulla base della CTU espletata, che la nuova costruzione è di fatto assimilabile ad una superfetazione, ossia ad un corpo aggiunto, privo di qualsiasi legame con le linee architettoniche del fabbricato quadrifamiliare esistente, per cui il decoro architettonico del fabbricato è alterato, circostanze desumibili anche dalle fotografie e dalle planimetrie prodotte. Pertanto, le doglianze dell’appellante, fondate sul fatto che le risultanze della CTU sarebbero state erroneamente valutate dal Tribunale con particolare riferimento alla incidenza -ritenuta dal consulente di lieve entità -della nuova opera sulla sagoma dell’edif icio non colgono nel segno, poiché non riguardano gli accertamenti svolti dal CTU, richiamati dal giudice di primo grado, in merito al decoro architettonico» .
Dunque, la pronuncia di accoglimento si basa anche sulla accertata alterazione del decoro architettonico nonché sulla lesione del diritto di servitù di veduta in appiombo e di accesso. Tali ragioni -basate sull’accertamento che trattasi di un edificio condominiale e quadrifamiliare (v. anche pagg. 11 e 12) non sono assolutamente censurate dal motivo in esame e sono idonee a sorreggere autonomamente la pronuncia. Ne segue che il motivo è da dichiarare inammissibile per difetto di interesse. Infatti, per m antenere l’interesse ad una pronunci a di merito, il ricorrente deve censurare tutte le ragioni in grado di sorreggere autonomamente la pronuncia impugnata, alla stregua
dell’ orientamento costante di questa Corte (cfr. Cass. 9752/2017, Cass. 18119/2020, tra le altre).
2. -Il secondo motivo denuncia violazione degli artt. 2058, 2697 c.c. e 115 c.p.c., per avere la Corte di appello confermato l’ordine di demolizione del manufatto realizzato dal ricorrente, senza accertare se la riduzione in pristino fosse materialmente possibile o eccessivamente onerosa, e senza considerare che la demolizione com porterebbe l’inabitabilità delle due unità abitative. Si afferma che il manufatto in questione ospita impianti tecnici comuni alle due abitazioni e che, in assenza di un accertamento sull’effettiva possibilità di ricollocare tali impianti altrove, la Corte avrebbe dovuto disporre un risarcimento del danno in forma equivalente, anziché ordinare la demolizione. Si deduce che la Corte ha erroneamente ritenuto sufficiente, per disporre la reintegrazione in forma specifica, la sola constatazione della lesione dei diritti di proprietà e servitù della controparte, senza valutare l’impossibilità o eccessiva onerosità dell’adempimento, con conseguente violazione del principio sull’onere della prova. La parte ricorrente assume che tale onere incombeva sulla controparte, che avrebbe dovuto dimostrare la concreta fattibilità tecnica della demolizione e la possibilità di ripristinare le condizioni precedenti senza compromettere la funzionalità degli impianti.
Il motivo è infondato sotto il profilo della censura di violazione dell’art. 2058 co. 2 c.c. , Infatti: « atteso il carattere assoluto dei diritti reali, la tutela degli stessi mediante reintegrazione in forma specifica non è soggetta al limite ex art. 2058 co. 2 c.c., salvo che lo stesso titolare danneggiato chieda il risarcimento per equivalente » (così Cass SU 10499/2016, seguita da altre conformi).
Invece la doglianza relativa all’ asserita inabitabilità cagionata dall’ordine di demolizione (in quanto il vano ospita impianti essenziali per le
abitazioni) è inammissibile per difetto di specificità, poiché il ricorrente non ha spiegato in alcun modo perché a tale problema non si possa ovviare con lo spostamento degli impianti.
3. Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 1226 c.c. Si contesta la decisione della Corte di appello nella parte in cui ha confermato la condanna al risarcimento del danno, ritenendo che la violazione delle distanze legali comporti un danno in re ipsa. Si afferma che la Corte avrebbe erroneamente applicato il principio della liquidazione equitativa, in assenza di prova del danno effettivamente subito dalla controparte. Si sostiene che la parte resistente si sia limitata a richiedere genericamente un risarcimento, senza indicare le specifiche voci di danno, e che la sentenza impugnata avrebbe dovuto rigettare la domanda risarcitoria per genericità e mancanza di prova.
La parte della sentenza censurata dal terzo motivo è la seguente: « In tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell’illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l’effetto, certo ed indiscutibile, dell’abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi in re ipsa, senza necessità di una specifica attività probatoria ».
Questo motivo -a differenza dei precedenti – è fondato nei termini seguenti.
L’argomentazione della Corte d’appello deve essere valutata criticamente alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale più recente sul
danno in re ipsa, che ha conosciuto una tappa importante con Cass. SU n. 33645/2022. Le Sezioni Unite hanno proposto di sostituire la locuzione ‘danno in re ipsa’ con quella di ‘danno presunto’ o ‘danno normale’, privilegiando la prospettiva di una presunzione basata su sull’allegazione di specifiche circostanze da cui inferire il pregiudi zio. Secondo le Sezioni Unite, nel caso di occupazione sine titulo di un immobile, il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno da perdita subita è la concreta possibilità di esercizio del diritto di godimento (diretto o indiretto) che è andata perduta. Questo significa che, sebbene non si richieda una prova precisa dell’ammontare del danno (che può essere liquidato equitativamente, ad esempio tramite il canone locativo di mercato), la parte che chiede il risarcimento deve comunque allegare la concreta possibilità di godimento che ha perso a causa dell’occupazione abusiva. Il convenuto può poi contestare specificamente tale allegazione, nel rispetto dell’art. 115 co. 1 c.c. In presenza di una contestazione specifica, sorge per l’attore l’onere di provare lo specifico godimento perso, onere che può essere assolto anche tramite nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza o mediante presunzioni semplici.
Pur essendo pronunciata su un fattispecie diversa da quella qui controversa, l’orientamento delle Sezioni Unite segna una tendenza -da condividersi – a riconfigurare l’applicazione del concetto di danno in re ipsa, nel senso di riconoscere un onere di allegare e, se necessario, di provare il danno effettivo subito come conseguenza dell’illecito.
Nel caso in esame, la soluzione della Corte d’Appello – che, oltre a prevedere un risarcimento di €. 10.000,00, ha mantenuto ferma anche una penalità ex art. 614 bis cpc di €. 500,00 per ogni mese di ritardo (a pag. 13 il riferimento al ‘ giorno di ritardo ‘ è evidentemente un mero refuso, come si desume dal tenore della pronuncia di primo grado che
ha rapportato l’astreinte ad ogni mese di ritardo: cfr. pag. 3 sentenza impugnata) – si pone in contrasto con i citati principi sul danno in re ipsa e necessità di allegazione e pertanto si rende necessaria la cassazione per nuovo esame.
Il giudice di rinvio (che si individua nella Corte di appello di Ancona, in diversa composizione) procederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta i restanti, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 20/03/2025.