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Danno da usura psicofisica: la Cassazione decide

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un’azienda sanitaria contro la condanna al risarcimento per il danno da usura psicofisica subito dai dipendenti. Il danno è stato provato tramite presunzioni, come l’estensione dell’orario e la mancata fruizione delle pause per oltre un decennio.

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Pubblicato il 24 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Danno da usura psicofisica per mancate pause: la Cassazione conferma il risarcimento

Il riconoscimento del danno da usura psicofisica è un tema cruciale nel diritto del lavoro, specialmente in settori ad alta intensità come quello sanitario. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito importanti principi sulla prova di tale danno, dichiarando inammissibile il ricorso di un’azienda sanitaria regionale contro la sentenza che la condannava a risarcire i propri dipendenti per la mancata fruizione delle pause durante turni di lavoro prolungati.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine dalla richiesta di risarcimento avanzata da un gruppo di dipendenti di un’azienda sanitaria di emergenza. I lavoratori lamentavano di aver subito un’usura psicofisica a causa delle gravose condizioni di lavoro, caratterizzate da turni estesi, continuità della prestazione e, soprattutto, dalla sistematica violazione dell’obbligo di concedere le pause previste dalla normativa sull’orario di lavoro (art. 8 del d.lgs. n. 66/2003).

La Corte d’Appello di Roma, confermando la decisione di primo grado, aveva rigettato l’appello dell’azienda. I giudici di merito avevano ritenuto provato il danno sulla base di una serie di elementi presuntivi: la maggiore gravosità del lavoro, l’estensione oraria del turno, la sua continuità e il protrarsi di questa situazione per oltre un decennio. La Corte aveva quindi accertato il diritto al risarcimento (an debeatur), rimandando a un separato giudizio la quantificazione dell’importo esatto.

I Motivi del Ricorso e la questione del danno da usura psicofisica

L’azienda sanitaria ha proposto ricorso per cassazione, articolando tre motivi principali. Con il primo e più significativo motivo, l’azienda sosteneva che la Corte d’Appello avesse erroneamente applicato i principi giuridici relativi al mancato godimento del riposo giornaliero e settimanale a un caso che riguardava, invece, la semplice pausa giornaliera. Secondo la tesi del ricorrente, il danno da usura psicofisica sarebbe risarcibile solo in caso di violazione dei riposi principali, che godono di una copertura costituzionale diretta (art. 36 Cost.), e non per la mancata fruizione di una pausa, a meno che la prestazione lavorativa non ecceda in maniera abnorme i limiti legali o contrattuali.

In sostanza, l’azienda tentava di sminuire la rilevanza della violazione, confinandola a un inadempimento minore e non idoneo a generare un danno risarcibile.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso interamente inammissibile, fornendo chiarimenti fondamentali. Il primo motivo, secondo gli Ermellini, è stato ritenuto inammissibile perché non coglieva la vera ratio decidendi della sentenza impugnata.

La Corte di Cassazione ha spiegato che la decisione della Corte d’Appello non si era limitata ad applicare in modo automatico i principi validi per il riposo giornaliero o settimanale. Al contrario, aveva condotto un accertamento in concreto, basato su specifici elementi presuntivi che, nel loro insieme, dimostravano la sussistenza del danno. Questi elementi erano:

1. L’estensione oraria del turno;
2. La continuità dello stesso;
3. Il protrarsi dell’inadempimento datoriale per un decennio.

Questi fattori, secondo i giudici di merito, rappresentavano “aggravanti l’ordinaria penosità del lavoro” e costituivano una base sufficiente per riconoscere il danno alla salute lamentato dai lavoratori. Il ricorso dell’azienda, invece di contestare questa specifica valutazione fattuale, si era concentrato esclusivamente su un presunto errore nell’applicazione dei principi giuridici, mancando così di confrontarsi con il cuore della motivazione della sentenza d’appello.

Anche il secondo e il terzo motivo, relativi alla quantificazione del danno e alle spese di lite, sono stati giudicati inammissibili in quanto strettamente conseguenti al primo.

Le Conclusioni

L’ordinanza in commento offre due importanti spunti di riflessione. In primo luogo, ribadisce che il danno da usura psicofisica non è un concetto astratto, ma può essere provato concretamente attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti basate sulle effettive condizioni di lavoro. La violazione sistematica e prolungata delle norme a tutela dei tempi di lavoro, incluse le pause, può essere un elemento chiave per dimostrare l’esistenza di un danno risarcibile.

In secondo luogo, dal punto di vista processuale, la decisione sottolinea un principio fondamentale: per avere successo in Cassazione, un ricorso non può limitarsi a contestare genericamente i principi di diritto, ma deve aggredire specificamente la ratio decidendi della sentenza impugnata, ovvero il percorso logico-giuridico che ha portato i giudici di merito a quella determinata conclusione. In mancanza di ciò, il ricorso è destinato all’inammissibilità.

È possibile ottenere un risarcimento per danno da usura psicofisica per la mancata fruizione delle pause giornaliere?
Sì. La sentenza chiarisce che la mancata fruizione delle pause, se unita ad altri elementi come l’estensione dell’orario e la continuità del turno per un lungo periodo, può costituire prova presuntiva del danno alla salute e fondare il diritto al risarcimento.

Come si prova il danno da usura psicofisica in giudizio?
Secondo questa decisione, il danno può essere provato sulla base di elementi presuntivi. Nel caso di specie, la Corte ha considerato come prove sufficienti l’estensione oraria del turno, la sua continuità e il protrarsi dell’inadempimento del datore di lavoro per oltre un decennio, ritenendoli “aggravanti l’ordinaria penosità del lavoro”.

Per quale motivo il ricorso dell’azienda è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché non ha contestato la specifica ‘ratio decidendi’ (la ragione fondamentale) della sentenza d’appello. L’azienda ha criticato l’applicazione di principi giuridici astratti, mentre la Corte d’Appello aveva basato la sua decisione su una valutazione concreta di elementi di fatto che provavano la maggiore gravosità del lavoro e il conseguente danno.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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