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Danno da svalutazione: la Cassazione chiarisce

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 6731/2024, ha chiarito un importante principio processuale in materia di appalti. Un’impresa edile aveva ottenuto in primo grado la condanna di un condominio al pagamento dei lavori, degli interessi e del danno da svalutazione monetaria. In appello, la Corte territoriale aveva eliminato la condanna al danno da svalutazione, pur in assenza di uno specifico motivo di gravame da parte del condominio. La Cassazione ha cassato la sentenza d’appello su questo punto, ripristinando il diritto dell’impresa al risarcimento, poiché il giudice di secondo grado non può pronunciarsi su questioni non espressamente appellate, violando il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.

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Danno da Svalutazione Monetaria: Quando il Giudice non Può Escluderlo

L’ordinanza n. 6731 del 13 marzo 2024 della Corte di Cassazione offre uno spunto cruciale sul tema del danno da svalutazione monetaria e sui limiti del potere del giudice d’appello. La vicenda, nata da una controversia legata a un contratto d’appalto, dimostra come il rispetto delle regole processuali sia fondamentale per la tutela dei diritti. In particolare, la Suprema Corte ha ribadito che un giudice di secondo grado non può eliminare una voce di danno riconosciuta in primo grado se la parte appellante non ha sollevato una specifica contestazione in merito.

I Fatti di Causa: Un Appalto Conteso

La controversia vedeva contrapposti un’impresa edile e un condominio committente. L’impresa aveva citato in giudizio il condominio per ottenere la risoluzione del contratto d’appalto a causa del mancato pagamento di somme dovute, chiedendo il corrispettivo per i lavori già eseguiti e il risarcimento per il mancato guadagno.

Il Tribunale di primo grado aveva accolto le richieste dell’impresa, condannando il condominio al pagamento di oltre 88.000 euro per le opere eseguite, oltre IVA, interessi moratori, e, punto centrale della questione, un’ulteriore somma a titolo di danno da svalutazione monetaria. Veniva inoltre riconosciuto un cospicuo risarcimento per il mancato guadagno.

La Riforma in Appello e il Danno da Svalutazione Monetaria

Il condominio impugnava la sentenza dinanzi alla Corte d’Appello. Quest’ultima, in parziale riforma della decisione di primo grado, modificava sostanzialmente l’esito. Dichiarava legittimo il recesso dal contratto esercitato dal committente (il condominio), escludendo così il diritto dell’impresa al risarcimento del danno per mancato guadagno. La Corte, inoltre, pur confermando la condanna al pagamento dei lavori eseguiti, eliminava la voce relativa al danno da svalutazione monetaria.

Il Ricorso in Cassazione: La Violazione del Principio Processuale

L’impresa edile ricorreva per cassazione, lamentando, tra i vari motivi, la violazione dell’art. 342 c.p.c. (forma dell’appello). Sostanzialmente, l’impresa evidenziava come la Corte d’Appello avesse espunto dalla condanna il danno da svalutazione monetaria senza che il condominio, nel suo atto di appello, avesse mai sollevato una specifica censura su quel punto della sentenza di primo grado.

La Suprema Corte ha accolto questo specifico motivo di ricorso, ritenendolo fondato e decisivo. Gli altri motivi, relativi alla valutazione dei fatti e all’inadempimento, sono stati invece respinti in quanto miravano a un riesame del merito, non consentito in sede di legittimità.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Cassazione ha chiarito che il potere del giudice d’appello è strettamente legato ai motivi di gravame presentati dalle parti. Questo principio, noto come “corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato” (art. 112 c.p.c.), impedisce al giudice di andare oltre le richieste formulate o di decidere su questioni che non sono state oggetto di specifica critica.

Nel caso di specie, il condominio non aveva contestato la statuizione del Tribunale relativa al danno da svalutazione monetaria. Di conseguenza, la Corte d’Appello, eliminando quella condanna, ha agito ultra petita, ovvero oltre i limiti della domanda devoluta al suo esame. La Cassazione ha quindi cassato la sentenza impugnata su questo punto e, decidendo nel merito, ha ripristinato il diritto dell’impresa a ricevere l’ulteriore somma a titolo di danno da svalutazione, così come originariamente stabilito dal giudice di primo grado.

Conclusioni

Questa pronuncia sottolinea un aspetto fondamentale del processo civile: la specificità dei motivi di appello. Chi impugna una sentenza deve articolare in modo chiaro e preciso ogni singola doglianza contro la decisione di primo grado. Le parti della sentenza che non vengono specificamente contestate passano in giudicato interno e non possono essere modificate dal giudice del gravame. La decisione riafferma la centralità delle regole processuali come garanzia di un giudizio equo e prevedibile, confermando che il diritto al risarcimento del danno da svalutazione monetaria, una volta accertato e non contestato, non può essere arbitrariamente eliminato in un grado successivo del giudizio.

A cosa serve il danno da svalutazione monetaria?
Serve a compensare il creditore per la perdita di potere d’acquisto del suo credito, dovuta al tempo trascorso tra il momento in cui il diritto è sorto e quello del pagamento effettivo, garantendo che la somma ricevuta abbia lo stesso valore reale di quella originariamente dovuta.

Un giudice d’appello può modificare una parte della sentenza di primo grado che non è stata specificamente contestata?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che il giudice d’appello viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato se modifica una statuizione della sentenza di primo grado (come la condanna al danno da svalutazione) senza che l’appellante abbia presentato uno specifico motivo di critica su quel punto.

Qual è la differenza tra recesso e risoluzione del contratto d’appalto secondo questa vicenda?
La risoluzione presuppone un grave inadempimento di una delle parti e dà diritto al risarcimento completo dei danni. Il recesso, in questo caso disciplinato dal contratto, è stato considerato un legittimo esercizio di una facoltà del committente di porre fine al rapporto, escludendo il diritto dell’impresa al risarcimento del mancato guadagno, ma obbligando comunque al pagamento dei lavori già eseguiti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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