Sentenza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 26524 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 2 Num. 26524 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 01/10/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 3193/2023 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALECODICE_FISCALE che lo rappresenta e difende
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME E RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME E NOME SS RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, COGNOME NOME, elettivamente domiciliati in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME
NOME (CODICE_FISCALE) che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati COGNOME (CODICE_FISCALE), COGNOME NOME (CODICE_FISCALE)
-controricorrenti- nonché contro
COGNOME NOME, RAGIONE_SOCIALE
-intimati- avverso la SENTENZA di CORTE D’APPELLO PERUGIA n. 716/2019 depositata il 18/11/2019.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/09/2025 dal Presidente NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con citazione notificata il 6.10.2008 NOME COGNOME, NOME COGNOME, COGNOME NOME e RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, COGNOME NOME ed RAGIONE_SOCIALE e l’RAGIONE_SOCIALE convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Perugia, sez. distaccata di Città di Castello, la RAGIONE_SOCIALE.
Deducevano che con contratto preliminare in data 16.2.2005 RAGIONE_SOCIALE, proprietaria di un’azienda RAGIONE_SOCIALE operante nel settore del RAGIONE_SOCIALE, prometteva di vendere alla RAGIONE_SOCIALE, che prometteva di acquistare non per sé ma per persona da nominare, quote (previste dai reg. CE nn. 2075/92 e 3478/92) di produzione di RAGIONE_SOCIALE Bright pari a kg. 36.000, con effetto dal raccolto del 2005, per il prezzo complessivo di 180.000,00 euro. La promittente venditrice si obbligava, altresì,
« a svolgere ogni attività necessaria a far sì ‘che eventuali diritti derivanti dalla riforma della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (RAGIONE_SOCIALE: n.d.r.) , in corso di emanazione, vengano trasferiti, in toto, alla promissaria acquirente e quindi alle persone fisiche o giuridiche che quest’ultima indicherà ».
Effettuate da parte de RAGIONE_SOCIALE le nomine in favore dei su indicati attori, RAGIONE_SOCIALE: a ) il 15.3.2005 sottoscriveva i modelli TC1, predisposti da RAGIONE_SOCIALE per l’inserimento della cessione nel sistema informativo agricolo nazionale e riceveva il pagamento del prezzo pattuito; b ) il 30.3.2005 rilasciava agli attori una dichiarazione sostitutiva in cui precisava che « con la sottoscrizione dei mod. TC1 (aveva) inteso cedere agli acquirenti, a titolo definitivo, tutti i diritti e gli aiuti comunitari relativi alla coltivazione di RAGIONE_SOCIALE (parte accoppiata e parta disaccoppiata) e quant’altro inerente la produzione del RAGIONE_SOCIALE stesso e che potrebbero, comunque, derivargli dagli emanandi regolamenti attuativi sulla riforma della OCM RAGIONE_SOCIALE, non ancora definiti (…) per i quantitativi ceduti ».
Precisavano, ancora, gli attori che, a seguito del reg. CE n. 1782/2003 e delle successive disposizioni di attuazione, la normativa europea in materia di produzione del RAGIONE_SOCIALE aveva abbandonato il pregresso sistema di erogazione di contributi di tipo c.d. accoppiato per quote di produzione (le quali, stabilite sulla base della capacità produttiva dell’azienda RAGIONE_SOCIALE, definivano la quantità di RAGIONE_SOCIALE che poteva beneficiare dei contributi), legato cioè alle colture di RAGIONE_SOCIALE effettivamente praticate, sostituendolo con un sistema di erogazione a contributo unico per azienda RAGIONE_SOCIALE, c.d. disaccoppiato, perché collegato non più alle colture di RAGIONE_SOCIALE effettuate, ma alle superfici coltivate dalla singola azienda RAGIONE_SOCIALE. Tale nuovo sistema, applicato in Italia dal 2006, aveva
previsto la corresponsione di c.d. titoli all’aiuto, in ragione dei contributi che il coltivatore, in base al precedente sistema, aveva percepito nel triennio 2000-2003.
Ciò posto, gli attori, ritenevano, nello specifico, di aver diritto, in base ai precitati accordi, alla corresponsione da parte di RAGIONE_SOCIALE anche dei diritti relativi alla parte di aiuti c.d. disaccoppiata dal 2006 al 2013, cioè i titoli previsti dai regolamenti comunitari nn. 1872/03 e 796/04, e non soltanto quelli di cui alla parte c.d. accoppiata relativa al raccolto del 2005. Precisavano ulteriormente che RAGIONE_SOCIALE si era rifiutata di adempiere, a seguito di formale diffida ex art. 1454 c.c.
Quindi, domandavano la risoluzione per inadempimento ‘dei contratti’, la restituzione delle somme corrisposte e il risarcimento del danno.
La RAGIONE_SOCIALE.RAGIONE_SOCIALE. convenuta nell’articolare la propria difesa deduceva che la domanda era inammissibile perché indeterminata e infondata nel merito, in quanto il contratto preliminare del 16.2.2005 prevedeva la sola cessione delle quote -c.d. parte accoppiata -del raccolto 2005. Inoltre, ne eccepiva la nullità per violazione degli artt. 46 reg. Cee n. 1782/2003, 12 e 17 reg. Cee n. 795/2004, sul divieto di cessione dei titoli. In subordine, contestava la sussistenza del danno lamentato e, comunque, il relativo ammontare, da compensarsi con la prestazione già eseguita (consistente nella cessione delle quote del raccolto del 2005 e dei raccolti dal 2006 al 2009).
Il Tribunale, in accoglimento della domanda, dichiarava risolto il contratto del 16.2.2005, che qualificava come contratto a favore di terzi, e condannava la s.s. convenuta alle restituzioni e ai danni, i primi quantificati nel prezzo pagato, i secondi liquidati in misura corrispondente all’importo dei titoli all’aiuto che RAGIONE_SOCIALE aveva ricevuto dal 2006 al 2013.
Adita in via principale da RAGIONE_SOCIALE e in via incidentale dagli attori, limitatamente alla qualificazione della scrittura del 16.3.2005 come contratto a favore di terzi, la Corte d’appello di Perugia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, con sentenza non definitiva n. 716/19, pronunciata anche nei confronti della RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, quali successori a titolo particolare, rispettivamente, di NOME COGNOME e di NOME COGNOME, riformava la sentenza di primo grado limitatamente all’ammontare delle restituzioni e del danno, rimettendone la quantificazione in prosieguo di giudizio.
Per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità, la Corte d’appello riteneva che la domanda, avente ad oggetto la risoluzione dei ‘contratti’, dovesse essere interpretata come riferentesi sia al preliminare del 16.2.2005, sia ai contratti di cessione delle quote posti in essere, in adempimento di quest’ultimo, il 15.3.2005 mediante la sottoscrizione dei moduli TC1. Se ne traeva conferma dalla parte in diritto della citazione di primo grado e dal contenuto della memoria assertiva di cui all’art. 183, sesto comma c.p.c., sebbene meno precisa al riguardo. Di qui l’infondatezza del motivo d’appello inteso a far valere l’asserito vizio di extrapetizione.
Nel merito, riqualificato il contratto del 16.2.2005 come contratto preliminare per persone da nominare, la Corte distrettuale osservava che il relativo art. 7 prevedeva che RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto porre in essere ‘ ogni attività necessaria per far sì che eventuali diritti derivanti dalla riforma della OCM RAGIONE_SOCIALE, in corso di emanazione, vengano trasferiti, in toto’ ai promissari acquirenti. Pertanto, proseguiva, era chiaro che « gli aiuti comunitari cui dava diritto automaticamente la titolarità delle quote di RAGIONE_SOCIALE non avevano bisogno di alcuna prestazione da parte della promissaria cedente, conseguendo normativamente all’acquisto della titolarità di dette quote. L’impegno non poteva
dunque che riguardare aiuti diversi da quelli cui dava diritto automaticamente la titolarità delle quote di RAGIONE_SOCIALE e cioè quelli che la riforma dell’OCM, già nota alle parti essendo stata la stessa attuata col Reg. CE n. 1872/03 ed in via di graduale attuazione con riguardo al RAGIONE_SOCIALE, avrebbe riconosciuto alla convenuta in ragione comunque della titolarità delle quote che la stessa si era impegnata a cedere ».
Osservava, ancora, la Corte d’appello, che dopo le cessioni delle quote in data 15.3.2005 la società convenuta con la dichiarazione del 30.3.2005, sostitutiva di atto di notorietà, aveva affermato che con la sottoscrizione dei mod. TC1 essa aveva inteso ‘ cedere agli acquirenti, a titolo definitivo, tutti i diritti e gli aiuti comunitari relativi alla coltivazione del RAGIONE_SOCIALE (parte accoppiata e parte disaccoppiata) e quant’altro inerente la produzione del RAGIONE_SOCIALE stesso e che potrebbero, comunque, derivargli dagli emanandi regolamenti attuativi sulla riforma della OCM RAGIONE_SOCIALE, non ancora definitivi, ovviamente per i quantitativi ceduti ‘.
Proseguiva la Corte distrettuale, che tale ultima dichiarazione per il suo carattere unilaterale non costituiva né fonte di un’obbligazione né un negozio di accertamento, ma valeva « come riconoscimento dell’obbligo che la convenuta con la dichiarazione dà per adempiuto ».
Concludeva, quindi, nel senso che il riferimento ai ‘diritti’ e agli ‘aiuti’ comunitari, se per la parte accoppiata andava evidentemente fatto agli aiuti cui dava diritto la titolarità delle quote di produzione acquistate con gli atti di cessione, per la parte non accoppiata « non poteva che intendersi come fatto ai diritti, cd. Titoli agli aiuti, che -diversi da quelli cui dava diritto, direttamente, la titolarità delle quote -sarebbero stati comunque attribuiti alla società convenuta, sia pure indirettamente, per il fatto che la stessa era stata, nel periodo di riferimento 2000-2002,
titolare delle quote cedute. E poiché questi titoli agli aiuti che in base alla riforma sono stati attribuiti alla società convenuta disaccoppiati dalla produzione dipendevano tutti, come ha dimostrato il CTU, dalla coltivazione di RAGIONE_SOCIALE nel periodo di riferimento, è da ritenere che l’impegno della convenuta (…) riguardasse anche questi titoli, in proporzione naturalmente alle quote cedute. Sono questi i ‘diritti’ in questione fra le parti ».
Osservava, ancora, la Corte territoriale che l’eccezione subordinata di nullità del contratto per violazione dell’art. 46 reg. CE n. 1782/2003 era da respingere, in quanto tale invalidità avrebbe potuto riguardare solo la « dichiarazione sostitutiva del 30.3.2005 perché avvenuta quando la cessione dei titoli non era consentita. Ma detta cessione (…) non c’è (ra) in effetti stata. L’impegno alla cessione, che invece come s’è detto c’è stato, non può essere considerato nullo perché non era previsto per la cessione avvenisse entro il 2006 . Non c’è alcuna qualificazione temporale della promessa cessione degli aiuti, sicché l’impegno ben può intendersi valere -secondo un’interpretazione letterale (art. 1362 c.c.), prima ancora che di buona fede ex art. 1366 c.c. (…) quando la cessione dei diritti in questione fosse stata possibile ». Pertanto, « l’impossibilità ai sensi della disposizione sopra richiamata della cessione dei diritti in questione nell’anno 2006 importa che l’inadempimento della convenuta può essere affermato, contrariamente all’opinione del primo giudice, solo a partire dal 2007 ».
Quanto al ritenuto effetto risolutorio, la Corte perugina considerava, per un verso, che il lamentato inadempimento doveva ritenersi grave, essendo quella di cedere gli aiuti, al di là della loro consistenza, la prestazione essenziale a carico della società convenuta, sicché doveva ritenersi che gli attori non avrebbero
concluso l’affare se quest’ultima non avesse ceduto loro anche gli aiuti connessi. Per altro verso, pur rilevando che l’appello incidentale era volto ad ottenere che la risoluzione fosse dichiarata ai sensi dell’art. 1454 c.c. e non già pronunciata in base all’art. 1453 c.c., i giudici d’appello interpretavano la decisione di primo grado come dichiarativa della risoluzione ex art. 1454 c.c., per cui, in definitiva, l’impugnazione incidentale era in parte qua priva d’interesse.
La legittimità della diffida a adempiere, proseguiva la Corte territoriale, non era dubitabile, essendo stata comunicata nel 2008. Quanto alla circostanza che il Tribunale aveva dichiarato che la risoluzione aveva avuto efficacia ex nunc , si trattava di un lapsus calami , perché l’effetto restitutorio della risoluzione opera ex tunc , salvo il caso, non ricorrente nella specie, di cui all’art. 1458 c.c.
Infine, la Corte umbra, quanto agli obblighi restitutori e risarcitori derivanti dalla risoluzione, precisava: a ) che dal quantum restitutorio dovevano, però, essere detratte le somme che gli attori avevano riscosso a titolo di aiuti in ragione delle quote di produzione di RAGIONE_SOCIALE che avevano acquisito, cioè gli aiuti riscossi dagli attori nel 2005 e negli anni successivi; e b ) che l’ammontare del danno doveva essere ( i ) commisurato al differenziale tra il valore delle prestazioni ineseguite (pari alle quote di produzione e agli aiuti ceduti, con esclusione dell’obbligo per l’anno 2006) e la prestazione a carico degli attori, e ( ii ) ridotto, in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno , del vantaggio conseguito dalla risoluzione.
Quindi, con sentenza definitiva n. 714/21, la Corte umbra quantificava le restituzioni e i danni per ciascuna parte attrice.
In particolare, la Corte d’appello detraeva dall’obbligazione restitutoria il solo c.d. ‘beneficio agronomico’ relativo all’anno 2005, escludendo, invece, gli importi relativi alla parte accoppiata
degli aiuti per gli anni dal 2006 al 2009, in quanto non effettivamente percepiti dagli attori.
In merito, poi, al risarcimento del danno, aderiva alla soluzione prospettata dal c.t.u. Questi aveva calcolato anzitutto il valore delle prestazioni a carico della società convenuta che gli appellati avrebbero conseguito con l’esecuzione del preliminare, e che invece avevano perduto a seguito della risoluzione, cioè il totale degli importi che essi avrebbero ricevuto a titolo di aiuto se avessero ottenuto il trasferimento di quella parte dei titoli attribuiti alla parte appellante con riforma della PAC, generata da quantitativi di RAGIONE_SOCIALE corrispondenti alle quote acquistate.
Avverso entrambe le sentenze, non definitiva e definitiva, RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione, affidato, rispettivamente, a sette e tre motivi.
Vi resistono con controricorso la RAGIONE_SOCIALE, in cui è stata trasformata la ditta individuale NOME COGNOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE, la RAGIONE_SOCIALE, nella quale si è trasformata la ditta individuale NOME COGNOME, la RAGIONE_SOCIALE, NOME COGNOME, COGNOME NOME e RAGIONE_SOCIALE, e la RAGIONE_SOCIALE, nella quale si è fusa per incorporazione la RAGIONE_SOCIALE
NOME COGNOME e l’ RAGIONE_SOCIALE sono rimasti intimati.
In prossimità della pubblica udienza il P.G. ha depositato le proprie conclusioni scritte e le parti controricorrenti le rispettive memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
– Il primo motivo di ricorso avverso la sentenza non definitiva, n. 716/19, espone la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c.
Sostiene parte ricorrente che la Corte d’appello, nell’interpretare la volontà delle parti del preliminare del 16.2.2005, avrebbe estrapolato l’obbligo di trasferire i c.d. titoli all’aiuto (cioè la parte c.d. disaccoppiata) riconosciuti dalla normativa comunitaria ( i ) dall’art. 7 del regolamento contrattuale (« il promittente venditore si obbliga infine a porre in essere e a svolgere ogni attività necessaria per far sì che eventuali diritti derivanti dalla riforma della OCM RAGIONE_SOCIALE, in corso di emanazione, vengono trasferiti, in toto, alla promissaria acquirente e quindi alle persone fisiche o giuridiche da quest’ultima indicata »: così, testualmente, a pag. 20 del ricorso) e ( ii ) dalla dichiarazione sostitutiva di notorietà datata 30.3.2005 (« dichiarano che con la sottoscrizione del mod. TC1 di cui alle premesse, i sottoscritti quali titolari dell’RAGIONE_SOCIALE ha inteso cedere agli acquirenti, a titolo definitivo, tutti i diritti e gli altri aiuti comunitari relativi alla produzione di RAGIONE_SOCIALE (parte accoppiata e disaccoppiata) e quant’altro inerenti alla produzione del RAGIONE_SOCIALE stesso e che potrebbero, comunque, derivargli dagli emanandi regolamenti attuativi sulla riforma OCM RAGIONE_SOCIALE, non ancora definiti, ovviamente per i quantitativi ceduti » ( ibidem ).
Ciò -prosegue parte ricorrente -viola l’art. 1362 c.c., dal momento che la Corte distrettuale ha ricavato la cessione dei c.d. titoli (cioè parte c.d. disaccoppiata) unicamente dal termine ‘diritti’, cosa che non poteva riflettere la reale intenzione delle parti contraenti, atteso che la diversificazione tra parte accoppiata e parte disaccoppiata degli aiuti « è stata introdotta in Italia successivamente alla stipula del preliminare, con il reg. n. 795/2005 del 21.04.2005 [ rectius , reg. n. 795/2004 del 21.4.2004: n.d.r.) e il D.L. del 09 settembre 2005, convertito con legge n. 231 dell’11 novembre 2005, attuativo dei Reg. comunitari innanzi richiamati » (così, testualmente, a pag. 21 del ricorso). Sia alla data
di sottoscrizione del preliminare (16.2.2005), sia a quella dell’atto sostitutivo di notorietà (30.3.2005) la terminologia ‘diritti’ risulta utilizzata dal legislatore comunitario esclusivamente per determinare gli aiuti relativi alla presentazione della domanda unica, senza alcuna differenziazione tra ‘diritti’ all’aiuto relativi alla parte accoppiata alla e/o disaccoppiata dalla produzione. In nessun caso, dunque, al termine ‘diritti’, su cui esclusivamente si basa l’interpretazione operata dalla Corte perugina per individuare un’intera obbligazione rimasta inadempiuta dalla parte promittente venditrice, può essere attribuito il significato fatto proprio dalla Corte d’appello, cioè quello di « successivi diritti per indicare gli aiuti comunitari relativi alla parte disaccoppiata alla produzione » (così, a pag. 21 del ricorso).
L’art. 1363 c.c., poi, « risulta violato in quanto, concentrandosi unicamente s ull’argomento letterale del termine ‘diritti’ (…) , la Corte d’appello ha omesso di considerare le ulteriori clausole racchiuse nel preliminare del 16.02.2005, nonché le premesse a fronte delle quali si era perfezionato l’accordo, ivi compreso la clausola di cui all’art. 7 del contratto » ( ibidem ). Per contro, continua parte ricorrente, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare: ( i ) la premessa del contratto preliminare, nella quale si legge che la RAGIONE_SOCIALE aveva manifestato il suo « interesse all’acquisto della quota parte di produzione RAGIONE_SOCIALE Bright in possesso della RAGIONE_SOCIALE allo scopo di aumentare complessivamente la quota complessiva di produzione di essa associazione di produttori, allo scopo di cedere ai propri soci che ne l’interesse » (v. pag. 22 del ricorso); ( ii ) la condizione sospensiva, di cui all’art. 4 del preliminare, posta nell’esclusivo interesse della parte promittente l’acquisto, di convalida per adesione, che pure fa riferimento alla cessione delle quote; e ( iii ) la clausola di cui all’art.
6 stesso preliminare, che nel regolare l’efficacia parziale del contratto, stabilisce che « qualora la condizione sospensiva si verifichi parzialmente (…) con conseguente assegnazione -in favore de RAGIONE_SOCIALE -per l’anno 2005 di quota di produzione comunque inferiore al numero di quello oggetto della presente scrittura, sarà facoltà esclusiva della FAT a suo insindacabile giudizio optare per la conclusione parziale del contratto (…) ovvero per l’inefficacia totale del contratto » ( ibidem ).
Da tali premesse parte ricorrente deduce che il contratto avesse ad oggetto unicamente le ‘quote’ di produzione del raccolto del 2005, e non anche i ‘diritti’ ancora da attribuire alla parte promittente cedente.
Quanto alla dichiarazione del 30.3.2005, la parola ‘diritti’ ivi menzionata non poteva assumere la valenza ritenuta dalla Corte distrettuale, perché tali diritti erano solo quelli che sarebbero stati eventualmente riconosciuti alla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE a fronte della quota di raccolto del 2005, e non tutti gli ulteriori premi di derivazione comunitaria che essa avrebbe percepito in virtù della sua qualifica soggettiva o per altre cause. I diritti e gli aiuti ceduti sono da riferire ai quantitativi trasferiti con i mod. TC1, giacché, diversamente, la dichiarazione anzidetta non avrebbe specificato i limiti quantitativi in relazione alle quote cedute e, soprattutto, non avrebbe collegato la dichiarazione ai contratti definitivi posti in essere mediante i mod. TC1, ma avrebbe riportato genericamente tutti i diritti (accoppiati o disaccoppiati) di qualsiasi natura e/o origine.
Secondo parte ricorrente ciò sarebbe ulteriormente dimostrato dalla circostanza che la dichiarazione sostitutiva fa riferimento al contratto definitivo (e non al preliminare), e che in essa si dichiara già assolto l’obbligo di cessione di quanto pattuito. Pertanto, conclude il motivo, è evidente che i diritti ivi menzionati « si
riferiscono ad eventuali diritti (titoli e/o altro) che potevano essere attribuiti -ma che di fatto non lo sono mai stati -ai titolari delle quote raccolto 2005 » (così, a pag. 23 del ricorso).
1.1. – Il motivo è inammissibile, poiché scherma -attraverso la censura di violazione delle regole d’ermeneutica contrattuale una critica di puro merito all’interpretazione operata dalla Corte territoriale.
1.2. -La giurisprudenza di questa Corte è costante nell’affermare che: a ) la parte che ha proposto una delle opzioni ermeneutiche possibili di una clausola contrattuale non può contestare, in sede di giudizio di legittimità, la scelta alternativa alla propria effettuata dal giudice del merito (v. fra le tante, le nn. 18214/24, 11254/18 e 27136/17); pertanto, b ) per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (n. 24539/09; conformi, nn. 6125/14 e 16254/12); c ) le norme del codice civile sull’interpretazione dei contratti si distinguono in due gruppi: il primo, che comprende gli artt. 13621365, regola l’interpretazione soggettiva (o storica) del contratto, in quanto tende a porre in luce la concreta intenzione comune delle parti; il secondo, costituito dagli artt. 1366-1370 disciplina l’interpretazione oggettiva, così detta perché tende ad eliminare ambiguità e dubbi (v. n. 666/79 e precedenti conformi); d ) nell’interpretazione del contratto, il primo strumento da utilizzare è il senso letterale delle parole e delle espressioni adoperate, mentre soltanto se esso risulti ambiguo può farsi ricorso ai canoni
strettamente interpretativi contemplati dall’art. 1362 all’art. 1365 c.c. e, in caso di loro insufficienza, a quelli interpretativi integrativi previsti dall’art. 1366 c.c. all’art. 1371 c.c. (n. 6444/25); e ) posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (n. 9461/21); f ) la comune intenzione dei contraenti deve essere ricercata avendo riguardo al senso letterale delle parole, da verificare alla luce dell’intero contesto negoziale ai sensi dell’art. 1363 c.c., in coerenza con la ragione pratica o causa concreta, escludendo interpretazioni cavillose deponenti per un significato in contrasto con gli interessi che le parti hanno voluto tutelare mediante la stipulazione negoziale (cfr. nn. 8940/24 e 7927/17).
1.2.1. – Nella specie, varie considerazioni escludono la dedotta violazione dei canoni ermeneutici di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., disvelando il carattere di puro merito della censura in oggetto.
La Corte d’appello ha primariamente affidato la propria interpretazione proprio al dato letterale, attribuendo alle parole ‘quote’ e ‘diritti’ ceduti un significato coerentemente diverso e tutt’altro che contro -letterale (v. quanto riportato supra in parte
narrativa, alle pag. 4 e 5). Essa ha distinto, infatti, tra aiuti relativi alla parte c.d. accoppiata e aiuti inerenti alla parte c.d. disaccoppiata, riferendo soltanto a questi ultimi il sostantivo ‘diritti’ e il sintagma ‘titoli agli aiuti’ (v. pag. 16 sentenza impugnata).
Tant’è che parte ricorrente, per sostenere la propria critica, non svolge un contro-ragionamento di tipo propriamente storicosoggettivo, ma sostiene che la diversificazione tra sistema di aiuti c.d. accoppiato (intendi, alla produzione effettiva di RAGIONE_SOCIALE) e sistema di aiuti c.d. disaccoppiato (cioè di sostegno all’azienda RAGIONE_SOCIALE indipendentemente dal tipo di produzione praticata) « è stata introdotta in Italia successivamente alla stipula del preliminare, con il reg. n. 795/2005 del 21.04.2005 [ rectius , reg. n. 795/2004 del 21.4.2004: n.d.r.) e il D.L. del 09 settembre 2005, convertito con legge n. 231 dell’11 novembre 2005, attuativo dei Reg. comunitari innanzi richiamati » (così, testualmente, a pag. 21 del ricorso). E da tale premessa inferisce che solo quest’ultimo provvedimento avrebbe consentito la cessione dei ‘titoli all’aiuto’, mentre nessuna clausola del preliminare menziona gli ipotizzati ‘diritti’ ancora da attribuire alla parte promittente cedente.
Si tratta, però, di un argomento sotto più profili fallace, atteso che: a ) il preliminare del 16.2.2005, così come accertato nella sentenza impugnata, da un lato menziona l’allora già emanato reg. CE n. 1782/03 del 29.9.2003, e dall’altro rinvia proprio alla riforma dell’OCM RAGIONE_SOCIALE ‘in corso di emanazione’ (v. pagg. 2 e 15 della sentenza impugnata); b ) mentre gli artt. da 1362 a 1365 c.c. regolano l’interpretazione soggettiva o storica, la critica posta a base del motivo di ricorso scaturisce da una deduzione logica di tipo oggettivo-conservativo, riconducibile semmai alla regola ermeneutica di cui all’art. 1367 c.c.; c ) tale deduzione è per di più erronea per l’infondatezza della sua premessa, atteso che già il reg.
CE n. 1782/03 (recante norme comuni relative ai regimi di sostegno diretto nell’ambito della politica RAGIONE_SOCIALE comune e che istituisce taluni regimi di sostegno a favore degli agricoltori, modificando i regolamenti precedenti in materia), anteriore alla vicenda in esame, prevede « la transizione del sostegno dal prodotto al produttore, introducendo un sistema di sostegno disaccoppiato del reddito di ciascuna azienda » (v. 24° considerando), e disciplina la cessione ad altro agricoltore dello stesso Stato membro dei diritti all’aiuto, con o senza terra e a titolo oneroso o mediante qualsiasi altro trasferimento definitivo (all’art. 46, primo e secondo comma); d ) ancora, il reg. CE n. 795/04 (anch’esso anteriore al preliminare), adottato dalla Commissione il 21 aprile 2004, recante le modalità di applicazione del regime di pagamento unico di cui al reg. CE n. 1782/03, all’art. 25 ne dettaglia il trasferimento e il calcolo ai fini del secondo comma dell’art. 46 del reg. CE n. 1782/03; e infine, e ) è valida la vendita avente ad oggetto un bene futuro (art. 1472 c.c.).
1.2.2. – In secondo luogo, la Corte umbra ha fondato la propria decisione non già sul solo testo del contratto preliminare del 16.2.2005 e dei successivi atti di cessione delle quote attuati mediante l’impiego dei mod. TARGA_VEICOLO, ma anche e soprattutto sulla dichiarazione in data 30.3.2005. Quest’ultima è stata valutata dalla Corte d’appello quale ‘riconoscimento’ di un’obbligazione che la stessa parte oblata dà per adempiuta (tale è il senso della frase, un po’ contorta, che si legge ai righi 5 -6 di pag. 16 della sentenza impugnata), e rientra nella cornice di riferimento comune alle parti (come si desume già da pag. 2 di detta sentenza). Ne deriva che detta dichiarazione nella logica motivazionale della sentenza impugnata assume, ai sensi dell’art. 1362, cpv. c.c., il valore di comportamento complessivo posteriore alla conclusione del contratto preliminare. E in tal senso essa va intesa, così dovendosi
correggere, in applicazione dell’art. 384, ult. comma, c.p.c., la motivazione (che impropriamente parla di riconoscimento).
Infine, neppure è ammissibile la tesi finale per cui la dichiarazione del 30.3.2005, nel richiamare « tutti i diritti e gli aiuti comunitari relativi alla produzione di RAGIONE_SOCIALE (…) ovviamente per i quantitativi ceduti » (v. pag. 22 del ricorso), riguarderebbe solo il già concluso ed eseguito contratto definitivo, e non il preliminare, per cui la suddetta espressione si riferirebbe « ad eventuali diritti (titoli e/o altro) che potevano essere attribuiti -ma che di fatto non lo sono mai stati -ai titolari delle quote raccolto 2005 » (così, a pag. 23 del ricorso). Infatti, detta affermazione suggerisce un’interpretazione alternativa e in astratto possibile, ma non per questo idonea a confutare il diverso avviso espresso dal giudice di merito, non sindacabile in questa sede per quanto innanzi premesso.
Non solo, ma detto assunto, nel parcellizzare una vicenda contrattuale che la Corte d’appello ha giudicato, invece, in senso complessivo e unitario, fa mostra di porsi in singolare antitesi proprio alle regole ermeneutiche (artt. 1362 e 1363 c.c.) che il motivo asserisce violate.
– Col secondo motivo di ricorso è allegata, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., la violazione degli artt. 46, secondo comma, reg. CE n. 1782/03, 12 e 17 reg. CE n. 795/04, nonché la «( n ) ullità dell’eventuale impegno di trasferimento », ed ancora la violazione degli artt. 1344 e 1346 c.c., e la contraddittorietà ed apparenza della motivazione della sentenza impugnata, in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., per violazione dell’art. 132 c.p.c.
Sostiene parte ricorrente che le norme euro-unitarie sopra richiamate prevedono che l’agricoltore ‘ può trasferire i suoi diritti all’aiuto senza terra soltanto dopo aver utilizzato, ai sensi dell’art. 44, almeno l’80% dei suoi diritti all’aiuto per almeno un anno civile,
oppure dopo aver ceduto volontariamente alla riserva nazionale tutti i diritti all’aiuto non utilizzati nel primo anno di applicazione del regime di pagamento unico ‘. Appare evidente prosegue il motivo -che ove pure si volesse ammettere che la cessione dei c.d. titoli abbia formato oggetto dell’accordo, la normativa anzidetta ne vieta il trasferimento nel primo anno della loro istituzione/attribuzione. Pertanto, il contratto preliminare del 16.2.2005 sarebbe nullo (intendi, per violazione di norma imperativa: n.d.r.) almeno nella parte avente ad oggetto la cessione dei c.d. titoli, e « certamente non (potrebbe) considerarsi sanato dalla circostanza che il tempo ha sanato tale nullità per mancata previsione del termine di esecuzione del contratto, in quanto, così procedendo si determinerebbe una netta alterazione dei principi di legge e, sostanzialmente, rappresenterebbe un artificio attraverso il quale verrebbero a generarsi profitti in forza di un atto illecito ab origine » (così, testualmente, a pag. 24 del ricorso).
L’affermazione della sentenza impugnata, secondo cui l’obbligo di trasferire i diritti all’aiuto ben potrebbe interpretarsi, in senso letterale e secondo il canone di buona fede, come operante una volta che la cessione fosse divenuta possibile, violerebbe l’art. 1346 c.c., per illiceità dell’oggetto, o in ogni caso risulterebbe in frode alla legge, ai sensi dell’art. 1344 c.c., e contraria all’art. 1183 c.c., in base al quale se non è determinato il tempo in cui la prestazione va eseguita, questa è immediatamente esigibile.
Di conseguenza, tale vizio del contratto, per il suo carattere genetico, non potrebbe venir meno a partire dal secondo anno successivo alla percezione dei titoli. « A tutto si aggiunga » prosegue parte ricorrente « che, in relazione a tale argomentazione, la Corte d’Appello ha deciso sulla base di una motivazione illogica e, comunque, non adeguata che consente, quindi, una nuova
valutazione del materiale probatorio da parte degli COGNOME » (così, testualmente, si legge a pag. 25 del ricorso).
Infine, il motivo richiama giurisprudenza di questa Corte sulla nullità della sentenza di merito basata su motivazione apparente, inidonea ad esplicitare il convincimento del giudice, non autosufficiente e non atta a realizzare alcuna forma virtuosa di rinvio per relationem alla pronuncia di primo grado.
2. – Il motivo è inammissibile.
In disparte: a ) la manifesta erroneità dell’assunto per cui la nullità della sentenza di merito, per difetto del minimo motivazionale esigibile ai sensi dell’art. 111, sesto comma, Cost., consentirebbe a questa Corte suprema ‘una nuova valutazione del materiale probatorio’ ( sic , a pag. 25 del ricorso), il che contrasta frontalmente con la funzione del giudice di legittimità e mostra di equivocare il senso e i limiti entro cui è possibile la pronuncia sostitutiva ex art. 384, secondo comma, seconda ipotesi, c.p.c.; e b ) il fatto che omessa o apparente è la motivazione sostanzialmente apodittica o incomprensibile, non anche quella non soddisfacente, essendo venuto meno dal 2012 il controllo di legittimità sulla sufficienza motivazionale (giurisprudenza nota e pacifica di questa Corte a S.U.: v. nn. 14995/24 e 8053/14); tutto ciò a parte, il mezzo è inammissibile, perché di proprio impulso connette alla sentenza impugnata norme e principi che la Corte perugina ha ritenuto, invece, non rilevanti in virtù di un’interpretazione contrattuale che ne esclude l’ambito applicativo.
Giova premettere, in particolare, che l’art. 46 reg. CE n. 1782/03 al secondo paragrafo dispone che tranne il caso di forza maggiore o di circostanze eccezionali come previsto nell’articolo 40, paragrafo 4, un agricoltore può trasferire i suoi diritti all’aiuto senza terra soltanto dopo aver utilizzato, ai sensi dell’articolo 44, almeno l’80% dei suoi diritti all’aiuto per almeno un anno civile, oppure
dopo aver ceduto volontariamente alla riserva nazionale tutti i diritti all’aiuto non utilizzati nel primo anno di applicazione del regime di pagamento unico.
Orbene, la pronuncia d’appello non afferma affatto che la nullità del trasferimento dei titoli anteriormente al primo anno di utilizzazione degli aiuti sia ‘sanata’, grazie a un meccanismo di validazione successiva, una volta che tale termine sia decorso. Al contrario, partendo da un’interpretazione letterale e ritenuta conforme al canone di buona fede, la Corte d’appello sostiene che le parti avevano inteso trasferire i diritti all’aiuto quando la loro cessione fosse stata consentita. Si legge testualmente: « Nulla per violazione di detta disposizione potrebbe semmai essere la cessione riconosciuta nella dichiarazione sostitutiva del 30-3-2005 perché avvenuta quando la cessione dei titoli non era consentita. Ma detta cessione (…) non c’è in effetti stata. L’impegno alla cessione, che invece come s’è detto c’è stato, non può essere considerato nullo perché non era previsto per la cessione avvenisse entro il 2006 . Non c’è alcuna qualificazione temporale della promessa cessione degli aiuti, sicché l’impegno ben può intendersi valere secondo un’interpretazione letterale (art. 1362 c.c.), prima ancora che di buona fede ex art. 1366 c.c. (…) quando la cessione dei diritti in questione fosse stata possibile ». Pertanto, « l’impossibilità ai sensi della disposizione sopra richiamata della cessione dei diritti in questione nell’anno 2006 importa che l’inadempimento della convenuta può essere affermato, contrariamente all’opinione del primo giudice, solo a partire dal 2007 » (così a pag. 17 della sentenza impugnata).
Pertanto, avendo la Corte d’appello escluso che siano stati oggetto di cessione i diritti all’aiuto anteriori al 2007, cioè proprio quelli per i quali soltanto avrebbe potuto operare il divieto di cui
all’art. 46 del reg. CE n. 1782/03, il richiamo alla pretesa violazione degli artt. 1346, 1344 e 1183 c.c. non è pertinente alla ratio decidendi , onde -come premesso -l’inammissibilità del mezzo.
– Il terzo motivo allega la nullità della sentenza impugnata, in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., nella parte in cui questa ha pronunciato la risoluzione del contratto preliminare del 16.2.2005, non oggetto di domanda giudiziale.
La violazione dell’art. 112 c.p.c., sostiene parte ricorrente, emerge limpidamente dall’analisi congiunta degli atti processuali, ed in particolare dal confronto tra la domanda, così come cristallizzata nella memoria di cui all’art. 183, sesto comma, c.p.c., e la decisione e la motivazione della sentenza impugnata. Mentre nell’atto introduttivo del giudizio gli attori avevano chiesto ‘la risoluzione dei contratti’ ai sensi dell’art. 1454 c.c. o dell’art. 1453 c.c., nella predetta memoria essi avevano precisato che la domanda era tesa ad ottenere la risoluzione per inadempimento ex artt. 1454 c.c., ovvero ex art. 1453 c.c., dei singoli contratti definitivi di cessione quote (c.d. mod. TC1 sottoscritti il 15.3.2005), nel senso che l’aver posto l’accento sul preliminare datato 16.2.2005 era da intendersi quale passaggio logico-giuridico per comprendere la successione dei fatti. Pertanto, posto che la parte attrice aveva esplicitamente inteso domandare la risoluzione dei soli contratti definitivi e mai, invece, del preliminare che li aveva generati, la soluzione accolta nella sentenza impugnata, per cui il contratto definitivo di cessione delle quote per il parziale adempimento del preliminare è destinato a essere risolto con la risoluzione di quest’ultimo, viola il principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
3.1. Il motivo è inammissibile, sia perché mal cela anch’esso delle censure di puro merito, sia perché disattende, senza alcuna plausibile ragione di contrasto in punto di diritto -così incorrendo
nella sanzione di cui all’art. 360 -bis , n. 1), come (re)interpretato da S.U. n. 7155/17 -tre noti e tra loro interdipendenti indirizzi di questo S.C.
E cioè: a ) in sede di legittimità occorre tenere distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda, o la pronuncia su una domanda non proposta, dal caso in cui si censuri l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda stessa: solo nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell’art. 112 c.p.c., per mancanza della necessaria corrispondenza tra chiesto e pronunciato, prospettandosi che il giudice di merito sia incorso in un error in procedendo , in relazione al quale la Corte di Cassazione ha il potere-dovere di procedere all’esame diretto degli atti giudiziari, onde acquisire gli elementi di giudizio necessari ai fini delle pronuncia richiestale; nel caso in cui venga invece in considerazione l’interpretazione del contenuto o dell’ampiezza della domanda, tali attività integrano un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (n. 20373/08); b ) l’interpretazione data dal giudice di merito alla domanda o alla sua estensione non è sindacabile in sede di legittimità con la deduzione, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., della violazione dell’art. 112 c.p.c., ma unicamente sotto il profilo del vizio della motivazione e nei ristretti limiti del vigente art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. (v. n. 34762/24); e c ) nell’interpretare la domanda giudiziale, il giudice non è condizionato dalle formali parole utilizzate dalla parte, ma deve tener conto senza rigidi formalismi dell’intero contesto dell’atto, senza alterarne il senso letterale però, allo stesso tempo, valutando la formulazione testuale e il contenuto sostanziale della domanda in relazione alla effettiva finalità che la parte intende perseguire (nn. 21208/05, 17547/10, 4227/17 e
19435/18). In altri e corrispondenti termini, è stato affermato che il giudice del merito, nell’indagine diretta a individuare il contenuto e la portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante (nn. 9909/25, 19002/17 e 21087/15).
Nella specie la Corte distrettuale ha affermato (valorizzando soprattutto il contenuto della citazione di primo grado) che la domanda era intesa a risolvere il preliminare del 16.2.2005 e i successivi atti definitivi di cessione (v. pag. 7 sentenza impugnata), atteso che « la risoluzione per inadempimento riguarda anzitutto il contratto preliminare, per non avere la convenuta adempiuto alla sua promessa di cessione, e che la risoluzione dei contratti di cessione delle quote non è dovuto ad inadempimento di obbligazioni sorte da questi contratti, ma è conseguenza della risoluzione del preliminare », essendo inscindibili i due impegni traslativi assunti dalla società convenuta (v. pag. 9 sentenza impugnata).
Si tratta di un’interpretazione logica e comprensibile della domanda, che individuandone la causa petendi proprio nella non compiuta attuazione del programma obbligatorio negoziato nel contratto preliminare (questo avendo ad oggetto sia gli aiuti c.d. accoppiati che quelli c.d. disaccoppiati), considera oggetto della richiesta risoluzione l’intero accordo, nella sua componente sia preliminare che definitiva.
Detto esito interpretativo, pertanto, non è sindacabile in questa sede di legittimità quale vizio di ultra o extrapetizione.
Col quarto mezzo è dedotta, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., la violazione degli artt. 1455 e 2697 c.c., e dell’art. 116
c.p.c., per l’irrilevanza dell’inadempimento de RAGIONE_SOCIALE, e ancora il difetto assoluto di motivazione ai sensi dell’art. 132, n. 4 c.p.c., in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c.
Secondo parte ricorrente la motivazione della sentenza impugnata non consente di comprendere le ragioni di fatto per cui la cessione degli aiuti, al di là della loro consistenza, avrebbe costituito la prestazione essenziale a carico della società convenuta. In particolare, prosegue il motivo, non vi sarebbe traccia di accertamento sia della gravità dell’asserito inadempimento, ai sensi dell’art. 1455 c.c., sia in ordine alla mancata statuizione sulla restituzione delle quote, raccolto 2005 e/o equivalente in denaro e degli importi per gli anni 2006 a seguire percepiti dagli attori a titolo di parte accoppiata, in virtù delle quote raccolto 2005 regolarmente trasferite. La Corte d’appello non avrebbe tenuto conto che la prestazione è stata adempiuta per la maggior parte o comunque nella sua parte ‘necessaria ed essenziale’, non potendo il giudizio sulla non scarsa importanza dell’inadempimento essere affidato, secondo la giurisprudenza di questa Corte (n. 14929/12), al solo rapporto di valore tra obbligazione inadempiuta e prestazione complessiva, ed essendo pregiudicato l’interesse del creditore solo se è inadempiuta un’obbligazione principale e non già secondaria (n. 4022/18).
Nella specie, prosegue il motivo, l’obbligazione di cedere la parte c.d. disaccoppiata degli aiuti aveva carattere accessorio e/o comunque eventuale, poiché non era scontato che detti titoli sarebbero stati in ogni caso attribuiti all’odierna ricorrente.
Quest’ultima, inoltre, lamenta ora il malgoverno dell’art. 116 c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe posto a base della decisione un fatto -l’obbligo di cessione dei c.d. titoli contestato dalla RAGIONE_SOCIALE convenuta; ora l’esito distorto dell’interpretazione degli atti di causa, in violazione altresì degli art. 115 c.p.c. e 2697 c.c.,
non avendo i giudici d’appello considerato che RAGIONE_SOCIALE aveva regolarmente adempiuto l’obbligazione di trasferire le quote dell’anno 2005, ossia la parte c.d. accoppiata degli aiuti comunitari.
4.1. – Il motivo è manifestamente inammissibile, anche in tal caso perché mira a contestare accertamenti di fatto insuscettibili di verifica in sede di legittimità, in totale obliterazione di noti orientamenti di questa Corte.
Ed infatti, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c. (nn. 26739/24 e 26769/18).
A sua volta, poi, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. può configurarsi solo ove il giudice abbia disatteso prove legali, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, o al contrario abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (nn. 6774/22, 1229/19 e 27000/16).
Infine, il giudizio sulla gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive, ai sensi dell’art. 1455 c.c., si sostanzia in una quaestio facti la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del
merito (nn. 12182/20 e 6401/15), essendo, invece, sindacabile il giudizio di non scarsa importanza dell’inadempimento se espresso in termini astratti o, comunque, incompatibili con le emergenze di causa (intendi: come ricostruite dal giudice di merito) (cfr. n. 13784/24).
Nello specifico non ricorre nessuna delle prospettate violazioni.
Non quella degli artt. 2697 c.c. e 115-116 c.p.c., perché la Corte d’appello non ha né invertito gli oneri probatori, né dato per pacifici fatti non contestati o ammesso mezzi istruttori non consentiti, né ha valutato come aventi efficacia legale prove suscettibili di apprezzamento o viceversa.
Non quella dell’art. 1455 c.c. Infatti, una volta accertato che oggetto della cessione erano stati anche i diritti all’aiuto, e non solo le quote, la Corte perugina ha collegato il giudizio di non scarsa importanza dell’inadempimento al fatto che si trattava di prestazione essenziale secondo il nesso sinallagmatico, poiché senza la cessione anche degli aiuti il prezzo di trasferimento delle quote sarebbe risultato fuori mercato (v. pag. 18 sentenza impugnata).
5. – Col quinto motivo è censurata la violazione degli artt. 1458 e 1464 c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., per aver la Corte d’appello dichiarato la risoluzione dell’intero contratto preliminare nonostante l’inadempimento avesse riguardato un’obbligazione RAGIONE_SOCIALE e scindibile.
Sostiene parte ricorrente, richiamando giurisprudenza di questa Corte (n. 16556/13), che la risoluzione parziale, ammessa dall’art. 1458 c.c. per i contratti ad esecuzione continuata o periodica, deve ritenersi possibile anche nell’ipotesi di contratto ad esecuzione istantanea quando esso abbia ad oggetto non già una sola cosa non frazionabile, ma più cose aventi una propria individualità, quando cioè, ciascuna di esse, anche se separata dal tutto, mantenga una
propria autonomia economico-funzionale, che la renda come bene a sé stante e come possibile oggetto di diritti o di RAGIONE_SOCIALE negoziazione.
Nella specie -prosegue la doglianza -l’oggetto contrattuale era duplice, ossia le quote 2005 e i titoli all’aiuto successivi, questi ultimi subordinati alla riforma dell’OCM RAGIONE_SOCIALE e, in ogni caso, sottoposti ad esecuzione differita. Di conseguenza la risoluzione avrebbe dovuto essere limitata alla sola cessione dei titoli, lasciando intatta quella delle quote.
5.1. – Il motivo è inammissibile.
È fermo indirizzo di questa Corte che qualora una questione giuridica -implicante un accertamento di fatto -non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (v. ex multis , nn. 3473/25, 18018/24, 20694/18 e 15430/18).
Dalla sentenza impugnata non si ricava che le parti abbiano discusso circa la possibilità d’una risoluzione parziale dei contratti in questione, nel senso di limitarne lo scioglimento alla vendita degli aiuti c.d. disaccoppiati. L’art. 1458 c.c. vi è menzionato solo allorché, nell’affermare legittima la diffida a adempiere, la Corte d’appello si è limitata a correggere la motivazione della sentenza di primo grado, nella parte in cui quest’ultima, nel pronunciare la risoluzione ai sensi dell’art. 1454 c.c., ne aveva erroneamente ritenuto l’efficacia ex nunc e non ex tunc , quest’ultima essendo
esclusa, in via d’eccezione, solo per i contratti ad esecuzione continuata o periodica (v. pagg. 18-19 sentenza impugnata).
In senso contrario all’esistenza d’un dibattito sulla risoluzione parziale non depone il giudizio d’inscindibilità delle due obbligazioni traslative espresso dalla Corte distrettuale. Operato nell’ambito della trattazione del motivo di gravame col quale l’appellante aveva censurato la sentenza di primo grado per difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (v. punto 3.a. della sentenza impugnata, pagg. 7 e ss.), tale giudizio ha condotto i giudici d’appello sia a negare la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., coprendo la richiesta risoluzione l’intero programma negoziale reso dalla sequenza preliminare/definitivi, sia ad affermare il diritto degli odierni controricorrenti di rifiutare l’adempimento parziale del contratto preliminare (v. pagg. 9-10 sentenza impugnata). Ma al di là dell’erroneo riferimento di tale ultima nozione ad obbligazioni soggette ad esecuzioni tra loro differite, ciò non dimostra affatto che in appello si sia discusso (in via logicamente gradata e subordinata rispetto ai temi principali) della questione. Dipendendo dall’autonomia economico -giuridica dell’oggetto di più prestazioni, la risoluzione parziale predica altro, vale a dire la possibilità di scindere quoad effectum vicende funzionali diverse, ancorché scaturenti da una programmazione contrattuale unica o valutata come unitaria.
Ciò posto, né il motivo in esame né la narrativa del ricorso indicano in qual modo la questione sia stata posta in appello. Sintetizzate alle pagg. 13-14 del ricorso, le censure avanzate in sede di gravame trattavano d’altro, e cioè: a ) la violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; b ) l’obbligazione di cedere i c.d. titoli o diritti all’aiuto; c ) la valutazione della dichiarazione sostitutiva di notorietà del 30.3.2005; d ) la nullità della previsione di tale obbligo; e ) la
mancata prova della gravità del relativo inadempimento; f ) l’ammontare delle somme da restituire; g ) il profilo probatorio inerente al chiesto risarcimento da lucro cessante.
6. Il sesto motivo deduce, in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c., per avere la Corte d’appello riconosciuto la sussistenza del danno pur in assenza di allegazioni probatorie al riguardo, e dell’art. 115 c.p.c., in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., per aver il collegio ritenuto pacifici dati contenuti nella relazione del consulente di parte. Sostiene parte ricorrente che nella ricostruzione della sentenza non definitiva impugnata il danno subìto dagli attori è da commisurare al mancato percepito profitto dei titoli, costituente l’interesse positivo e, dunque, il lucro cessante, la cui sussistenza era subordinata: a ) dagli artt. 3 e 5 del reg. CE n. 1782/03, alla c.d. condizionalità nella conduzione RAGIONE_SOCIALE, esplicitata con circolare AGEA come insieme delle norme e delle regole che le aziende agricole devono rispettare per accedere al regime di pagamento unico, la corretta gestione agronomica dei terreni, il mantenimento di livelli di sostanza organica del suolo, il livello minimo di mantenimento dell’ecosistema, la salvaguardia della salute e del benessere degli animali, evitando il deterioramento dell’ habitat ; b ) dall’allegato 8 del reg. CE n. 796/04 ai requisiti dell’essere coltivatore, esercitare un’attività RAGIONE_SOCIALE, detenere titoli all’aiuto e dichiarare superfici ammissibili, su cui ‘appoggiare’ i titoli stessi.
La qualificazione del danno e la prova di tutti i suddetti requisiti -e segnatamente la disponibilità di terreni agricoli su cui appoggiare i titoli -dovevano essere fornite dagli attori e non già ritenute dalla Corte territoriale in via presuntiva, affidandone, poi, la quantificazione al c.t.u., così da sorvolare sulla fondatezza della pretesa. La stessa Corte d’appello ha affermato che non era certo che gli attori avessero effettivamente diritto ad un risarcimento,
tanto da rimetterne l’accertamento al c.t.u. sui dati affermati come pacifici tra le parti, che però risultano essere solo quelli relativi alle quote cedute e alla normativa euro-unitaria applicabile.
6.1. – Il motivo è infondato.
Richiamato quanto già espresso al par. 4.1. sulla violazione degli artt. 2697 c.c. e 115 c.p.c., va osservato che con la sentenza non definitiva n. 716/19 la Corte umbra si è limitata ( i ) ad affermare la possibilità del danno e la relativa parametrazione (su cui v. infra ), per poi ( ii ) rimettere la causa in istruttoria ( iii ) al fine di nominare un c.t.u. per l’accertamento del c.d. interesse positivo.
Tale pronuncia è sotto tutti e tre i profili appena evidenziati compatibile con la giurisprudenza di questa Corte. Infatti: a ) ai fini della pronuncia di una condanna generica, ai sensi dell’art. 278 c.p.c., non occorre la prova certa di un danno, essendo sufficiente, invece, il mero accertamento della sussistenza di condizioni di fatto potenzialmente causative di effetti pregiudizievoli. Ne consegue che il giudicato formatosi su una condanna generica non impedisce che il giudice chiamato a liquidare il danno possa, nel caso concreto, negarne l’esistenza (v. n. 8729/23); b ) nell’ipotesi in cui con la domanda iniziale sia stata richiesta una condanna specifica, ai fini della scissione del giudizio sull’ an da quello sul quantum , occorre distinguere a seconda che essa avvenga all’interno dello stesso processo, o dia invece luogo a due diversi processi, in quanto solo nell’ultimo caso la scissione richiede l’istanza dell’attore ed il consenso del convenuto mentre, nel primo, la separazione può essere disposta, senza l’adesione della parte, anche d’ufficio, non determinandosi alcun vulnus dei principi generali del giusto processo. Tuttavia, in entrambe le ipotesi l’attore ha l’onere d’indicare i mezzi di prova dei quali intende avvalersi per la determinazione del quantum , incorrendo altrimenti nel rigetto della domanda se non adeguatamente provata (v. n. 9404/11); c ) è vero
che la consulenza tecnica d’ufficio non è propriamente un mezzo di prova (non a caso il codice di rito prevede la nomina del ‘consulente’ e non l’ammissione della ‘consulenza’) e che essa non può essere effettuata a fini puramente esplorativi, esonerando la parte onerata di fornire la dimostrazione del proprio diritto (cfr. ex pluribus e per tutte, la n. 8498/25); tuttavia è altrettanto assodato nella giurisprudenza di questa Corte che la decisione di ricorrere o meno ad una consulenza tecnica d’ufficio costituisce un potere discrezionale del giudice, il quale, tuttavia, è tenuto a motivare adeguatamente il rigetto dell’istanza di ammissione proveniente da una delle parti, dimostrando di poter risolvere, sulla base di corretti criteri, i problemi tecnici connessi alla valutazione degli elementi rilevanti ai fini della decisione, senza potersi limitare a disattendere l’istanza sul presupposto della mancata prova dei fatti che la consulenza avrebbe potuto accertare. Pertanto, nelle controversie che, per il loro contenuto, richiedono si proceda ad un accertamento tecnico, il mancato espletamento, specie a fronte di una domanda di parte, costituisce una grave carenza nell’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che si traduce in un vizio della motivazione della sentenza (v. per tutte n. 13038/24).
Di riflesso, allorché la prova del diritto controverso dipenda dall’accertamento di fatti ad elevato tasso tecnico non solo nella loro valutazione, ma anche nella loro stessa esatta percezione, rettamente il giudice di merito ne affida la verifica ad un consulente. Questi opera in funzione sia deducente che percipiente, senza che perciò risulti sovvertito il criterio di riparto degli oneri probatori stabilito dall’art. 2697 c.c.
Nello specifico, la stessa parte ricorrente deduce a condizione d’esistenza del dibattuto credito risarcitorio fatti dipendenti da giudizi critici di natura agronomica, a loro volta innestati nella
normativa euro-unitaria, per cui legittimamente la Corte di merito ha ritenuto di ricorrere alla nomina di un c.t.u.
– Il settimo motivo di ricorso enuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226 e 1453 c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., per non avere la Corte territoriale escluso la risarcibilità del danno successivo alla domanda di risoluzione. Richiamate Cass. nn. 11012/18 e 1641/89, parte ricorrente conclude nel senso che, essendo stata notificata la domanda il 6.10.2008, la Corte di merito avrebbe dovuto escludere dal lucro cessante, oltre all’anno 2006, anche i guadagni che sarebbero maturati dal 2008 in poi.
7.1. – Il motivo è ammissibile e fondato.
7.1.1. Ammissibile, in virtù dell’effetto espansivo interno, di cui all’art. 336, primo comma, c.p.c. Infatti, il capo della sentenza di primo grado relativo al quantum del risarcimento è stato riformato in appello perché « la parte non inadempiente non può ottenere insieme la liberazione dalla propria prestazione (…) e, sotto forma di risarcimento, la prestazione dell’altra parte » (v. pag. 24 sentenza non definitiva d’appello). La riforma di tale capo della sentenza di prime cure, che parificava il risarcimento da risoluzione contrattuale all’importo dei titoli non percepiti dal soggetto non inadempiente, si estende alla parte di pronuncia che vi includeva anche quelli maturati successivamente alla domanda giudiziale, questa parte dipendendo in senso logico-giuridico da quel capo.
7.1.2. – Fondato, perché il danno da risarcire al compratore, ove sia accolta la domanda di risoluzione del contratto di vendita per inadempimento del promittente venditore, non può comprendere i frutti della cosa successivi alla domanda di risoluzione perché questa, comportando la rinuncia definitiva alla prestazione del venditore (art. 1453, comma 3, c.c.), preclude anche all’acquirente di lucrare i frutti che dalla cosa avrebbe tratto
dopo la rinuncia (cfr. n. 11012/18, emessa in relazione ad un’analoga fattispecie inerente ad un contratto preliminare di vendita).
8. – Il primo motivo di ricorso avverso la sentenza definitiva n. 714 del 2021 ne deduce la nullità, in relazione al n. 4 dell’art. 360 c.p.c., per aver la Corte d’appello emesso una pronuncia difforme dalle statuizioni contenute nella decisione non definitiva in punto di liquidazione degli obblighi restitutori e del quantum risarcitorio.
Sotto il primo aspetto, sostiene parte ricorrente, la Corte d’appello, facendo proprie le conclusioni del c.t.u., ha determinato gli importi da detrarre dall’obbligo di restituzione nel c.d. beneficio agronomico, in riferimento al solo anno 2005, e ha ritenuto di escludere totalmente gli importi percepiti a titolo di aiuti alla produzione negli anni 2006/2009, sul presupposto che tali somme non erano state riconosciute dal c.t.u., in quanto non effettivamente percepite dagli attori. Tale motivazione, prosegue il mezzo, appare insostenibile, dal momento che il riconoscimento della parte accoppiata alla produzione, da portare in detrazione sull’importo restitutorio, era già contenuto nella sentenza non definitiva, e non avrebbe potuto essere smentito dalla consulenza tecnica.
Sotto il secondo aspetto, la Corte distrettuale ha ritenuto di quantificare l’importo risarcitorio in misura corrispondente al valore economico dei c.d. titoli, percepito da RAGIONE_SOCIALE per gli anni 2007/2012, omettendo qualsiasi valutazione sull’incremento patrimoniale che i titoli stessi avrebbero apportato ai cessionari. L’omesso esame degli oneri economici necessari al fine della percezione degli importi comunitari collegati ai titoli non ceduti, ha comportato il medesimo risultato di cui alla condanna pronunciata dal Tribunale, nonostante l’accoglimento in parte qua del gravame. Infatti, con la sentenza non definitiva la Corte d’appello aveva
stabilito che in tema di risoluzione contrattuale per inadempimento il danno non può consistere nel valore della prestazione non eseguita -in aggiunta alla restituzione del prezzo -in quanto in tal modo si verrebbe a violare il principio della compensatio lucri cum damno .
Per contro, la sentenza definitiva, in ciò incorrendo nel medesimo errore della sentenza di primo grado, ha ritenuto che dovesse essere calcolato il valore delle prestazioni a carico della RAGIONE_SOCIALE convenuta che gli appellati avrebbero conseguito con l’esecuzione del contratto preliminare e che, invece, essi hanno perduto per effetto della risoluzione. Tale difformità tra la sentenza non definitiva e quella definitiva si risolve in un error in procedendo , consistente nella violazione del giudicato interno.
8.1. – Il motivo è fondato con riguardo alla liquidazione del risarcimento del danno da risoluzione contrattuale, siccome operata in difformità da quanto stabilito nella sentenza non definitiva.
È noto e fermo indirizzo di questa Corte che le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva non possono essere modificate o revocate con la sentenza definitiva, in quanto i singoli punti della prima possono essere sottoposti a riesame solo con le impugnazioni, mentre la non definitività concerne soltanto la non integralità della decisione della controversia, e non anche la modificabilità, da parte dello stesso giudice, di ciò che è già stato deciso (nn. 13621/14, 17038/16 e 2332/01). Ciò comporta che il giudice che ha emesso una sentenza non definitiva -anche se non passata in giudicato -resta da questa vincolato agli effetti della prosecuzione del giudizio davanti a sé in ordine sia alle questioni definite sia per quelle da queste dipendenti che debbono essere esaminate e decise sulla base dell’intervenuta pronunzia, a meno che questa sia stata riformata con sentenza passata in giudicato pronunziata a seguito di impugnazione immediata (la quale
rappresenta l’unico strumento per sottoporre a riesame le statuizioni contenute in una sentenza non definitiva: così, n. 4821/99).
Nel caso che qui ne occupa, la pronuncia n. 716/19 aveva stabilito che l’ammontare del danno da risoluzione contrattuale doveva essere ( i ) commisurato al differenziale tra il valore delle prestazioni ineseguite (pari alle quote di produzione e agli aiuti ceduti, con esclusione dell’obbligo per l’anno 2006) e la prestazione a carico degli attori, e ( ii ) ridotto, in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno , del vantaggio conseguito dalla risoluzione. In sintesi, il danno doveva essere liquidato nella misura della perdita della plusvalenza che gli attori avrebbero potuto ricavare dall’operazione economica.
Per contro, invece, con la sentenza definitiva n. 714/21 la Corte perugina, detratto il solo beneficio agronomico (cioè, il maggior ammontare di aiuti c.d. accoppiati ottenuti dagli attori in virtù del trasferimento delle quote), ha liquidato tale danno commisurandolo al totale degli importi che gli attori avrebbero ricevuto a titolo di aiuti se la RAGIONE_SOCIALE COGNOME avesse trasferito loro quella parte dei titoli ad essa attribuiti dalla riforma della PAC (Politica RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE), generata da quantitativi di RAGIONE_SOCIALE corrispondenti alle quote acquistate (v. pag. 7 della sentenza n. 714/21).
Siffatta liquidazione si discosta ad evidenza da quella stabilita nella sentenza non definitiva, perché individua una cifra (poi ripartita tra i vari attori) assoluta, e non il differenziale tra due valori, ossia il prezzo pagato dalla parte non inadempiente e il valore degli aiuti ceduti in via definitiva ove fossero stati oggetto di ulteriore negoziazione.
Tale discordanza, che nasce dal non aver la Corte distrettuale considerato la restituzione del prezzo pagato, non è giustificata dalla circostanza che la RAGIONE_SOCIALE cedente non abbia avanzato, in via
riconvenzionale subordinata, alcuna domanda restitutoria per l’ipotesi di accoglimento della domanda principale di risoluzione. Il risarcimento del danno ne prescinde del tutto, poiché è frutto, nella sua quantificazione, di un’operazione contabile officiosa, che in quanto tale non necessita né di contro-domande né di eccezioni di compensazione in senso proprio ex art. 1242, primo comma, c.c. (sul carattere officioso della compensazione c.d. impropria tra crediti e debiti originati da un medesimo rapporto, v. per tutte e da ultimo, n. 33872/22).
8.1.1. – Il medesimo primo motivo è infondato, invece, in relazione alla pretesa restitutoria.
La Corte territoriale ha escluso che dovessero essere dedotti dal totale risarcibile gli aiuti relativi alla parte c.d. accoppiata alla raccolta del 2005, perché giudicati riferibili alla produzione effettuata dagli stessi coltivatori acquirenti negli anni 2001-2002, e che aveva comportato la maturazione di titoli in loro favore.
Trattasi di un accertamento di fatto che, in quanto tale, si sottrae al sindacato di questa Corte.
– Il secondo mezzo avverso la sentenza definitiva denuncia, in relazione all’art. 4 dell’art. 360 c.p.c., la violazione dell’art. 161 c.p.c., per aver il c.t.u. esteso l’indagine tecnica oltre i limiti demandatigli, e dell’art. 132, n. 4 c.p.c., per aver la sentenza impugnata ‘fatto proprie le contraddizioni e violazioni di legge riportate nell’espletata CTU’.
Sostiene parte ricorrente che il c.t.u. e, di riflesso, la Corte territoriale, anziché attenersi a quanto stabilito dalla sentenza non definitiva e ai quesiti posti con l’ordinanza istruttoria del 18.11.2019, ha omesso di quantificare gli importi del premio accoppiato alla produzione per le annualità 2006/2012, percepiti dagli attori a fronte delle quote di coltivazione acquistate dalla RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE.
Deduce, inoltre, per quanto concerne il profilo risarcitorio che il danno risarcibile non è rappresentato dalla prestazione inadempiuta, in quanto la risoluzione importa la perdita del diritto a tale prestazione e non prospetta, quindi, un risarcimento inteso a surrogare nel patrimonio del danneggiato il valore del bene non più dovuto.
9.1. -L’esame di tale motivo è assorbito, perché sostanzialmente iterativo delle doglianze precedenti.
– Il terzo motivo di ricorso avverso la pronuncia non definitiva espone la violazione o falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226 e 1453 c.c., in relazione al n. 3 dell’art. 360 c.p.c., per avere la Corte d’appello liquidato come danno risarcibile il lucro cessante successivo alla domanda di risoluzione.
10.1. Anche tale mezzo è assorbito dall’accoglimento del pari motivo di cui supra al par. 7.1.2.
– Sulla base delle considerazioni svolte, sono accolti il settimo e il primo motivo proposti, rispettivamente, avverso la sentenza non definitiva e quella definitiva, respinti o assorbiti i restanti mezzi. Le predette due sentenze sono cassate in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P. Q. M.
La Corte accoglie il settimo e il primo motivo proposti, rispettivamente, avverso la sentenza non definitiva e quella definitiva, respinti o assorbiti i restanti mezzi, e cassa le predette due sentenze, in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Perugia, in diversa composizione, la quale provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 18.9.2025.
Il Presidente estensore NOME COGNOME