Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 25301 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 25301 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 20/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6603/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, elettivamente domiciliata in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME (CF: CODICE_FISCALE), che la rappresenta e difende
-Ricorrente –
Contro
COGNOME NOMENOME elettivamente domiciliato in INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato COGNOME NOME (CF: CODICE_FISCALE), che lo rappresenta e difende
-Controricorrente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di ROMA n. 7142/2022 depositata il 10/11/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 04/06/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
Ritenuto che:
La società RAGIONE_SOCIALE intimò a NOME COGNOME lo sfratto per morosità dell’immobile sito in INDIRIZZO, esponendo: (i) che con contratto verbale transitorio aveva concesso in locazione, a decorrere dal 1°/04/2017, al convenuto
l’appartamento sopra indicato per un corrispettivo mensile di euro 1.000,00; (ii) che a partire dal mese di aprile 2018 il convenuto aveva sospeso il versamento del corrispettivo convenuto, maturando la complessiva morosità, alla data di introduzione del giudizio, di euro 4.000,00.
La società attrice chiese quindi al Tribunale la convalida dello sfratto intimato per morosità e, in caso di opposizione, l’emissione dell’ordinanza di rilascio, oltre che di decreto ingiuntivo per canoni ed oneri condominiali scaduti e a scadere sino al rilascio; nel merito, parte attrice chiese al Tribunale di pronunciare sentenza di accoglimento della domanda giudiziale di sfratto per morosità mediante conferma dell’ordinanza di rilascio, e quindi con condanna del convenuto rilasciare l’appartamento in f avore della società istante libero e vuoto da cose o persone anche interposte.
L’intimante produsse copia delle ricevute di pagamento delle mensilità da aprile 2017 a marzo 2018, nonché copia di denuncia del contratto verbale di locazione concluso tra le parti all’RAGIONE_SOCIALE delle Entrate, acquisita il 6/09/2018.
Costituendosi in giudizio, NOME COGNOME svolse opposizione alla convalida di sfratto, ed eccepì che tra le parti non era stato stipulato alcun contratto di locazione, bensì un contratto di comodato gratuito di durata biennale, e che il supposto contratto di locazione era comunque nullo perché non stipulato per iscritto e non registrato; che, dunque, non sussisteva la morosità dedotta. Per questi motivi chiese il rigetto della domanda.
Con sentenza n. 5744/2019 il Tribunale di Roma, denegata l’ordinanza di rilascio richiesta ex art. 665 c.p.c. e disposto il mutamento del rito, così pronunciava: (i) accoglieva per quanto di ragione le domande svolte da RAGIONE_SOCIALE nei confronti del COGNOME NOME e per l’effetto accerta e dichiara va la nullità, per vizio di forma (art. 1 comma 4 l. n. 431/1998), del contratto di locazione verbale concluso tra le parti, per uso abitativo; (ii)
condannava il convenuto a rilasciare immediatamente, libero da persone e cose, in favore dell’attrice, l’immobile sito in INDIRIZZO; (iii) compensava le spese di lite per 1/3 e condannava il convenuto per i restanti 2/3.
Avverso tale pronuncia la società RAGIONE_SOCIALE interpose gravame dinnanzi alla Corte d’appello di Roma. Costituendosi in giudizio, NOME COGNOME chiese il rigetto dell’appello.
Con sentenza n. 7142/2022, depositata in data 10/11/2022, oggetto di ricorso, la Corte di Appello di Roma ha rigettato l’appello proposto dalla società RAGIONE_SOCIALE, condannandola al pagamento delle spese del grado.
Avverso la predetta sentenza la società RAGIONE_SOCIALE propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, cui NOME COGNOME resiste con controricorso.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis. 1 c.p.c.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO CHE:
Con l’unico motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, 1° co., n. 3 , c.p.c., ‘ Violazione dell’art. 360 comma 1 n. 3 cpc per violazione ed errata e/o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 112 e 115 cpc con riferimento alla richiesta di equo ristoro da liquidarsi sulla base dell’art. 1226 c.c. e comunque dell’ art. 13 comma 5 della l. 431/1998 da applicarsi al caso concreto del giusto ristoro in base alla statuizione della sent. n. 238 del 10/11/2017 della Corte Costituzionale’. La ricorrente lamenta che il giudice di primo grado ha statuito ultra petitum , poiché ha negato l’equo ristoro richiesto interpretandolo come richiesta di risarcimento del danno, così violando il principio della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. La ricorrente censura, inoltre, il mancato accoglimento della domanda di riforma della decisione del Tribunale per non avere esso provveduto a liquidare, ai sensi dell’art. 114 c.p.c., ‘l’equo
ristoro’, poiché essa avrebbe chiesto la condanna al pagamento di un indennizzo a titolo di ristoro per il godimento del bene, da determinarsi secondo i principi desumibili dalla comune esperienza e dagli atti prodotti in giudizio.
A detta della ricorrente, i giudici di merito avrebbero dovuto determinare, sulla base del combinato disposto degli artt. 112 e 115 c.p.c., un equo ristoro a carico del conduttore e a favore della società locatrice (RAGIONE_SOCIALE) commisurato in via equitativa, ex art. 1226 c.c., al triplo della rendita catastale sia pure su base annua e non mensile, ed in tali termini accogliere e ridurre la domanda creditoria della società ricorrente.
Da ciò conseguirebbe la fondatezza della doglianza della ricorrente in ordine alla violazione dell’art. 115, 2° comma, c.p.c., in quanto i giudici di merito avrebbero potuto, senza alcuna prova specifica ma solo presuntiva, in base al dato catastale, deter minare l’equo ristoro richiesto e quindi -giusta sentenza di questa S.C. n. 16670/2016 -‘porre a fondamento (ex art. 115, 2° comma, c.p.c.) della decisione (ovverosia della domanda) le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza’, quali desumibili, appunto, dai dati catastali all’uopo forniti e depositati in atti d i causa.
Sull’unico motivo di ricorso . Il Collegio, q uanto alla violazione dell’art. 112 c.p.c., rileva che, dopo avere dichiarato di condividere il principio di diritto evocato dalla sentenza impugnata, il motivo espone la censura in questi termini: ‘ L’assunto, pur essendo in punto di diritto condivisibile, non può ritenersi tale nel concreto caso di specie perché parte locatrice ha precisato di non volere il risarcimento dei danni ma solo un equo ristoro commisurandolo sostanzialmente alla rendita catastale, si a pure equivalente all’importo di € 1.000,00 asseritamente pagato da parte resistente. Invero, il Giudice può interpretare la domanda dell’appellante ma non la può modificare se la domanda è precisata e sussiste differenza tra equo indennizzo e risarcimento del danno. In tale ottica deve ritenersi la eccepita
violazione da parte della Corte di merito del principio sancito dall’art. 112 cpc cioè della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, nel senso che il Giudice deve pronunziare sulla domanda ‘e non oltre i limiti di essa ‘.
2.1 Ora, ai sensi dell’art. 366 , n. 4 , c.p.c. il motivo dev’essere illustrato in maniera chiara. Le enunciazioni riprodotte sono del tutto inidonee in questo senso. Là dove assumono che si era chiesto un equo ristoro e non un risarcimento del danno omettono di spiegare perché l’equo ristoro non fosse riconducibile alla nozione di risarcimento del danno. Ne riesce così non individuata la pretesa diversità della domanda o, meglio, essa dovrebbe ravvisarsi solo sulla base della diversità terminologica. Il che, peraltro, traspariva anche dall’esposi zione del fatto, là dove, a pag. 7, riproduce il contenuto in parte qua dell’appello. Ivi il ricorso allude lo si osserva per completezza -ad una differenza in astratto, riproducendo una definizione di una fonte che indica, ma omette di precisare perché la sua domanda in concreto, cioè per i fatti costitutivi allegati, sarebbe stata diretta a chiedere cosa diversa da un risarcimento del danno.
2.2 Sicché il motivo, quanto alla censura in discorso, risulta del tutto inidoneo a criticare la motivazione della sentenza gravata, la quale è stata così enunciata: « la pretesa fatta valere dal proprietario di un immobile al fine di ottenere un ristoro del pregiudizio economico subito per la perdita della disponibilità del bene e la impossibilità di conseguire l’utilità da esso ricavabile, ha indubbiamente natura risarcitoria, in quanto mira a rifondere al proprietario del bene il reddito concretamente perduto per effetto della condotta illegittima dell’occupante (…). È opportuno, inoltre precisare che ‘l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa conferito al Giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., espressione del più generale potere di cui all’art. 115 cpc, dà luogo non già ad un giudizio di equità, ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla c.d. equità giudiziale correttiva od inte grativa’ (Cass. n. 21103 del 16/09/2013). Quanto
alla valutazione in merito alla prova dei fatti costitutivi della domanda risarcitoria, il Giudice di prime cure ha correttamente ritenuto che né la denunzia di contratto verbale all’RAGIONE_SOCIALE delle Entrate né le ricevute di pagamento prodotte dalla RAGIONE_SOCIALE possono considerarsi idonee alla dimostrazione del valore locativo del bene in regime di libero mercato quantificato dalla parte attrice in € 1.000,00 mensili. Si tratta, infatti, di atti di formazione unilaterale posti in essere dalla stessa parte che intenda avvalersene ai fini di prova del fatto controverso, e cioè del versamento da parte del COGNOME di un canone di locazione di € 1.000,00 mensili fino ad aprile 2018. In proposito va anche considerato che non è individuabile con certezza il soggetto sottoscrittore delle dette ricevute, né tantomeno la sua legittimazione a rappresentare la società attrice e, comunque, non vi è alcun riscontro probatorio in merito all’effettivo pagamento delle somme di cui alle predette ricevute, e dunque non può presumersi un accordo tra le parti sul corrispettivo. Peraltro, come correttamente osservato dal Giudice di primo grado, la società attrice non ha nemmeno allegato la possibilità di locare il bene a terzi, né ha prodotto annunci per immobili, analoghi per ubicazione e metratura; infine non ha fornito indicazioni sulle caratteristiche dell’immobile de quo, onde consentire al Tribunale di stimare un valore locativo dello stesso. È vero che il danno da occupazione ‘sine titulo’ può essere dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dall’allegazione dei fatti che devono essere accertati (vedi Cass. n. 20708 del 31/07/2019). Difatti, anche accedendo alla tesi secondo cui il danno in questione può essere provato per presunzione è pur vero che i principi in materia di presunzioni devono essere tratti da dati fattuali di cui è onerata la parte che lo deduce. Quanto alla violazione dell’art. 115 comma 2 cpc giova ricordare che il fatto notorio in deroga al principio dispositivo e a quello del contraddittorio, generando, in seno al processo materiale probatorio non offerto dalle parti e relativo a fatti da essi non vagliati
e controllati, deve essere inteso ed apprezzato con il dovuto rigore, come fatto, cioè, acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabilmente incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto di mera conoscenza individuale e soggettiva del singolo Giudice. Non rientra pertanto nella categoria del fatto notorio il valore di un immobile quando ne sia richiesta una precisa determinazione (Cass. 27/03/2003 n. 4556). Né ricorrono nella specie le condizioni per la valutazione equitativa del dann o. Ed invero, l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia provata l’esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicchè grava sulla parte interessata l’onere di provare non solo l’an debeatur, ma anche ogni elemento di fatto utile alla quantificazione del danno e di cui possa ragionevolmente disporre nonostante la riconosciuta difficoltà, sì da consentire al giudice il concreto esercizio del potere di liquidazione in via equitativa, che ha la sola funzione di colmare le lacune insuperabili ai fini della precisa determinazione del danno stesso. In ogni caso, la liquidazione equitativa non può sopperire alla negligenza della parte danneggiata nell’allegare e dimostrare elementi dai quali desumere l’entità del pregiudizio » (così da p. 3 terz’ultimo §, a p. 5, 1° §, della sentenza).
2.3 La censura ex art. 115 c.p.c. è in primo luogo inammissibile, atteso che si fonda sull’evocazione di ricevut e riguardo alle quali non si fornisce l’indicazione specifica di cui all’art. 366 , n. 6, c.p.c. (in proposito, ex multis , Cass., Sez. Un., n. 8950 del 2022). In secondo luogo, lo è perché non rispetta i criteri indicati dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, cioè quelli a suo tempo enunciati da Cass., sez. III, sent. 10/06/2016, n. 11892, secondo cui ‘ In materia di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 115 c.p.c. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta
nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre ‘, ribaditi immediatamente, in motivazione espressa, sebbene non massimata sul punto, da Cass., Sez. Un., n. 16598 del 2016 e, quindi, ex multis , da Cass., Sez. Un., sent. 30/09/2020, n. 20867, secondo cui: ‘ In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. ‘ (conforme di recente Cass., sez. Trib., ord. 9/06/2021, n. 16016). Peraltro, lo si osserva ad abundantiam , il motivo si disinteressa completamente della ricordata motivazione della sentenza ancorché la riproduca nell’esposizione del fatto: avrebbe dovuto spiegare perché essa non era adeguata nella logica del (non precisato) equo ristoro.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, il ricorso è inammissibile, stante l’inammissibilità dell’unico motivo su cui si fonda.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate in dispositivo in favore del controricorrente, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi euro 1.800,00, oltre agli esborsi, liquidati in euro 200,00,
oltre al rimborso spese generali 15% e accessori di legge, in favore del controricorrente, NOME COGNOME.
Ai sensi dell’art. 13, 1° comma, quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 04/06/2024, nella camera di consiglio della