Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 6799 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 6799 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 14/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso 28740-2020 proposto da:
COGNOME NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell ‘avv. NOME COGNOME rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO nello studio dell’avv. NOME COGNOME che lo rappresenta e difende
-controricorrente e ricorrente incidentale –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE in Amministrazione Straordinaria, in persona dei commissari straordinari, rappresentata e difesa dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 213/2020 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 20/02/2020;
udita la relazione della causa svolta in camera di consiglio dal Consigliere COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. del 28.3.2011 RAGIONE_SOCIALE evocava in giudizio COGNOME Antonio innanzi il Tribunale di Nocera Inferiore, allegando di aver acquistato dall’amministrazione straordinaria di RAGIONE_SOCIALE con atto a rogito notar COGNOME del 12.11.2009, un complesso immobiliare in Pagani, occupato in parte dal quale il convenuto, ed invocando la condanna di quest’ultimo al rilascio ed al risarcimento del danno da occupazione sine titulo .
Si costituiva il convenuto, resistendo alla domanda ed eccependo in via riconvenzionale l’intervenuta usucapione della porzione immobiliare occupata.
Previa trasformazione del rito, da sommario a ordinario, chiamata in causa di RAGIONE_SOCIALE in garanzia, ad istanza della parte attrice, ed espletamento dell’istruttoria, il Tribunale, con sentenza n. 254/2015, accoglieva la domanda di RAGIONE_SOCIALE condannando il Pascale al rilascio del bene occupato.
Con la sentenza impugnata, n. 213/2020, la Corte di Appello di Salerno rigettava il gravame interposto dall’originario convenuto, e coltivato poi, dopo la sua morte, dalla moglie ed erede NOME avverso la decisione di prime cure, confermandola.
Propone ricorso per la cassazione di detta decisione NOMECOGNOME affidandosi a nove motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE spiegando ricorso incidentale affidato ad un unico motivo, a sua volta resistito con controricorso dalla parte ricorrente principale.
Resiste con distinto controricorso RAGIONE_SOCIALE in amministrazione straordinaria.
In prossimità dell’adunanza camerale, il ricorrente incidentale ed il controricorrente hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, la ricorrente principale lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe statuito che il NOME deteneva l’immobile di cui è causa in virtù di un comodato, trattandosi di alloggio di servizio, in assenza di domanda di parte. La società attrice, infatti, aveva agito allegando l’occupazione senza titolo, e dunque l’assenza di alcun valido titolo di detenzione del cespite oggetto di causa.
Con il secondo motivo, invece, la Sole si duole della violazione degli artt. 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 111 Cost., nonché dell’apparenza della motivazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato che il Pascale aveva ottenuto la detenzione dell’immobile in virtù del suo rapporto di lavoro con la Cirio Del Monte RAGIONE_SOCIALE S.p.a. e che vi era rimasto dopo il suo pensionamento, e ricondotto la domanda ad un’azione di rilascio fondata sulla cessazione di un precedente rapporto obbligatorio, senza fornire adeguata motivazione in relazione alla scelta interpretativa, ed in particolare senza chiarire perché, nella specie, non si configurerebbe (come ritiene invece l’odierna ricorrente) una domanda di rivendicazione.
Con il terzo motivo, la ricorrente principale contesta la violazione degli artt. 1362 e ss. c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente interpretato il contenuto del contratto di vendita intercorso tra RAGIONE_SOCIALE, senza dar rilievo alla circostanza -ritenuta invece decisiva dall’odierna ricorrente- che gli stessi commissari straordinari della parte cedente avevano espressamente dichiarato, in atto di compravendita, che il cespite era parzialmente occupato dal COGNOME, il quale non vantava alcun titolo legittimante la sua occupazione. Di conseguenza, secondo la Sole, la domanda proposta da RAGIONE_SOCIALE avrebbe dovuto essere inquadrata sub specie di rivendicazione, e dare rilievo anche al possesso vantato dall’occupante.
Le tre censure, suscettibili di esame congiunto perché tutte incentrate sulla qualificazione della domanda proposta ab origine da RAGIONE_SOCIALE e sull’esistenza, o assenza, di un titolo legittimante l’occupazione parziale del cespite oggetto di causa ad opera del COGNOME, dante causa dell’odierna ricorrente, sono infondate.
La Corte di Appello, ricostruendo il fatto, ha evidenziato che il Pascale aveva avuto la disponibilità dell’alloggio oggetto di causa in virtù del suo contratto di lavoro con RAGIONE_SOCIALEp.aRAGIONE_SOCIALE e che subito dopo il suo pensionamento aveva ricevuto dalla sua ex-datrice di lavoro richiesta di rilascio del cespite, con missiva del 30.5.1988, non contestata dal Pascale. La Corte distrettuale ha anche evidenziato che in detta comunicazione la società aveva consentito che il rilascio fosse posticipato al 31.12.1988, su richiesta del COGNOME, e che quest’ultimo non aveva specificamente contestato l’esistenza di un accordo sulla tempistica della restituzione del bene oggetto di causa (cfr. pagg. 10 e 11 della sentenza impugnata). Il giudice del gravame aggiungeva l’ulteriore considerazione che il COGNOME, nelle difese spiegate in due
successivi giudizi, promossi dalla società ex-datrice di lavoro per il rilascio dell’appartamento, rispettivamente con ricorsi del 1989 e del 1997, non aveva contestato di aver ricevuto la disponibilità dell’alloggio per ragioni di servizio, né aveva allegato di averlo usucapito, ma aveva sostenuto che la sua concessione in uso era da collegare ad un mero atto di liberalità dell’azienda (cfr. ancora pag. 11 della sentenza). La Corte salernitana aggiungeva che tali dichiarazioni, pur non aventi valore confessorio perché provenienti non già dalla parte personalmente, ma dal suo procuratore, potevano essere valutate come elementi indiziari, onde ‘… la qualificazione del contratto come comodato d’uso di immobile gratuito trova la sua ragione nella detenzione originata dalla qualifica di dipendente, solo così NOME NOME ha avuto accesso di fatto al bene, cui ha fatto da risposta la condotta tacitamente accettante, ovvero di consapevole tolleranza del proprietario, non essendo necessaria la forma scritta per l’incontro di volontà tipiche del contratto, condotta qualificante che mai avrebbe potuto condurre ad usucapire il bene, in assenza della prova dell’inversione del possesso, ovvero del godimento del bene come proprietario, reso noto alla controparte, circostanza non desumibile dal mero possesso, o gestione di fatto del bene’ (cfr . pag. 12 della sentenza impugnata).
L’operazione ermeneutica del giudice di appello non è stata condotta in violazione dei criteri indicati dalla legge e da questa Corte, poiché va ribadito che ‘Le ammissioni contenute negli scritti difensivi, sottoscritti unicamente dal procuratore ad litem, costituiscono elementi indiziari liberamente valutabili dal giudice per la formazione del suo convincimento. Esse, tuttavia, possono assumere anche il carattere proprio della confessione giudiziale spontanea, alla stregua di quanto previsto dagli artt. 228 e 229 c.p.c., qualora l’atto sia stato sottoscritto
dalla parte personalmente, con modalità tali che rivelino inequivocabilmente la consapevolezza delle specifiche dichiarazioni dei fatti sfavorevoli in esso contenute’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 23634 del 28/09/2018, Rv. 650383; conf. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 20701 del 02/10/2007, Rv. 599675; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 15760 del 13/12/2001, Rv. 551112).
Al di là di alcune imprecisioni terminologiche, è chiaro che il giudice di merito ha accertato, e ritenuto, che il NOME sia entrato in relazione con la res giusta il suo rapporto di lavoro con RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE e che egli sia rimasto a vivere nell’appartamento in virtù di un atto di tolleranza del proprietario, senza allegare alcun evento idoneo a realizzare una interversione della detenzione in possesso. Tale statuizione non integra il vizio di ultrapetizione, posto che RAGIONE_SOCIALE aveva agito per il rilascio del cespite oggetto di causa, negando l’esistenza di alcun titolo legittimante la sua detenzione in capo al Pascale; il giudice di merito, nell’ambito dell’indagine di fatto che gli è demandata, ha accertato che la relazione con la cosa aveva avuto origine da un titolo, poi venuto meno, ed ha correttamente inquadrato la fattispecie nell’ambito della detenzione, e la domanda sub specie di rilascio. Sul punto, la statuizione è coerente con l’insegnamento di questa Corte, secondo cui la presunzione di possesso di cui all’art. 1141 c.c. non opera quando, come nel caso di specie, la relazione con la res ha avuto inizio a titolo di mera detenzione, ed il venir meno del titolo legittimante la detenzione non è causa sufficiente a trasformare quest’ultima in possesso. Va infatti ribadito, quanto all’elemento materiale, che ‘La interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di attività materiali, qualora esse manifestino in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando
per sé il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa, come nel caso in cui sul fondo sia stata realizzata una costruzione’ (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 23458 del 26/08/2021, Rv. 662075; conf. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12968 del 31/05/2006, Rv. 589653). Quanto invece al profilo dell’ animus , va ribadito che ‘Poiché l’interversione del possesso non può avere luogo mediante un semplice atto di volizione interna ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore, da cui sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio con correlata sostituzione al precedente, animus detinendi, dell’animus sibi habendi, tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in modo da consentirgli di rendersi conto dell’avvenuto mutamento, e deve tradursi in atti dai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua. A tal fine sono inidonei atti che si traducano nell’inottemperanza alle pattuizioni in forza delle quali la detenzione era stata costituita (verificandosi in questo caso una ordinaria ipotesi di inadempimento contrattuale) ovvero si traducano in meri atti di esercizio del possesso, ricorrendo in tal caso una ipotesi di abuso della situazione di vantaggio determinata dalla materiale disponibilità del bene’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 12007 del 01/07/2004, Rv. 573965; negli stessi termini, cfr. anche Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4404 del 28/02/2006, Rv. 587753; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21252 del 10/10/2007, Rv. 599249; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11374 del 11/05/2010, Rv. 613210; Cass. Sez. 6 -2, Ordinanza n. 12080 del 17/05/2018, Rv. 648535; Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27411 del 25/10/2019, Rv. 655670).
Neppure rileva, a beneficio dell’odierna ricorrente, la circostanza che nel contratto di vendita del complesso in cui si trova l’alloggio, intercorso tra RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, la parte cedente avesse esplicitato l’esistenza dell’occupazione parziale, senza titolo, ad opera del Pascale. Tale elemento, infatti, non dimostra affatto l’assenza di un titolo originario, bensì evidenzia soltanto che, alla data della vendita, e dunque nel 2009, gli effetti di detto originario titolo di detenzione erano venuti meno, onde il NOME non aveva più alcun titolo per rimanere nell’appartamento oggetto di causa. Non sussiste, dunque, il vizio di interpretazione del contratto predetto, che è stato dedotto dalla NOME con il secondo motivo di ricorso.
Né, per concludere, si configura il vizio di apparenza della motivazione, dedotto invece con il terzo motivo, perché la motivazione della sentenza impugnata non risulta viziata da apparenza, né appare manifestamente illogica, ed è idonea ad integrare il cd. minimo costituzionale e a dar atto dell’iter logico-argomentativo seguito dal giudice di merito per pervenire alla sua decisione (cfr. Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830, nonché, in motivazione, Cass. Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639).
Con il quarto motivo, la ricorrente principale denunzia la violazione dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente attribuito valore alla mancata contestazione della raccomandata del 1988 con cui RAGIONE_SOCIALE aveva chiesto al Pascale la restituzione dell’alloggio, consentendogli di rimanervi fino al 31.12.1998. Ad avviso del ricorrente, l’onere di contestazione riguarda le allegazioni delle parti, e non il contenuto dei documenti prodotti, né la loro valenza probatoria.
Con il quinto motivo, invece, deduce la violazione degli artt. 356, 115, 189, 132 c.p.c., 1362 c.c., nonché la nullità della sentenza per motivazione apparente, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente ritenuto superflua la prova per testimoni, che era stata richiesta in prime cure e reiterata con apposito motivo di gravame, senza considerare che essa avrebbe consentito di dimostrare che il rapporto con la res era stato esercitato dal NOME uti dominus per oltre vent’anni.
Le due censure, suscettibili di esame congiunto perché entrambi attinenti alla valutazione della prova condotta dal giudice di merito, sono infondate.
La Corte di Appello, una volta ravvisato che l’inizio della relazione con la cosa intrattenuta dal Pascale era da collegare ad un titolo, costituito dal rapporto di lavoro a suo tempo intercorso tra quest’ultimo e RAGIONE_SOCIALE Monte RAGIONE_SOCIALE.p.aRAGIONE_SOCIALE ha valutato le emergenze documentali, attribuendo valore non soltanto alla mancata contestazione della missiva del 1998 con cui la società aveva chiesto, per la prima volta, la restituzione dell’alloggio di cui è causa, ma anche la condotta processuale complessivamente tenuta dal Pascale nei due giudizi promossi dalla società per il rilascio del cespite, rispettivamente nel 1989 e nel 1997. Una volta ravvisato che l’occupante non aveva mai dedotto, in tali precedenti contenziosi, di aver usucapito, o di essere il possessore, del bene oggetto di causa, ma si era limitato ad allegare di detenerlo per effetto di un atto di liberalità dell’azienda, la Corte distrettuale ha ritenuto altresì rinunciata la prova orale, che il Pascale aveva invocato nelle sue memorie ex art. 183 c.p.c. in prime cure, ma solo genericamente riproposto sia in comparsa conclusionale che nell’atto di gravame.
La statuizione della Corte distrettuale, su questo secondo punto, si discosta dall’insegnamento di questa Corte, secondo cui, ‘Nel caso in cui il giudice di primo grado non accolga alcune richieste istruttorie, la parte che le ha formulate ha l’onere di reiterarle al momento della precisazione delle conclusioni, in modo specifico, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, devono ritenersi abbandonate e non più riproponibili in sede di impugnazione; tale presunzione può essere ritenuta, tuttavia, superata dal giudice di merito, qualora dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l’esame degli scritti difensivi’ (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 33103 del 10/11/2021, Rv. 662750; conf. Cass. Sez. 6 -3, Ordinanza n. 10767 del 04/04/2022, Rv. 664646). Tuttavia, va considerato che, nel caso di specie, la Corte distrettuale ha evidentemente ravvisato, nella condotta processuale osservata dal Pascale nei due procedimenti del 1989 e del 1997 di cui anzidetto, il riconoscimento dell’altruità della cosa ed ha, di conseguenza, ritenuto superfluo l’ingresso della prova orale, giacché l’eventuale dimostrazione della durata della relazione con la res non avrebbe comunque potuto condurre al riconoscimento dell’usucapione, in assenza del requisito dell’ animus possidendi . Peraltro, la Corte di Appello ha anche valorizzato l’effetto interruttivo del decorso del termine per la prescrizione acquisitiva legato ai predetti due giudizi di rilascio (cfr . pag. 14 della sentenza impugnata). L’errore dianzi rilevato, dunque, non comporta l’accoglimento delle doglianze in esame, poiché la ratio relativa al ravvisato riconoscimento dell’altruità della cosa è sufficiente ad assicurare la stabilità della decisione impugnata.
Con il sesto motivo, la Sole lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente accolto la domanda di rilascio non soltanto con riferimento all’appartamento occupato dal RAGIONE_SOCIALE in virtù del suo rapporto di lavoro con RAGIONE_SOCIALE, ma anche ad alcuni locali al piano terreno della palazzina ad uffici, senza considerare che nel corso dei giudizi di rilascio non si faceva alcun cenno e dette porzioni immobiliari, in relazione alle quali pertanto alcun effetto interruttivo del termine utile ad usucapionem si sarebbe prodotto.
Con il settimo motivo, invece, si duole della violazione degli artt. 1362 e ss. c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte distrettuale avrebbe erroneamente interpretato la domanda proposta da RAGIONE_SOCIALE come estesa a tutta la palazzina adibita ad uffici, e dunque anche al seminterrato, mentre essa era stata limitata al solo appartamento.
Con l’ottavo motivo, ancora, contesta la violazione degli artt. 132 c.p.c., 118 disp. att. c.p.c. e 111 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte territoriale avrebbe ritenuto la domanda di RAGIONE_SOCIALE estesa a tutta la palazzina ad uffici, senza fornire adeguata motivazione sul punto.
Ed infine, con il nono ed ultimo motivo, la ricorrente principale denunzia la violazione degli artt. 115, 112 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., perché la Corte di merito avrebbe omesso di dare rilievo alla circostanza che RAGIONE_SOCIALE non aveva specificamente contestato le allegazioni difensive del Pascale, il quale aveva dedotto che alcuni locali al seminterrato della palazzina adibita ad uffici erano rimasti in stato di abbandono ed erano quindi stati da
lui occupati, previa la modifica di alcuni tramezzi, e resi direttamente accessibili dall’androne di accesso alla sua abitazione.
Le censure suindicate, suscettibili di trattazione congiunta perché tutte inerenti l’interpretazione della domanda fornita dalla Corte di Appello, con specifico riferimento alla sua estensione, sono infondate.
La Corte di Appello ha infatti evidenziato che la relazione con la cosa era stata intrattenuta dal Pascale in virtù del suo rapporto di lavoro ed ha dunque escluso la sussistenza di un possesso utile ad usucapionem . La statuizione di estende evidentemente non soltanto al cespite che era stato concesso in detenzione al Pascale per effetto del rapporto di lavoro, ma anche alle pertinenze, per tali dovendosi intendere gli spazi, ulteriori, dal medesimo soggetto occupati, o ai quali comunque lo stesso aveva avuto accesso, sempre in forza della medesima relazione detentiva intrattenuta con la cosa principale. Sotto questo profilo, la Corte distrettuale ha evidenziato che la domanda era stata proposta da RAGIONE_SOCIALE per ‘… ottenere il rilascio della porzione dell’immobile sito in Pagani, all’interno dello stabilimento sito in INDIRIZZO già destinato a palazzina uffici della Cirio Del Monte, occupato senza titolo da NOME NOME, con ciò dovendosi ricomprendere tutte le aree occupate, nessuna esclusa’ (cfr . pag. 14 della sentenza impugnata). Tale interpretazione della domanda non collide con l’art. 112 c.p.c., in quanto la Corte salernitana ha individuato il bene della vita in relazione al quale la società attrice aveva invocato tutela, ritenendo che l’istanza di rilascio fosse estesa a tutte le aree occupate dal Pascale, senza alcuna distinzione tra bene principale ed accessori, o altre aree comunque apprese dal predetto grazie al suo potere di fatto di accedere alle aree dello stabilimento in cui sono collocati i beni oggetto di causa. Sul punto, va ribadito che ‘La rilevazione e l’interpretazione del contenuto della domanda è attività
riservata al giudice di merito, sicché non è deducibile la violazione dell’art. 112 c.p.c., quale errore procedurale rilevante ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., quando il predetto giudice abbia svolto una motivazione sul punto, dimostrando come la questione sia stata ricompresa tra quelle oggetto di decisione, attenendo, in tal caso, il dedotto errore al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte’ (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 27181 del 22/09/2023, Rv. 668673; negli stessi termini anche Cass. Sez. 6 -1, Ordinanza n. 31546 del 03/12/2019, Rv. 656493, secondo la quale ‘… l’erronea interpretazione della domande e delle eccezioni non è censurabile ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., perché non pone in discussione il significato della norma ma la sua concreta applicazione operata dal giudice di merito, il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione, ovviamente entro i limiti in cui tale sindacato è ancora consentito dal vigente art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c.’ ). Nel caso di specie, la Corte di Appello ha interpretato la domanda proposta in primo grado, motivando adeguatamente sul punto, onde nessuno dei vizi denunziati con i motivi in esame sussiste.
Il ricorso principale, dunque, va rigettato.
Con l’unico motivo del ricorso incidentale, invece, la società RAGIONE_SOCIALE lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2043, 2727, 2729 c.c. e 116 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., perché la Corte di Appello avrebbe erroneamente escluso la risarcibilità del danno da occupazione senza titolo, ritenendo non configurabile un danno in re ipsa e non provata l’utilizzazione che il proprietario avrebbe fatto del cespite, ov’esso fosse stato nella sua disponibilità.
La censura è fondata.
La Corte di Appello ha rigettato l’istanza risarcitoria proposta da RAGIONE_SOCIALE sulla base dell’assunto secondo cui ‘… la semplice perdita della disponibilità del bene da part del proprietario e della conseguente impossibilità per costui di conseguirne l’utilità potenzialmente ricavabile non dà luogo al diritto risarcitorio, qualora non sia provato l’effettivo utilizzo del bene, come intento concreto del proprietario di ottenere un rendimento del bene, non potendosi limitare come criterio di riferimento al mero potenziale valore locatizio del bene, criterio che darebbe luogo ad un danno punitivo non riconosciuto dal sistema, se non per ipotesi tipizzate’ (cfr . pag. 15 della sentenza impugnata).
La statuizione collide con il più recente insegnamento di questa Corte, secondo cui il danno da occupazione senza titolo di un immobile, seppure non costituisce un danno in re ipsa , si configura comunque in termini di normale inerenza all’impossibilità di disporre del bene e deve essere apprezzato con riferimento al valore locativo di quest’ultimo. Le Sezioni Unite di questa Corte hanno infatti chiarito che ‘In tema di risarcimento del danno da occupazione senza titolo di un bene immobile da parte di un terzo, il proprietario è tenuto ad allegare, quanto al danno emergente, la concreta possibilità di godimento perduta e, quanto al lucro cessante, lo specifico pregiudizio subito (sotto il profilo della perdita di occasioni di vendere o locare il bene a un prezzo o a un canone superiore a quello di mercato), di cui, a fronte della specifica contestazione del convenuto, è chiamato a fornire la prova anche mediante presunzioni o il richiamo alle nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 33645 del 15/11/2022, Rv. 666193 – 04). Pertanto, ‘… se il danno da perdita subita di cui il proprietario chiede il risarcimento non può essere provato nel suo preciso ammontare, esso è liquidato dal giudice con
valutazione equitativa, se del caso mediante il parametro del canone locativo di mercato’ (Cass. Sez. U, Sentenza n. 33645 del 15/11/2022, Rv. 666193 – 02). Ne consegue l’erroneità dell’affermazione della Corte salernitana, secondo cui non sarebbe possibile liquidare il danno da occupazione senza titolo facendo riferimento al valore locativo del bene, in quanto in tal modo si introdurrebbe un danno punitivo non riconosciuto dal vigente ordinamento. Quest’ultimo, al contrario, nell’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite di questa Corte riconosce la risarcibilità del pregiudizio di cui si discute anche facendo riferimento ad indici presuntivi, ove non sia allegato uno specifico danno ulteriore, tra i quali assume primario rilievo proprio il valore locativo del cespite.
Ovviamente, nel caso di specie, la valutazione del danno deve essere condotta, quanto alla posizione della società ricorrente incidentale, soltanto con riferimento al periodo successivo al suo acquisto, poiché per quello precedente l’eventuale pregiudizio competerebbe alla società controricorrente, la quale, sul punto, non ha spiegato impugnazione incidentale.
In definitiva, il ricorso principale va rigettato, mentre quello incidentale va accolto, nei termini di cui in motivazione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvio della causa alla Corte di Appello di Salerno, in differente composizione, anche per le spese del presente giudizio di legittimità.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater , del D.P.R. n. 115 del 2002- della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P. Q. M.
La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso principale e accoglie quello incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte di Appello di Salerno, in differente composizione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda