Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 25615 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 2 Num. 25615 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 25/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25820/2022 R.G. proposto da: COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO.to AVV_NOTAIO;
– ricorrente –
contro
NOME, rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO;
– intimata – avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di SALERNO n. 1399/2022 depositata il 24/10/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17/09/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, quale titolare dell’RAGIONE_SOCIALE di COGNOME, aveva domandato la risoluzione del contratto di somministrazione ex art. 1453 c.c. per grave inadempimento del convenuto, NOME COGNOME, quale titolare del RAGIONE_SOCIALE, e la condanna dello stesso al risarcimento dei danni corrispondenti al pagamento dei conferimenti effettuati nei primi giorni di aprile 2008, per un totale di € 2.050,00, della campionatura del latte per € 1.532,00, oltre al risarcimento per la rifusione di eventuali e ulteriori danni subiti dall’attore a causa de ll’ inadempimento contrattuale, da determinarsi in corso di causa a mezzo CTU.
Si costituiva con comparsa di costituzione, NOME COGNOME, quale titolare del RAGIONE_SOCIALE, contestando quanto ex adverso dedotto e domandando in via riconvenzionale la risoluzione del medesimo contratto per inadempimento della controparte, oltre il risarcimento dei danni per mancato guadagno causati dalla “interrotta” fornitura di latte.
Il Tribunale accoglieva la domanda di risoluzione del contratto di somministrazione del 14 agosto 2007 per grave inadempimento proposta da NOME COGNOME e condannava NOME COGNOME al pagamento della somma di € 80.216,00 a titolo di risarcimento dei danni, oltre interessi.
NOME COGNOME, quale titolare del RAGIONE_SOCIALE, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Salerno.
La Corte d’Appello di Salerno accoglieva parzialmente l’appello limitatamente alla domanda di risarcimento del danno per lucro cessante.
La domanda riconvenzionale proposta dal RAGIONE_SOCIALE, allora convenuto, era priva di fondamento. L’istruttoria espletata in
Ric. 2022 n. 25820 sez. S2 – ud. 17/09/2024
primo grado aveva evidenziato chiaramente l’inadempimento contrattuale proprio del somministrato RAGIONE_SOCIALE. Dalle testimonianze richieste dalla stessa parte appellante, si desumeva, infatti, come il dipendente incaricato del conferimento del latte dai singoli fornitori avesse, su istruzioni precise del RAGIONE_SOCIALE, rifiutato di ritirare la produzione di latte bufalino pattuita in base all’accordo modificativo del contratto di somministrazione stipulato in data 29 marzo 2008, esigendo la consegna non di una sola mungitura, ma della misura ridotta del 50% della produzione di latte bufalino giornaliera.
D’altra parte, l’istruttoria aveva chiarito come al dimezzamento delle mungiture giornaliere da due a una per il solo mese di aprile 2008 non corrispondesse affatto un dimezzamento della produzione totale di latte bufalino, ma al più una riduzione della produzione di latte coerente con il tenore dell’accordo sottoscritto tra le parti secondo cui “la mungitura delle bufale presso la RAGIONE_SOCIALE. RAGIONE_SOCIALE dovrà essere effettuata una sola volta al giorno anziché due, in modo da ottenere quantità minori di latte da conferire” (contratto del 2932008).
Ne conseguiva, pertanto, che l’inadempimento rilevante ex artt. 1453 e 1455 cc era quello ascrivibile al RAGIONE_SOCIALE.
5.1 La Corte rigettava anche il motivo relativo alla nullità della consulenza disposta in primo grado e posta a base della sentenza appellata, perché quest’ultima sarebbe risultata difforme dal contenuto della bozza sottoposta dal consulente al contraddittorio delle parti e perché nella risoluzione dell’ultimo quesito, relativo alla quantificazione della differenza tra il valore del latte impiegato come mangime e il mancato ricavato da cessione del latte, il consulente tecnico avrebbe reperito tali elementi di prova, attingendo a fonti
documentali non prodotte dalle parti e acquisite autonomamente d’ufficio.
La Corte d’Appello r ilevava che l’ausiliario del giudice, non travalicando i limiti dell’incarico conferito, aveva risposto ai quesiti fissati dal giudice di prime cure, procedendo anche ad indagare elementi di fatto, su cui non vi erano fonti documentali prodotte dalle parti, come il numero dei capi di bestiame censiti presso l’allevamento del COGNOME, l’età e lo stato di ciascuno di essi al momento del periodo oggetto della controversia, e il valore economico della razione giornaliera di mangime per le bufale o del latte di bufale. Tali poteri di acquisizione, non incidendo su fatti o elementi di prova la cui introduzione in giudizio era riservata necessariamente alle parti, si dovevano ritenere correttamente esercitati, perché rivolti ad integrare le cognizioni specialistiche del giudice nella pronuncia della sentenza appellata. D’altronde, le fonti di prova dal quale il consulente tecnico avrebbe attinto tali dati, come osservato dalla comparsa conclusionale di parte appellata, non erano altro che documentazione facilmente reperibile presso il competente ufficio sanitario (ad es. composizione del numero dei capi in allevamento e il loro stato- lattazione, secca).
La prima delle differenze menzionate da parte appellante tra bozza di consulenza e relazione finale compariva nel solo antefatto della relazione e non spiegava alcuna utilità ai fini della risoluzione dei quesiti affidati dal giudice al consulente d’ufficio. Invece, la tabella dei costi per razioni giornaliere di mangime per bufala non era altro che lo sviluppo in concreto e l’applicazione al numero dei capi effettivamente presenti nell’RAGIONE_SOCIALE in quel momento, dei valori già indicati nella bozza di relazione in astratto, considerando un ipotetico programma di svezzamento dei
vitelli bufalini ai quali poteva essere somministrato il latte di bufala come alimento insieme ad altro mangime di origine vegetale.
5.2 L’appello , invece, doveva trovare accoglimento in relazione alla domanda di risarcimento per il danno derivante da lucro cessante. L’RAGIONE_SOCIALE del COGNOME non aveva offerto prova del lucro cessante patito sotto forma di mancato guadagno ritratto dalla produzione di latte rimasta invenduta, al quale sottrarre il latte impiegato per la nutrizione dei bufalotti. Il giudice di prime cure aveva liquidato tale danno, limitandosi ad applicare alle quote di latte invenduto lo stesso valore unitario al litro determinato nel contratto di somministrazione, senza considerare le peculiarità dell’azione di adempimento e della differente domanda di risarcimento del danno contrattuale da lucro cessante connessa ad un’azione di risoluzione, quali rimedi alternativi in favore del creditore in caso di inadempimento contrattuale.
Il COGNOME, infatti, con la domanda proposta in primo grado aveva reclamato il ristoro del mancato guadagno patito e non la condanna all ‘adempimento delle prestazioni dedotte e rimaste inadempiute. Ragion per cui avrebbe dovuto dimostrare non la perdita di valore pecuniario delle prestazioni future rimaste inseguite a causa del grave inadempimento del somministrato, ma piuttosto quanto avrebbe potuto lucrare in più offrendo la stessa produzione di latte bufalino ad altre aziende casearie presenti sul mercato nello stesso periodo o l’eventuale differenza di prezzo, cui questi aveva dovuto rinunciare a causa della scelta unilaterale del somministrato di non ritirare più il quantitativo pattuito. Invece si era limitato a dedurre genericamente il pregiudizio subito per il mancato incasso per la produzione del latte senza produrre in causa documentazione comprovante, in primo luogo, di aver continuato a
produrre latte, e, poi, l’eventuale cessione a terzi dello stesso prodotto per un minor prezzo ovvero attestante la distruzione del latte invenduto oppure altri documenti utili a tal scopo.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di un motivo di ricorso.
NOME COGNOME è rimasto intimato.
Il consigliere delegato ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti.
A seguito di tale comunicazione, la parte ricorrente, a mezzo del difensore munito di nuova procura speciale, ha chiesto la decisione del ricorso.
È stata f issata l’adunanza in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 -bis.1 cod. proc. civ.
In prossimità dell’odierna udienza il ricorrente ha depositato memoria, insistendo nella richiesta di accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo articolato, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c., per avere la Corte di merito tralasciato di considerare, ai fini della dimostrazione del danno, le deposizioni rese dai testi escussi e, in particolare, da COGNOME NOME e COGNOME NOME, dalle quali sarebbe emerso che l’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE non aveva potuto vendere latte da aprile 2008 ad agosto 2008 e che aveva destinato tutta la produzione di latte come alimento per gli animali, in quanto sarebbe occorsa per la vendita a terzi una nuova certificazione dell’RAGIONE_SOCIALE, rilasciata solo nell’agosto 2008 .
La proposta di definizione del giudizio formulata ai sensi dell’art. 380 -bis è di inammissibilità e/o manifesta infondatezza del
Ric. 2022 n. 25820 sez. S2 – ud. 17/09/2024
ricorso per le seguenti ragioni: « Visto il ricorso proposto da NOME COGNOME (R.G. n. 25820/2022) avverso la sentenza della Corte d’appello di Salerno n. 1399/2022, pubblicata il 24 ottobre 2022, contro NOME COGNOME, quale titolare del RAGIONE_SOCIALE, con la quale l’appello proposto dal RAGIONE_SOCIALE è stato accolto per quanto di ragione e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata del Tribunale di Salerno n. 3477/2018, depositata il 5 ottobre 2018, notificata il 12 ottobre 2018, pur essendo stata confermata la pronuncia di risoluzione del contratto di somministrazione di latte concluso tra le parti del 14 agosto 2007 per inadempimento del somministrato, è stata rigettata la correlata domanda di risarcimento dei danni da lucro cessante asseritamente riportati dal somministrante per difetto di prova, non già della perdita del valore pecuniario delle prestazioni future rimaste ineseguite a causa del grave inadempimento del somministrato, bensì del lucro che avrebbe potuto percepire, in mancanza di alcuna documentazione comprovante, in primo luogo, la continuazione della produzione di latte e, in secondo luogo, l’eventuale cessione a terzi dello stesso prodotto per un minor prezzo ovvero la distruzione del latte invenduto;
considerato che anche alla luce delle evocate deposizioni testimoniali resta ferma la mancata dimostrazione del lucro cessante, anzi, proprio in ragione della concreta utilizzazione del latte per l’allevamento dei bufalini (e non già della sua distruzione) , viene meno la presunzione di danno per il somministrante, conseguente all’inadempimento del somministrato (Cass. n. 15009/2000; Cass. n. 1429/1982). Evidenziato in aggiunta che, a fronte delle argomentazioni esposte dalla pronuncia impugnata (nient’affat to apodittiche o incomprensibili), ai fini di dedurre la
violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo ‘prudente apprezzamento’, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Cass. n. 16016/2021; Cass. S.U. n. 20867/2020), condizioni che difettano nella fattispecie. Il ricorso si profila manifestamente infondato».
Il ricorrente con la memoria depositata in prossimità dell’udienza insiste nella richiesta di accoglimento del ricorso e in aggiunta alle deduzioni ivi formulate, tenuto conto anche delle conclusioni della proposta, osserva che l’inadempimento della controparte che si è rifiutata di ritirare il latte prodotto ha costretto ad un utilizzo come alimento per i capi bufalini di giovane età e come rilevato dal CTU il danno risulta dalla differenza tra la somma di €
Ric. 2022 n. 25820 sez. S2 – ud. 17/09/2024
125.670,00 in caso di vendita al prezzo concordato e € 46.986,00 valore del riutilizzo come svezzamento. Sarebbe erronea la sentenza nella parte in cui afferma che non vi sarebbe stata prova del danno subito, vale a dire: ‘ di aver continuato a produrre latte e, poi, l’eventuale cessione a terzi dello stesso prodotto per un minor prezzo ‘.
In primo grado la produzione del latte era stata provata in base al riutilizzo per l’allevamento dei vitelli oltre al fatto che è notorio che un allevamento vada alimentato e munto quotidianamente e il diverso valore economico di impiego aveva costituito il danno liquidato al COGNOME. La Corte territoriale avrebbe riformato la precedente decisione per un fraintendimento decisivo in quanto nessuna prova di rivendita del latte ad un prezzo inferiore poteva essere fornita, essendo stato dimostrato il diverso utilizzo del latte ad un prezzo meno vantaggioso.
4. Il ricorso è infondato.
4.1 La memoria del ricorrente non offre argomenti tali da consentire di modificare le conclusioni di cui alla proposta di definizione accelerata. In particolare, la Corte d’Appello ha ritenuto non provato il danno da lucro cessante e ha sottolineato come il ricorrente avrebbe dovuto produrre in causa documentazione comprovante, in primo luogo, di aver continuato a produrre latte, e, poi, l’eventuale cessione a terzi dello stesso prodotto per un minor prezzo ovvero attestante la distruzione del latte invenduto oppure altri documenti utili a tal scopo. La Corte evidenzia che per la prova del danno dal lucro cessante il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare non la perdita di valore pecuniario delle prestazioni future rimaste inseguite a causa dell’inadempimento piuttosto quanto avrebbe potuto lucrare in più offrendo la stessa produzione di latte bufalino
ad altre aziende casearie presenti sul mercato nello stesso periodo o l’eventuale differenza di prezzo, cui questi ha dovuto rinunciare a causa della scelta unilaterale del somministrato di non ritirare più il quantitativo pattuito.
Secondo la Corte d’Appello non risultava provata neanche la effettiva produzione del latte anche perché il CTU aveva svolto le sue considerazioni sulla base di un criterio meramente astratto, tenendo conto del numero delle bufale e della tabella dei costi per razioni giornaliere di mangime per bufala, considerando un ipotetico programma di svezzamento dei vitelli bufalini ai quali può essere somministrato il latte di bufala come alimento insieme ad altro mangime di origine vegetale.
Peraltro, come evidenziato nella proposta, in ragione della concreta utilizzazione del latte per l’allevamento dei bufalini (e non già della sua distruzione), viene meno la presunzione di danno per il somministrante, conseguente all’inadempimento del somministrato (Cass. n. 15009/2000; Cass. n. 1429/1982).
Di conseguenza restano ferme le considerazioni effettuate in relazione alla dedotta violazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c.
In particolare, deve ribadirsi che In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale
attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Sez. U – , Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 01).
Anche in relazione all’art. 116 c.p.c. , la doglianza circa la sua violazione è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione (Sez. U – , Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 – 02).
Infine, anche la censura proposta come vizio di motivazione è inammissibile. Questa Corte a sezioni unite ha chiarito che dopo la riforma dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., operata dalla legge 134/2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l’anomalia motivazionale si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella
Ric. 2022 n. 25820 sez. S2 – ud. 17/09/2024
“motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. Sez. un. 8053/2014);
In altri termini quanto alla censura per vizio di carenza assoluta di motivazione ex art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. deve ribadirsi che per motivazione apparente la giurisprudenza di questa Corte ricomprende, oltre alla motivazione in tutto o in parte mancante, anche le ipotesi in cui la stessa non contenga una effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate non consentono di ricostruire il percorso logico -giuridico alla base del decisum .
Nella specie, invece, il percorso logico-giuridico della sentenza impugnata è chiaro, nel senso sopra esposto, e la motivazione contiene una sufficiente ed effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate consentono di ricostruire il percorso logico -giuridico alla base del decisum .
In definitiva, come evidenziato nella proposta, le complessive censure proposte dal ricorrente, anche là dove denunciano il vizio di violazione e falsa applicazione di legge, si risolvono nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto emerse nel giudizio di merito.
Come si è più volte sottolineato, compito della Corte di cassazione non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici del merito, dovendo invece la Corte di legittimità limitarsi a controllare se
costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il ragionamento probatorio, da essi reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che, come dianzi detto, nel caso di specie è dato riscontrare.
Il ricorso è rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
6.1 Poiché il ricorso è deciso in conformità alla proposta formulata ai sensi dell’art. 380 -bis cod. proc. civ., vanno applicati -come previsto dal terzo comma, ultima parte, dello stesso art. 380bis cod. proc. civ. -il terzo e il quarto comma dell’art. 96 cod. proc. civ., con conseguente condanna della parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, di una somma equitativamente determinata (nella misura di cui in dispositivo), nonché al pagamento di una ulteriore somma – nei limiti di legge in favore della cassa delle ammende.
Considerato il tenore della pronuncia, va dato atto -ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 -della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell’impugnazione, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore di COGNOME NOME delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge;
condanna altresì la parte ricorrente, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., al pagamento, in favore del controricorrente, della ulteriore somma determinata equitativamente in euro 3.000,00, nonché ex art. 96, quarto comma, c.p.c. al pagamento della somma di euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende;
dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda