Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 8215 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 3 Num. 8215 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 28/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 10102/2023 R.G. proposto da :
COGNOME NOME COGNOME codice fiscale n. CODICE_FISCALE e COGNOME NOMECOGNOME codice fiscale CODICE_FISCALE entrambi rappresentati e difesi, giusta procura alle liti allegata al ricorso , dall’ Avvocato NOME COGNOMEcodice fiscale n° CODICE_FISCALE, numero di telefax NUMERO_TELEFONO e indirizzo di posta elettronica certificata EMAIL, ed elettivamente domiciliati a Roma (cap 00183), INDIRIZZO presso e nello studio dell’Avvocato NOME COGNOMEpresso Studio Avvocato Gallo) (CODICE_FISCALE)
-ricorrente-
contro
BOLLATI COGNOME
-intimata- avverso la SENTENZA del TRIBUNALE LUCCA n. 318/2023 depositata il 17/03/2023. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12/12/2024
dal Consigliere NOME COGNOME.
Fatti di causa
–NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno un immobile sovrastante quello di NOME COGNOME, nel comune di Barga (LU).
La COGNOME ha adibito il suo appartamento ad allevamento di gatti, arrivando a possederne fino a 12 contemporaneamente, situazione che, per i due vicini, è stata di particolare disagio, per via del fatto che l’allevatrice ammassava rifiuti dell’allevamento nelle parti comuni dell’edificio, non puliva regolarmente gli scarti, non teneva in ordine: uno stato di fatto che provocava cattivi odori che arrivavano nell’abitazione dei due ricorrenti.
-Questi ultimi hanno dunque citato in giudizio la COGNOME davanti al Giudice di Pace di Castelnuovo di Garfagnana per chiedere l’inibitoria delle immissioni, la pulizia dell’area ed il risarcimento dei danni.
In quel giudizio si è costituita la COGNOME la quale ha opposto l’inesistenza di situazioni lesive, allegando il verbale di sopralluogo dei vigili da cui risultava che non vi erano né rifiuti abbandonati né cattivi odori provenienti dall’appartamento.
Il Giudice di Pace ha accolto la domanda, sia quanto all’ordine di provvedere al ripristino dei luoghi ed alla loro pulizia, sia quanto al risarcimento, che ha riconosciuto in 4.900 mila euro.
3. -La Bollati ha proposto appello, in parte accolto dal Tribunale di Lucca, che ha eliminato una delle attività imposte dal Giudice di Pace alla convenuta, ed ha negato altresì il risarcimento del danno. 4. -Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per cassazione i due originari attori con sei motivi di censura. Non si è costituita l’intimata.
Ragioni della decisione
1. -Con il primo motivo si prospetta violazione degli articoli 342 e 348 c.p.c.
I ricorrenti, che nel giudizio di secondo grado, erano appellati, avevano eccepito l’inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi.
La loro eccezione è stata accolta solo in parte, in quanto il giudice di secondo grado ha ritenuto inammissibile solo il secondo motivo e tutti gli altri invece sufficientemente specifici.
I ricorrenti contestano questa valutazione, ribadendo che i motivi erano generici, che le prove erano state contestate genericamente, e che lo stesso fatto storico era stato ricostruito altrettanto genericamente. A fronte di ciò l’appello avrebbe dovuto essere dichiarato interamente inammissibile.
Il motivo è infondato e, in parte, inammissibile.
È inammissibile in quanto la censura è generica a sua volta: non si indicano i punti in cui i motivi sarebbero stati carenti. La censura che taccia di genericità i motivi di appello è generica, a sua volta, se limitata alla affermazione dell’insufficiente contenuto della impugnazione, senza una specifica illustrazione dei punti di tale insufficienza.
Va comunque ribadito che, essendo l’appello un mezzo di gravame con carattere devolutivo pieno, non limitato al controllo di vizi specifici, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito, il principio della necessaria specificità dei motivi -previsto dall’art. 342, comma 1, c.p.c. -prescinde da qualsiasi particolare rigore di
forme, essendo sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano indicati, oltre ai punti e ai capi formulati, anche, seppure in forma succinta, le ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle relative censure (Cass. 2320/2023; Cass. 21745/2006).
Dalla stessa esposizione dei motivi fatta nella sentenza di appello questo requisito minimo risulta rispettato.
2. -Con il secondo motivo si prospetta violazione degli articoli 115 e 116 c.p.c. e 1226 e 2056 c.c.
La censura attiene al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale.
I ricorrenti, agendo in giudizio, avevano chiesto il risarcimento del danno biologico e del danno al normale svolgimento della vita familiare all’interno della abitazione, che il giudice di primo grado aveva riconosciuto (in 4.000 euro).
Il giudice di appello, invece, lo ha ritenuto non provato, ossia aveva osservato che non poteva esservi danno allo svolgimento della vita familiare, dal momento che i ricorrenti non abitavano in quella casa.
Il motivo censura questo ragionamento, con due argomenti.
Il primo è che la prova di quelle conseguenze dannose poteva raggiungersi per presunzioni, che erano chiaramente disponibili: ad esempio, era emerso che i ricorrenti si recavano lì spesso per controllare l’abitazione e comunque era evidente che il fatto di sapere che ogni volta che ci si andava si avvertivano odori sgradevoli era di per sé un fatto indicativo del danno. Il secondo argomento è che, sempre in base agli elementi emersi, ben poteva il danno essere liquidato in via equitativa.
Il motivo è infondato.
La ratio della decisione impugnata è che non è stato provato il danno non patrimoniale, ossia non è stato provato che le immissioni abbiano costituito un pregiudizio per i ricorrenti, in quanto costoro non vivevano nell’immobile. E va considerato che il pregiudizio che essi invocavano era quello alla salute o al normale svolgimento della vita familiare. Pregiudizio che presuppone per l’appunto che le immissioni (in questo caso odori) siano percepiti quotidianamente o costantemente dai vicini di casa.
A fronte di tale dato noto (che cioè i ricorrenti non vivevano nella casa) costoro invocano alcuni altri fatti noti di segno contrario, ossia indicativi del fatto ignoto non considerato dal giudice e cioè: che i vigili avevano attestato l’esistenza di cattivi odori; che di tanto in tanto essi si recavano nell’immobile.
È evidente che il primo dei due indizi indica la condotta e non il danno, ossia indica che la vicina produceva immissioni di cattivi odori, non che esse fossero percepite dai ricorrenti; il secondo non indica il danno subito, ossia il pregiudizio alla vita familiare, che non è lesa se è svolta fuori da quei luoghi.
Né infine poteva il giudice di merito provvedere comunque ad una liquidazione equitativa, la quale è esclusa quando, pur potendo fornire la prova del danno, il danneggiato non la fornisce.
Va comunque detto che il motivo soltanto in appello è stato la domanda di risarcimento postula, tra l’altro, un generico danno non
3. -e 2909 c.c.
specificato in questi termini, mentre nell’atto di citazione patrimoniale, senza specificazione alcuna del preciso interesse leso. Il terzo motivo prospetta violazione degli articoli 115, 116 c.p.c.
La censura attiene al danno patrimoniale.
I ricorrenti avevano chiesto il ristoro di tale danno, indentificato nella perdita delle occasioni di locare l’immobile, a causa, per
l’appunto, dello stato di sporcizia e delle immissioni provocate dalla vicina.
Ritengono che il Tribunale abbia illegittimamente riformato la decisione di primo grado, che aveva riconosciuto in 900 euro tale danno.
Non solo, essi sostengono che la convenuta non aveva appellato quel capo di sentenza, ossia non aveva contestato l’ammontare di 900 euro. E dunque si era formato giudicato. Inoltre, i ricorrenti imputano alla decisione di secondo grado un travisamento della prova.
4. -Il quarto motivo prospetta anche esso violazione dell’articolo 115 c.p.c.
Attiene alla medesima questione.
Si assume un errore percettivo del giudice di merito sul contenuto della testimonianza della persona intenzionata a concludere il contratto di locazione, ma che poi si è ravveduta per via delle condizioni igieniche.
Secondo il Tribunale, dalla dichiarazione testimoniale non emergeva per quanto tempo il teste sarebbe stato disposto a prendere in locazione l’immobile.
Invece, secondo i ricorrenti, era chiaramente scritto, nella dichiarazione del teste, che la durata sarebbe stata di 4 anni.
I due motivi, che pongono una questione comune, sono inammissibili.
Intanto, non si può essere formato giudicato su un capo di sentenza, che, nel fatto, è impugnato dalla appellante. E’ principio di diritto infatti che <> (Cass. 30728/2022).
L’impugnazione sul fatto, dunque, devolve al giudice di appello l’intero capo di sentenza, ossia anche la questione della qualificazione di quel fatto e degli effetti che la norma vi ricollega.
Ciò detto, il Tribunale ha rigettato la richiesta di risarcimento del danno patrimoniale, valutando come prova insufficiente l’unica testimonianza addotta, di un tale che dichiarava di essere stato interessato a pagare un canone mensile di 500 euro ma di non aver preso in locazione l’immobile per via dello stato in cui si trovava.
L’apprezzamento della insufficienza di questa prova -apprezzamento peraltro motivato rispetto alla decisione di primo grado che aveva liquidato 900 euro solo perché oltre si sarebbe oltrepassato il limite della domanda -è qui incensurabile.
Né può dirsi affetta da errore percettivo, poiché la ratio di quel giudizio è l’insufficienza di quella dichiarazione a dimostrare un danno, e, nella economia di tale giudizio probatorio, la questione della durata della locazione assume rilievo secondario.
Inoltre, oltre a tale ratio decidendi , ve ne è un’altra, da sola sufficiente a sorreggere la decisione: che il Giudice di Pace ha fissato in 900 euro il danno patrimoniale, non già perché fosse emerso dalla istruttoria quell’ammontare, ma per semplice calcolo aritmetico. Avendo egli stabilito in 4.000 euro il danno non patrimoniale, non poteva riconoscere una somma superiore a 900 euro, per quello patrimoniale per non andare oltre la domanda.
I giudici di appello hanno censurato tale ragionamento, con argomenti che costituiscono ratio autonoma della decisione.
Questa ratio non è censurata, ed è una ratio che giustifica l’annullamento della decisione di primo grado.
5. -Il quinto motivo prospetta violazione dell’articolo 115 c.p.c. e dell’articolo 1226 c.c.
Si osserva che il giudice avrebbe dovuto liquidare comunque il danno patrimoniale in via equitativa, poiché la prova dell’ an era emersa e giustificava dunque la liquidazione.
Il motivo è inammissibile.
La r atio della decisione impugnata è che la prova dell’ an , ossia del verificarsi di un danno patrimoniale, non era affatto emersa. La liquidazione equitativa presuppone che il danno sia oggettivamente difficile da dimostrare, mentre nella fattispecie non lo era, almeno secondo l’apprezzamento dei giudici di merito che hanno ritenuto insufficiente la prova addotta dai ricorrenti, i quali dunque hanno tentato di fornire la prova, ma senza successo: la liquidazione equitativa non può supplire dunque ad una carenza probatoria della parte.
-Con il sesto motivo ci si duole di una violazione degli articoli 91 e 92 c.p.c.
Il Tribunale ha compensato le spese di giudizio. I ricorrenti ritengono erronea la compensazione, poiché non c’era ‘soccombenza reciproca equivalente’.
Il motivo è infondato.
E’ principio di diritto che, nel regime normativo posteriore alle modifiche introdotte all’art. 91 c.p.c. dalla l. n. 69 del 2009, in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa, ma questa non può essere condannata neppure parzialmente a rifondere le spese della controparte, nonostante l’esistenza di una soccombenza reciproca per la parte di domanda rigettata o per le altre domande respinte, poiché tale condanna è consentita dall’ordinamento solo per l’ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore
all’eventuale proposta conciliativa (Cass. 1572/2018; Cass. 26918/2018; Cass. 13212/2023)
Il ricorso va pertanto rigettato. Non si provvede sulle spese, attesa la mancata costituzione di controparte.
P.Q.M.
La Corte rigetta.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, al competente ufficio di merito, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 12/12/2024.