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Danno da errata diagnosi: la decisione della Corte

Una paziente, a seguito di un’errata diagnosi di sclerosi multipla, veniva sottoposta per cinque anni a una terapia non necessaria, subendo significativi effetti collaterali. In primo grado le veniva riconosciuto un risarcimento sia per il danno biologico temporaneo che per quello psicologico permanente (depressione). La Corte d’Appello, sulla base di una nuova perizia, ha riformato la decisione. Pur confermando il risarcimento per il danno temporaneo dovuto agli effetti del farmaco, ha escluso il danno psicologico permanente, non ravvisando un nesso di causalità diretto tra la terapia errata e un disturbo depressivo maggiore. La sentenza sottolinea l’importanza di una prova rigorosa del collegamento causale nel danno da errata diagnosi.

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Pubblicato il 20 dicembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Danno da Errata Diagnosi: Quando la Cura Causa un Danno?

Il tema del danno da errata diagnosi è uno dei più delicati nell’ambito della responsabilità medica. Un recente caso esaminato dalla Corte d’Appello di Trento offre spunti cruciali su come viene valutato il confine tra il danno effettivamente causato da un errore medico e la sofferenza psicologica legata a una grave patologia. Una paziente, dopo aver ricevuto una diagnosi sbagliata e aver seguito per anni una terapia inappropriata, ha chiesto giustizia. La decisione finale ribalta in parte il verdetto iniziale, tracciando una linea netta sulla necessità di provare il nesso di causalità.

I Fatti del Caso: Un Percorso Terapeutico Messo in Discussione

La vicenda ha inizio nel 1999, quando una donna di 35 anni viene ricoverata per una serie di sintomi neurologici. La diagnosi è severa: una patologia assimilata alla sclerosi multipla. Di conseguenza, dal novembre 2000, inizia una pesante terapia a base di interferone, con iniezioni tre volte a settimana.

Questo trattamento prosegue per quasi cinque anni, durante i quali la paziente sperimenta pesanti effetti collaterali, tra cui brividi e problemi circolatori, descritti come una costante “sindrome simil-influenzale”. Solo nel 2005, a seguito di ulteriori accertamenti, emerge la verità: la diagnosi iniziale era errata. La donna non era affetta da sclerosi multipla, ma da un’altra patologia neurologica per la quale la terapia con interferone non era indicata.

Ritenendo che la terapia non solo fosse stata inutile ma anche dannosa, la paziente cita in giudizio la struttura sanitaria, chiedendo il risarcimento per due tipologie di danno: un danno biologico temporaneo, per i quasi 700 giorni di sofferenza dovuti agli effetti collaterali, e un danno biologico permanente, legato a un grave stato di depressione che, a suo dire, era conseguenza diretta dell’errore diagnostico e terapeutico.

La Decisione di Primo Grado e l’Appello

Il Tribunale di primo grado, basandosi sulla relazione di un Consulente Tecnico d’Ufficio (CTU), accoglie le richieste della paziente. Riconosce sia il danno temporaneo, quantificato in circa 17.000 euro, sia quello permanente, valutato in una percentuale di invalidità del 23% e liquidato in oltre 91.000 euro, per un totale di circa 108.000 euro. Secondo il primo perito, la depressione maggiore cronica della paziente era causalmente collegata all’uso dell’interferone e all’errore medico.

La struttura sanitaria, tuttavia, non accetta la sentenza e presenta appello, contestando principalmente le conclusioni sulla sussistenza del danno psicologico permanente e sul suo nesso causale con l’errata terapia. La Corte d’Appello, per dirimere la questione, decide di disporre una nuova e più approfondita Consulenza Tecnica.

La Nuova Valutazione sul Danno da Errata Diagnosi

I nuovi periti nominati dalla Corte giungono a conclusioni radicalmente diverse riguardo al profilo psicologico. Dopo un’attenta analisi della documentazione e della storia clinica, escludono che la paziente sia affetta da un disturbo depressivo maggiore. La sua condizione viene invece inquadrata come un “disturbo dell’adattamento”, ovvero una reazione emotiva, seppur intensa, del tutto comprensibile e coerente con la gravità della sua reale patologia neurologica, una malattia cronica e progressiva con pesanti ricadute sulla vita quotidiana.

Le Motivazioni della Corte d’Appello

La Corte d’Appello sposa integralmente le conclusioni della nuova perizia, riformando la sentenza di primo grado. Le motivazioni si fondano su una rigorosa applicazione del principio del nesso di causalità.

Il punto centrale è la mancanza di prova di un collegamento diretto tra la somministrazione di interferone e un danno psichico permanente. I periti chiariscono che, sebbene l’interferone possa causare sintomi depressivi, questi sono generalmente reversibili con la sospensione del farmaco. Nel caso di specie, la sofferenza psicologica della paziente appare molto più legata alla consapevolezza di avere una malattia neurodegenerativa cronica e alle difficoltà quotidiane che ne derivano (problemi di deambulazione, necessità di cateterismi, etc.) piuttosto che all’errore medico passato. In altre parole, la sua sofferenza non sarebbe stata diversa se la diagnosi corretta fosse arrivata fin da subito.

La Corte, invece, conferma pienamente il diritto al risarcimento per il danno biologico temporaneo. I giudici riconoscono che la paziente ha dovuto sopportare per cinque anni gli effetti collaterali debilitanti di una terapia inutile. Le quasi 700 iniezioni e la conseguente sindrome simil-influenzale hanno rappresentato un’indubbia lesione della sua integrità psico-fisica. Per questo, viene confermata la liquidazione di 16.926,00 euro, oltre a rivalutazione e interessi.

Infine, la Corte analizza e respinge anche le domande di manleva che la struttura sanitaria aveva avanzato nei confronti delle proprie compagnie assicurative, basandosi sull’interpretazione delle specifiche clausole contrattuali (loss occurrence e claims made) e sulla tempistica della denuncia del sinistro.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche della Sentenza

La decisione finale della Corte d’Appello condanna la struttura sanitaria a risarcire la paziente, ma solo per il danno temporaneo subito. Viene quindi respinta la richiesta, economicamente ben più consistente, legata al presunto danno psicologico permanente.

Questa sentenza offre due importanti insegnamenti. Primo, ribadisce la centralità del nesso di causalità: non è sufficiente che un danno si manifesti dopo un errore medico, ma è necessario dimostrare con rigore scientifico che l’errore ne sia stata la causa diretta e principale. Secondo, distingue nettamente tra la sofferenza psicologica reattiva a una grave malattia, che è una condizione umana comprensibile, e un disturbo psichiatrico specifico e permanente causato da un trattamento. Solo quest’ultimo può essere risarcito come danno permanente, a patto che il legame causale sia inequivocabilmente provato.

Un’errata diagnosi è sempre fonte di risarcimento per danno psicologico?
No. La sentenza chiarisce che è necessario dimostrare un nesso di causalità diretto e rigoroso tra l’errore medico (o la terapia conseguente) e un disturbo psicologico permanente e diagnosticabile. La sofferenza emotiva legata alla consapevolezza di essere affetti da una grave malattia, definita come ‘disturbo dell’adattamento’, non è automaticamente attribuibile all’errore diagnostico.

Gli effetti collaterali di un farmaco somministrato per errore sono risarcibili?
Sì. La Corte ha confermato il pieno diritto al risarcimento del danno biologico temporaneo causato dagli effetti collaterali debilitanti (in questo caso, una sindrome simil-influenzale per quasi 700 giorni) di un farmaco somministrato a causa di una diagnosi sbagliata. Questo tipo di danno è considerato una conseguenza diretta e provata del trattamento errato.

Come viene accertato il nesso di causalità in un caso di responsabilità medica?
Il nesso di causalità viene accertato principalmente attraverso una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU), ovvero una perizia disposta dal giudice. Gli esperti nominati analizzano tutta la documentazione medica, la letteratura scientifica e visitano il paziente per stabilire, secondo un criterio di probabilità logica e scientifica, se l’azione del sanitario sia stata la causa diretta del danno lamentato, escludendo il ruolo di altre possibili cause come la patologia preesistente o altri fattori esterni.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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