Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 2 Num. 14811 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 2 Num. 14811 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22931/2023 R.G. proposto da:
NOME, NOME COGNOME, NOME COGNOME, elettivamente domiciliati in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che li rappresenta e difende
-ricorrenti principali, controricorrenti- contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che lo rappresenta e difende
-resistente, ricorrente incidentale- avverso DECRETO di CORTE D’APPELLO SALERNO n. 1547/2023 depositato il 30/05/2023.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26/02/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME, NOME e NOME COGNOME in proprio e quali eredi di NOME COGNOME domandarono il riconoscimento di indennizzo per equa riparazione per l’irragionevole durata di un processo civile introdotto dal loro dante causa nel
settembre 2003 oltre al risarcimento dei danni patrimoniali che pure affermavano di aver subito; pronunciato dal Giudice delegato decreto monitorio con attribuzione di indennizzo per il danno non patrimoniale subito dagli eredi Palo iure proprio , erano state respinte la richiesta di indennizzo pure formulata iure hereditatis e la domanda di risarcimento per i danni patrimoniali prospettati.
Gli eredi NOME proposero opposizione insistendo, per quanto ancora qui interessa, per l’accoglimento della domanda risarcitoria proposta in relazione al danno patrimoniale che ritenevano di avere subito.
La Corte d’Appello di Salerno, rigettò l’opposizione quanto al richiesto risarcimento del danno patrimoniale per le seguenti considerazioni: -gli opponenti, onerati della prova della pretesa risarcitoria, avevano addotto elementi solo ipotetici, non concreti e non dimostrati; -i Palo avevano affermato che la società debitrice RAGIONE_SOCIALE condannata in primo grado al cospicuo importo di € 700.000,00 oltre accessori, sarebbe stata una società attiva ed idealmente solvibile fino al 2012, mentre in seguito non avrebbe depositato i bilanci per otto anni circa e sarebbe divenuta insolvibile, tanto che non sarebbe stato possibile notificare il precetto presso la sede sociale; l’impossibilità di recuperare il credito accertato avrebbe dovuto essere considerata, secondo gli opponenti, conseguenza diretta dell’eccessivo protrarsi del processo che, se si fosse concluso nei soli tre anni previsti, e cioè entro il 2006, avrebbe reso possibile il recupero del dovuto; le affermazioni degli opponenti erano però non sufficientemente provate, perché la solvibilità della società non si può ritenere dimostrata dal solo deposito dei bilanci, così come dal loro mancato deposito non si può desumerne l’insolvibilità; -sarebbe stato altresì possibile ai creditori attuare altri meccanismi processuali di tutela, anche cautelare, per preservare la garanzia del credito; risultava dagli atti che gli opponenti, concluso il processo presupposto, avevano attivato le procedure volte alla soddisfazione del credito, anche con ricerca con modalità telematica dei beni da pignorare presso gestori di banche dati, il cui esito non era dato conoscere; mancavano quindi i presupposti per riconoscere tale voce di danno; -tenuto conto dell’esito della lite, si compensavano per la metà le spese processuali, poste per la rimanente metà a carico del Ministero.
Contro il decreto di rigetto dell’opposizione, propongono ricorso per cassazione NOMECOGNOME NOME e NOME COGNOME affidandolo a sette motivi illustrati da memoria.
Il Ministero resiste con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1 Con il primo motivo i signori COGNOME denunziano la nullità del decreto per motivazione apparente, in relazione all’art.360 c.p.c. co 1 n.4 c.p.c.
Secondo i ricorrenti l’apparenza della motivazione del provvedimento impugnato deriverebbe dal fatto che non sarebbe stato svolto l’esame specifico dei dati di bilancio da loro evidenziati, volti a dimostrare la sicura solvibilità della società debitrice fino al 2008, e dal fatto che non sarebbe stato considerato significativo, per il periodo successivo al 2012, il dato in sé del mancato deposito di bilanci.
Il motivo di ricorso è infondato.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità il vizio di motivazione apparente ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante, Sez. U, Ordinanza n. 2767/2023).
Nel caso di specie la Corte di merito ha fornito una motivazione chiaramente percepibile e logicamente comprensibile quanto alle ragioni sulla cui base ha ritenuto di respingere la domanda di risarcimento del danno patrimoniale pure formulata dai ricorrenti – laddove in ordine alla asserita iniziale solvibilità della società convenuta nel giudizio presupposto, ha motivato facendo riferimento alla possibilità, per la parte attrice di esperire azioni a tutela della garanzia patrimoniale.
Nella sostanza quello che realmente richiedono i ricorrenti è la rivalutazione dell’interpretazione e della valorizzazione degli elementi istruttori operata dal Giudice del merito, che è attività preclusa in sede di legittimità.
Con il secondo motivo di critica si denunzia la nullità della sentenza della Corte d’Appello di Salerno per motivazione illogica e contraddittoria, in relazione all’art.360 c.p.c. co 1 n.3 c.p.c.
I ricorrenti ritengono che non sia stato provato il nesso di causalità tra la durata del processo e l’impossibilità di recupero del credito: a loro dire, la motivazione offerta dalla Corte di merito sarebbe contraddittoria, laddove dapprima ha ritenuto ‘ non desumibile la solvibilità della società debitrice (e quindi, la recuperabilità del credito), sulla base del deposito dei bilanci da parte della stessa, per poi affermare potersi ritenere desumibile la non recuperabilità del credito solo in caso di
esperimento di un sequestro, però inutile in presenza di una situazione del debitore di cui si afferma insussistente la capacità patrimoniale ‘; a ciò si dovrebbe aggiungere l’illogicità, per plurimi profili, della prospettazione a carico dei ricorrenti dell’onere di proporre un’istanza cautelare.
Il motivo è inammissibile.
In seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (così Cass. n.7020/2022; v. anche SSUU n. 8053/2014).
Nel caso di specie, ribadita l’esistenza di una motivazione effettiva, logicamente sviluppata e chiaramente percepibile, non ricorre alcuna delle anomalie suscettibili di incidere sul rispetto del disposto dell’art.111 comma 6 Cost., e quindi teoricamente rilevanti ex art.360 c.p.c.: anche in questo caso i rilievi dei ricorrenti vorrebbero ottenere una rivisitazione del merito della controversia attraverso il riesame del materiale istruttorio acquisito, preclusa in sede di legittimità.
Con il terzo motivo, articolato in due parti -3 e 3 bis-, i ricorrenti Palo denunziano la violazione o falsa applicazione dell’art.115 c.p.c. in relazione all’art.360 c.p.c. co 1 n.3, e/o, sempre in relazione alla norma da ultimo citata, dell’art.116 c.p.c.
Quanto alla proposta violazione dell’art.115 c.p.c., ‘ si censura l’illegittimità dell’eventuale uso di argomenti di comune esperienza equiparando a tale stregua l’esperimento di un ipotetico e non definito altro rimedio ‘.
Quanto alla lamentata violazione del disposto dell’art.116 c.p.c., si censura l’utilizzo, affermato illegittimo, delle prove acquisite, ‘ anteponendo la tesi della mancata adduzione delle risultanze di una possibile istanza cautelare ai dati di bilancio che, all’epoca considerata, dimostravano come la società, risultata debitrice al termine del giudizio, era in grado di adempiere al dovuto se la sentenza fosse intervenuta nei
tempi ragionevoli ‘ -le parti tra virgolette descrittive del motivo 3/3 bis sono tratte letteralmente dal ricorso-.
Entrambi i profili di doglianza evidenziati, sia con riferimento alla violazione dell’art.115 c.p.c., sia con riferimento alla violazione dell’art.116 c.p.c., sono infondati.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno esplicitato i limiti di rilevabilità, con il ricorso per cassazione, della violazione degli art.115 e 116 c.p.c., nella sentenza n.20867/2020, alle cui indicazioni si è attenuta la giurisprudenza successiva, affermando che: in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa -secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione.
In tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c .
Nel caso di specie non sono state nemmeno allegate attività valutative del Giudice di merito rientranti nell’ambito delle censure ammissibili in quanto violative, nei termini sopra evidenziati dalla giurisprudenza di legittimità, degli art.115 e 116 c.p.c., rivelandosi anche per questi profili le critiche formulate dai Palo come volte a
ridiscutere gli aspetti fattuali della materia controversia al fine di ridefinirli attraverso valutazioni tipicamente meritali.
La Corte d’Appello, esaminando gli elementi di prova offerti ricorrenti, li ha ritenuti insufficienti e privi di riscontro, con riferimento all’esistenza del necessario nesso di causalità tra l’eccessiva durata del processo e i pretesi danni, facendone ricadere le conseguenze sulla parte onerata della relativa prova.
E’ il caso di richiamare, in proposito, l’orientamento interpretativo di questa Corte secondo il quale non vi è relazione diretta, tantomeno automatica, tra la durata eccessiva del processo e il danno economico derivante dal sopravvenire di una situazione di insolvenza della parte debitrice: infatti, in tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo, in forza del principio della causalità adeguata, il danno economico può ritenersi ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale eccessiva durata sulla base di una normale sequenza causale, laddove lo stato di incapienza o il fallimento del debitore, sopravvenuti nel corso del procedimento rivolto all’accertamento del diritto del creditore, con la conseguente difficoltà di quest’ultimo di ottenere il soddisfacimento, interrompono detta sequenza assumendo – quali fattori idonei a produrre, da soli, l’evento – rilevanza esclusiva ed assorbente nella causazione del danno lamentato, trattandosi di fatti autonomi, eccezionali ed atipici rispetto alla serie causale già in atto, che comportano la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni: così Cass. n.33004/2024; cfr. anche, nello stesso senso, Cass. n.22973/2017.
Il quarto motivo di ricorso censura l’omissione di pronuncia, rilevante ex art.360 co 1 n.4 c.p.c.
La Corte di merito avrebbe omesso di pronunciare sulla specifica richiesta di ravvisare ‘ il nesso tra lungaggine processuale e danno, anche in considerazione del fatto che il danno stesso si è incrementato significativamente (oltre euro 400.000,00) nel periodo successivo a quello in cui il giudizio si sarebbe dovuto concludere ‘; ciò non sarebbe avvenuto ‘ se la società debitrice avesse dovuto fare i conti con il rilevante debito già accumulato e con l’accertamento degli abusi già posti in essere che le avrebbero impedito di mantenere l’autorizzazione estrattiva di cui era titolare e, comunque, perfino di continuare l’attività di impresa, laddove fosse stata dichiarata fallita in forza di detto debito ‘ -le parti tra virgolette, descrittive del motivo sub 4, sono tratte letteralmente dal ricorso proposto-.
La censura è infondata.
In tema di ricorso per cassazione, il vizio di omessa pronuncia, censurabile ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. per violazione dell’art. 112 c.p.c., ricorre ove il giudice ometta completamente di adottare un qualsiasi provvedimento, anche solo implicito di accoglimento o di rigetto ma comunque indispensabile per la soluzione del caso concreto, sulla domanda o sull’eccezione sottoposta al suo esame, mentre il vizio di omessa motivazione, dopo la riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia stato, ma sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico oppure si sia tradotto nella mancanza assoluta di motivazione, nella motivazione apparente, nella motivazione perplessa o incomprensibile o nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili -così, da ultimo, Cass. n.27551/2024-.
La doglianza dei ricorrenti è rivolta a censurare la pretesa mancata considerazione da parte della Corte d’Appello di Salerno di circostanze di fatto che, se valorizzate, avrebbero nella loro prospettazione offerto la dimostrazione di esistenza del nesso di causalità tra durata irragionevole del processo e danno per sopravvenuta insolvibilità della parte debitrice.
Detta doglianza si pone, per quanto sopra detto, certamente al di fuori del disposto dell’art.112 c.p.c. e al di fuori del disposto dell’art.360 co 1 n.4 c.p.c. e, se anche si ritenesse ammissibile -ciò che non è- una ridefinizione del motivo, sia quanto al contenuto, sia quanto al riferimento normativo, per esso identificabile nell’art.360 co 1 n.5 c.p.c., il motivo sarebbe comunque infondato per le considerazioni svolte nell’esaminare il motivo sub 3, atte ad escludere in radice qualsivoglia decisività ai fatti di cui si lamenta l’omissione, e per il fatto che il Giudice di merito non è tenuto a dare conto esplicito di tutte le circostanze valorizzate dalle parti, circostanze che possono essere disattese anche implicitamente alla luce del percorso logico motivazionale seguito per giungere alla decisione.
Anche il quinto motivo di ricorso propone la ‘ violazione o falsa applicazione degli art.115 e 116 c.p.c. ‘ in relazione all’art.360 c.p.c. co 1 n.3.
Con questo motivo ‘ si censura quanto ritenuto dal giudice di merito a proposito della prova offerta a mezzo della produzione del report esitato all’istanza ex art.492 bis c.p.c. Questo dava conto di rapporti economici e finanziari esauritisi nel corso del giudizio, e dunque dell’insussistenza, di qualsiasi eventuale credito aggredibile al termine di esso ‘ -così letteralmente dal ricorso-.
Il motivo è infondato e le considerazioni svolte nell’esaminare il terzo motivo di ricorso ( a cui pertanto si rinvia, per evitare inutili ripetizioni)
Il sesto motivo critica la ‘ violazione o falsa applicazione art.2697 c.c. in relazione all’art.1223 c.c. e all’art.2 bis co 2 l. n.89/2021 ‘, rilevante ai sensi dell’art.360 c.p.c. co 1 n.3.
A dire dei ricorrenti, sarebbe stato dilatato ‘ ultra vires l’onere probatorio della parte istante, in particolare esigendo una prova ulteriore, rispetto a quella risultante dall’esperimento della procedura ex art.492 bis c.p.c .’ (così letteralmente si legge in ricorso), non considerando che il danno si era incrementato in corso di giudizio, come emergente dalla disposta CTU, nel periodo successivo al termine di ragionevole durata del processo.
Il motivo è infondato.
La violazione del disposto dell’art.2697 c.c. in tanto può essere rilevante, ex art.360 co 1 n.3 c.c., in quanto ‘… il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poichè in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c.’ -così, in linea con un orientamento interpretativo costante, Cass. n.17313/2020-.
Nonostante il riferimento al disposto dell’art.2697 c.c., i ricorrenti non lamentano la loro identificazione, ad opera della Corte d’Appello, come soggetti onerati della prova del danno preteso subito e della sua relazione causale diretta con la durata irragionevole del processo presupposto ma si dolgono della concreta applicazione della regola di giudizio richiamata da parte della Corte di merito nella valutazione dell’adempimento dell’onere loro correttamente attribuito.
Il motivo di ricorso in esame non si pone quindi nell’ambito della teorizzata violazione di legge ma richiede ancora, nella sostanza, una reiterazione dell’attività di interpretazione e valutazione degli elementi dell’istruttoria esperita dalla Corte d’Appello, che è attività meritale preclusa in sede di legittimità.
Anche il settimo motivo prospetta una omessa pronuncia, comportante la nullità della sentenza rilevante ex art.360 n.4 c.p.c.
Non vi sarebbe infatti motivazione, secondo i ricorrenti, in ordine alla domanda subordinata di risarcire almeno le spese di lite, liquidate solo all’esito del lunghissimo giudizio.
Anche questo motivo di ricorso è infondato.
La Corte di merito non ha affatto omesso la valutazione del profilo della domanda risarcitoria proposta dai ricorrenti, sopra evidenziata, perché già dalla ritenuta assenza di prova del nesso causale tra pendenza irragionevole del giudizio presupposto e insolvenza della parte debitrice/danno deriva il suo rigetto.
Si richiama comunque l’orientamento interpretativo di questa Corte, che esclude possa costituire danno patrimoniale correlabile alla ingiustificata durata del processo l’importo corrispondente alle spese legali relative al processo presupposto (regolate dal principio della soccombenza e, più in generale, dalle disposizioni degli art.91 e s. c.p.c. in relazione all’andamento di quel giudizio, in modo specifico ed esaustivo): infatti, in tema di equa riparazione ex l. n. 89 del 2001, il danno da riparare è unicamente quello che sia derivato alla parte come conseguenza immediata e diretta del fatto che la controversia si è eccessivamente protratta nel tempo e che la sua soluzione è stata ottenuta con ingiustificato ritardo o non è stata ancora ottenuta pur essendo trascorso un lasso di tempo irragionevole, cosicché non sono indennizzabili le spese legali sostenute per far valere il proprio diritto nel giudizio presupposto, trattandosi di spese la cui definizione è circoscritta nell’ambito di quella vicenda processuale (Cass. n.16327/2020).
8. Occorre adesso esaminare il ricorso incidentale del Ministero della Giustizia articolato in un solo motivo, con il quale ci si duole della condanna al pagamento delle spese. Rileva in particolare il Ministero che, accolta dal Giudice Delegato la richiesta del solo indennizzo per il danno non patrimoniale subito iure proprio da NOME, NOME e NOME COGNOME per irragionevole durata del processo, l’opposizione proposta dai signori COGNOME in relazione alle altre domande risarcitorie disattese in sede sommaria era stata totalmente respinta, con conferma del provvedimento opposto rispetto al quale il Ministero, che si era limitato a chiedere il rigetto dell’opposizione, non aveva sollevato contestazioni. Le spese processuali della fase di opposizione avanti alla Corte d’Appello di Salerno dovevano pertanto rimanere, secondo il Ministero, totalmente a carico dei soccombenti; ciò anche al fine di non incentivare opposizioni mirate al solo incremento del rimborso delle spese processuali.
Il ricorso incidentale è fondato.
Si richiama, perché totalmente in termini, l’ordinanza della Corte di Cassazione n.22359/2023, che ha condivisibilmente rilevato che … per pacifica giurisprudenza di questa Corte, occorre avere riguardo all’esito finale della causa a seguito dell’opposizione ai fini della liquidazione delle spese, solo in caso di accoglimento totale o parziale – dell’opposizione stessa formulata dalle parti private (cfr. Cass. n. 26851/2016 e Cass. n. 9728/2020, al cui richiamato principio di diritto dovrà uniformarsi il giudice di rinvio), da cui consegue che, in caso di rigetto dell’opposizione, si applicano per detta fase di giudizio le disposizioni degli art.91 e s. c.p.c. e, prima di tutto, il principio della soccombenza, senza intervento sulla fase precedente conclusasi con il provvedimento inutilmente opposto.
Sussiste quindi, anche nel caso di specie come in quello -sovrapponibile per la questione in esame- esaminato nella sentenza n.22359/2023, la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., dovendo – di regola – essere applicato il principio della soccombenza (ma, nel caso di specie, a favore del Ministero vittorioso), fatta salva la sussistenza di idonee giustificate ragioni per disporre la compensazione totale o parziale delle spese dello stesso procedimento, con la precisazione che anche per l’eventualità della ricorrenza delle condizioni per addivenire alla compensazione parziale delle spese, la Corte territoriale, all’esito del giudizio di opposizione, non avrebbe potuto giammai condannare il suddetto Ministero al pagamento della residua parte, ma avrebbe dovuto porlo, semmai, a carico delle parti opponenti soccombenti, per essere stati i decreti di liquidazione dell’equo indennizzo confermati integralmente, così riconoscendosi l’insussistenza di qualsiasi ragione di accoglimento della loro opposizione.
In conclusione, respinto il ricorso principale e, in accoglimento del solo ricorso incidentale, il decreto impugnato deve essere cassato limitatamente alla pronuncia sulle spese processuali con il rinvio della causa, alla Corte di Appello di Salerno, in diversa composizione collegiale, che si uniformerà ai citati principi e regolerà anche le spese del presente giudizio.
P. Q. M.
La Corte respinge il ricorso principale e, in accoglimento del ricorso incidentale, cassa il provvedimento impugnato in relazione al motivo accolto, e rinvia alla Corte d’Appello di Salerno, in diversa composizione, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nell’adunanza in camera di consiglio della Seconda Sezione