Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 15821 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 15821 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 13/06/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n.
12927/2020 r.g., proposto da
COGNOME NOME , elett. dom.to in INDIRIZZO Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME.
ricorrente -controricorrente incidentale contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , elett. dom.to in INDIRIZZO, Roma , rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME
contro
ricorrente -ricorrente incidentale
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 3569/2019 pubblicata in data 21/10/2019, n.r.g. 6551/2013.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 27/03/2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
RILEVATO CHE
1.- NOME COGNOME era dipendente di Poste Italiane RAGIONE_SOCIALE inquadrato come quadro di primo livello. Deduceva che da aprile 1995 a luglio 1996 aveva svolto mansioni proprie della categoria dirigenziale e di avere pertanto maturato il diritto a ll’inquadramento come dirigente di secondo livello ed al relativo trattamento economico e normativo.
OGGETTO:
demansionamento -danno alla professionalità -nozione -conseguenze -accertamento in concreto -elementi presuntivi -sufficienza -previdenza complementare – fondo PREVINDAI – autonoma soggettività giuridica conseguenze
Aggiungeva che dalla fine del mese di luglio 1996 era stato illegittimamente demansionato e dequalificato sia con riferimento alla categoria dirigenziale che a quella di quadro di primo livello. Deduceva che in conseguenza di ciò aveva patito danno alla pr ofessionalità, all’integrità psico -fisica, all’immagine, alla propria dignità e alla propria dimensione esistenziale.
Adìva il Tribunale di Roma per ottenere l’accertamento del diritto all’inquadramento nella categoria dirigenziale, nonché della dequalificazione e del demansionamento patiti e la condanna di Poste Italiane spa al pagamento di euro 427.818,47 a titolo di differenze retributive, di euro 968.094,15 a titolo di risarcimento del danno professionale e di euro 235.275,00 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale.
2.- Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale rigettava le domande.
3.- Con sentenza non definitiva n. 5713/2017 del 21/12/2017 la Corte d’Appello, in parziale accoglimento del gravame interposto dal COGNOME, dichiarava l’avvenuto svolgimento di mansioni dirigenziali dall’01/04/1995 e il conseguente diritto dell’appellant e ad essere inquadrato nella categoria dirigenziale dopo sei mesi ossia dal 02/10/1995, condannava Poste Italiane spa ad attribuire al COGNOME la qualifica dirigenziale e ad adibirlo alle medesime mansioni svolte alla predetta data del 02/10/1995 oppure equivalenti, nonché a pagare al medesimo la somma di euro 427.818,47 a titolo di differenze retributive relative al periodo dal 15/06/2000 al 30/04/2011, oltre a quelle successive, nonché al versamento dei relativi contributi previdenziali non prescritti, e disponeva il prosieguo dell’istruttoria per le domande relative al dedotto demansionamento e per quelle risarcitorie.
4.Espletata una consulenza tecnica d’ufficio di tipo medico -legale, con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello condannava Poste Italiane a pagare all’appellante la somma di euro 16.606,00 a titolo risarcitorio, oltre interessi legali dal 17/03/2006 da calcolare sulla somma capitale dapprima devalutata alla predetta data e poi rivalutata anno per anno; compensava per un terzo le spese di lite e condannava la società a rimborsare all’appellante i residui due terzi.
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
grava sul datore di lavoro provare l’esatto adempimento dell’obbligo imposto dall’art. 2103 c.c. (Cass. n. 17365/2018), ma grava sul lavoratore l’onere di allegare le circostanze significative dell’inadempimento datoriale e soprattutto di provare il danno ed il nesso causale fra inadempimento e danno (Cass. n. 23146/2016);
non ad ogni sottoutilizzazione corrisponde un danno e quindi di volta in volta occorre accertare il tipo di danno in correlazione con il tipo di dequalificazione/demansionamento verificatosi in concreto;
a tal fine soccorrono elementi indiziari, come la qualità e la quantità della pregressa esperienza lavorativa, il tipo di professionalità colpita, il grado e l’intensità dell’illecito, la durata dell’illecito;
forma meno grave e significativa di demansionamento è quella della restituzione del lavoratore a mansioni proprie del livello di appartenenza a seguito dell’assegnazione a mansioni superiori per periodi brevi;
nel caso di specie vi sono prove di assegnazione del COGNOME a mansioni inferiori rispetto a quelle della categoria dirigenziale;
tuttavia fino ad ottobre 2003 emerge l’assegnazione a mansioni proprie del livello formale di inquadramento, atteso che le risultanze istruttorie sono poco chiare, poiché si tratta di testimonianze lacunose o poco persuasive e prive di riscontri documentali;
certo è che negli anni in questione l’appellante rimase spesso assente per motivi di salute;
anche la dedotta inattività è rimasta priva di prova certa, anzi dall’allegato 36 al ricorso di primo grado si evince che in data 17/05/2006 ricevette una mail con cui, lungi dall’essere sollevato da ogni incarico, era stato invitato ad un colloquio conoscitivo;
dal complesso delle risultanze istruttorie risulta quindi che dal 2003 al 2010 il COGNOME era rimasto operativo presso la struttura ‘sviluppo rete telecomunicazioni (TLC)’ sotto la direzione del dirigente COGNOME occupandosi di varie incombenze senza mai essere stato inattivo;
resta ferma l’incertezza circa la qualità delle mansioni svolte e quindi la loro corrispondenza con quelle proprie del livello di formale inquadramento, non emergendo la responsabilità di alcun gruppo di lavoro;
tale incertezza va imputata alla società, che aveva l’onere di provare l’esatto adempimento dell’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni riferibili al suo inquadramento;
è poi pacifico che dal 26/04/2010 al maggio 2011 il COGNOME fu assegnato alla divisione servizi postali e contestualmente chiamato a partecipare ad un corso di riqualificazione dei quadri della durata di diciotto mesi;
in tale periodo l’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle di formale inquadramento è da escludere, perché la riqualificazione era proprio diretta ai quadri ed i progetti svolti sono comuni a tutti i partecipanti, nell’ambito del piano di riqual ificazione complessiva;
in definitiva, può dirsi accertata l’assegnazione a mansioni inferiori a quelle di dirigente per tutto il periodo dedotto in lite (1996/2011) e anche nel periodo dal 2003 al 2010 l’assegnazione a mansioni inferiori a quelle anche di quadro formalmente attribuite;
vanno escluse sia l’inattività, sia l’attribuzione di mansioni mortificanti e notevolmente peggiorative rispetto a quelle di quadro;
queste conclusioni si armonizzano con le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio di tipo medico -legale, da cui emerge un disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso misti, a carattere cronico, con un danno biologico in termini di invalidità permanente del 10%;
sul piano del danno, va escluso quello alla professionale, che nell’accezione intesa dal De Donno si sostanzia in un pregiudizio patrimoniale di perdita di chance di avanzamento di carriera;
tale danno va escluso, in quanto assorbito dalle ragguardevoli differenze retributive, né l’appellante ha precisato quali sarebbero state le progressioni all’interno della categoria dirigenziale e le concrete sue possibilità di avanzamento;
quanto al danno alla persona, è certo risarcibile quello c.d. differenziale e quello c.d. complementare, ossia non coperto dal sistema dell’assicurazione obbligatoria a carico dell’INAIL ai sensi dell’art. 13 d.lgs. n. 38/2000;
lo scomputo dell’indennizzo dovuto dall’INAIL va operato anche d’ufficio e pure se il lavoratore in concreto non abbia mai percepito tale indennizzo (Cass. n. 9166/2017);
vanno adottate le tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, che si caratterizzano per l’adozione del criterio del c.d. punto pesante, comprensivo di valori riferibili al danno non patrimoniale in tutte le sue componenti;
con riguardo al calcolo liquidatorio del danno, spetterebbero euro 23.799,00 a titolo di danno non patrimoniale di cui euro 19.833,00 tenuto conto dell’età di 59 anni al momento dell’insorgenza del danno nel 2006 e della percentuale del 10% + l’aumento per sonalizzato del 20%, considerata la notevole durata dei periodi di dequalificazione e di demansionamento;
dalla predetta somma va detratta quella di euro 7.193,00 pari all’indennizzo astrattamente spettante secondo le tabelle INAIL;
va rigettata la domanda di condanna al pagamento dei contributi dovuti al FASI (Fondo Assistenza Sanitaria Integrativa) e al RAGIONE_SOCIALE (fondo di previdenza complementare), poiché l’appellante non ha spiegato l’interesse e la legittimazione a tale domanda.
5.- Avverso la sentenza non definitiva RAGIONE_SOCIALE proponeva ricorso per cassazione iscritto al n.r.g. 19920/2018, dichiarato inammissibile da questa Corte con ordinanza n. 28400/2022 del 29/09/2022.
6.- Avverso la sentenza definitiva COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
7.- Poste Italiane RAGIONE_SOCIALE ha resistito con controricorso ed a sua volta ha proposto ricorso incidentale, affidato ad un motivo.
8.- NOME COGNOME ha resistito al ricorso incidentale con controricorso.
9.- Entrambe le parti hanno depositato memoria.
10.- Il collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
CONSIDERATO CHE
RICORSO PRINCIPALE
1.- Con il primo motivo il ricorrente lamenta ‘violazione e/o falsa applicazione’ degli artt. 2103 e 2729 c.c., nonché 112 c.p .c. per avere la Corte territoriale escluso il diritto al risarcimento del danno alla
professionalità, sul presupposto che esso sia riconducibile unicamente a un danno patrimoniale da perdita di chance e sia integralmente risarcito dalle differenze retributive.
Il motivo è infondato.
In primo luogo non sussiste l’omissione di pronunzia, avendo la Corte territoriale espressamente deciso su questo capo di domanda (v. sentenza impugnata, par. 8), pag. 9).
In secondo luogo, contrariamente all’assunto del ricorrente, i giudici d’appello si sono limitati ad escludere la sussistenza di un danno patrimoniale sotto il profilo reddituale, vista la sentenza non definitiva con cui al medesimo COGNOME erano state riconosciute tutte le differenze retributive rispetto alla categoria dirigenziale riconosciuta.
Inoltre, con riguardo all’ulteriore e diverso profilo perdita di chance in termini di possibile sviluppo di carriera -i giudici d’appello hanno evidenziato la mancata deduzione specifica di pregiudizi in tal senso, non avendo il De Donno precisato quali potessero essere le progressioni interne alla categoria dirigenziale e quali fossero le sue concrete possibilità di avanzamento. Quindi il rigetto è stato motivato sulla base della mancata specificazione di sufficienti allegazioni e, in conclusione, per difetto di prova dei fatti costitutivi di questo capo di domanda.
Il motivo è infondato anche con riguardo all’ulteriore censura, con cui il ricorrente addebita alla Corte territoriale di aver limitato l’esame della domanda risarcitoria relativa al danno alla professionalità in termini di pregiudizio alle possibilità di avanzamento di carriera, omettendo di valutare altresì l’altra componente patrimoniale, rappresentata dall’impoverimen to della capacità professionale e dalla mancata acquisizione di maggiori capacità, componente pure appartenente all’area della professionalità tutelata dall’art. 2103 c.c.
Va premesso che la censura attiene ad un error in procedendo , sicché questa Corte diviene ‘giudice del fatto processuale’ e quindi a condizione dell’autosufficienza del motivo, nella specie sussistente ha accesso diretto agli atti processuali.
Orbene, dall’esame sia della parte del ricorso di primo grado (pp. 66-68), sia del sesto motivo del ricorso di appello (pp. 31-32), in cui il lavoratore si
era doluto dell’omessa considerazione di questo profilo di danno (v. ricorso per cassazione, pp. 13-16 e p. 14 nota 1) deve rilevarsi come effettivamente mancavano specifiche allegazioni. Egli si era infatti limitato a dedurre un danno professionale consistente ‘ nel pregiudizio derivante dall’impoverimento della capacità professionale del lavoratore acquisita con anni di esperienza, nonché dalla mancata acquisizione di nuove capacità e della conseguente compromissione delle aspettative di miglioramento all’interno dell’azienda e dalla perdita di chance ‘. Questa Corte ha effettivamente evidenziato che l’impoverimento della capacità professionale è una componente patrimoniale del pregiudizio da demansionamento ulteriore rispetto alla perdita di chance (Cass. n. 16595/2019). Ma l’esame e la cognizione di tale componente richiede pur sempre specifiche allegazioni relative alla incidenza di quel pregiudizio sulla capacità reddituale del danneggiato che invece, nel caso in esame, mancano. Quelle articolate dal De Donno, infatti, attengono solo al ‘ danno evento ‘ e non al ‘ danno conseguenza ‘ , che invece rappresenta pur sempre la posta patrimoniale da liquidare e, prima ancora, da allegare e provare, con onere a carico del lavoratore (Cass. ord. n. 24585/2019).
2.- Con il secondo motivo il ricorrente lamenta ‘violazione e/o falsa applicazione’ degli artt. 2059, 2087, 2103 e 2729 c.c., 112 e 115 c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso la pronunzia sul ‘danno non patrimoniale’ dedotto come derivato da una dequalificazione durata complessivamente per quindici anni.
Il motivo è infondato.
L’omissione di pronunzia non sussiste, avendo la Corte territoriale specificamente accertato la componente biologica e quella morale del danno non patrimoniale, tanto da aver provveduto alla relativa liquidazione mediante le tabelle in uso presso il Tribunale meneghino. Ha altresì provveduto ad una personalizzazione finale del risultato, riconoscendo una maggiorazione del 20%, proprio in funzione della completa tutela risarcitoria dei valori personali (ossia non patrimoniali) ritenuti compromessi o pregiudicati dalla lunga dequalificazione e dal relativo demansionamento.
Per il resto le censure sono inammissibili, perché involgono l’apprezzamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale circa le ulteriori voci di danno non patrimoniale (alla dignità professionale e alla sfera esistenziale),
evidentemente ritenute già adeguatamente tutelate sul piano risarcitorio mediante la predetta ‘personalizzazione’ del risultato liquidatorio del danno biologico.
3.- Con il terzo motivo, proposto in subordine al secondo, il ricorrente lamenta ‘violazione e/o falsa applicazione’ degli artt. 1226, 2056, 2059 e 2087 c.c. per avere la Corte territoriale liquidato in misura non equa quelle ulteriori voci di danno non patrimoniale, quali il pregiudizio alla dignità professionale e il danno esistenziale.
Il motivo è inammissibile, perché non si confronta in alcun modo con il criterio liquidatorio utilizzato dalla Corte territoriale, consistito in un aumento percentuale del 20% del risultato liquidatorio ottenuto sulla base dei criteri posti dalle tabelle in uso presso il Tribunale di Milano. Inoltre, questa Corte ha già affermato che in materia di danno non patrimoniale colui che si dolga dell’inadeguatezza della liquidazione del danno in suo favore ha l’onere di allegare, in sede di impugnazione, quali fossero le circostanze di fatto idonee a consentire quella personalizzazione del pregiudizio subìto che si assume, invece, essere stata omessa da parte del giudice di merito (Cass. 4447/2014). Nel caso in esame tale onere è rimasto inadempiuto.
4.- Con il quarto motivo il ricorrente lamenta ‘violazione e/o falsa applicazione’ degli artt. 100, 115, 414 c.p.c., nonché 7 del d.lgs. n. 124/1993 e 11 del d.lgs. n. 252/2005, per avere la Corte territoriale rigettato la domanda relativa alla previdenza complementare (fondo PREVINDAI) ritenendo non a llegato l’interesse e quindi la legittimazione ad agire.
Il motivo è inammissibile con riguardo alla domanda relativa al FASI, posto che lo stesso ricorrente conviene con la decisione impugnata (v. ricorso per cassazione, p. 27, ult.cpv.).
Il motivo è invece fondato -per quanto di ragione -con riguardo alla domanda relativa alla previdenza complementare PREVINDAI.
Tale fondo potrebbe avere come non avere personalità giuridica oppure soggettività giuridica distinta dal datore di lavoro (Cass. sez. un. n. 16084/2021; Cass. sez. un. n. 4684/2015). Tale accertamento dovrà essere compiuto dal giudice di rinvio, tenendo conto del principio di diritto già affermato da questa Corte, secondo cui i fondi speciali per l’assistenza e la previdenza costituiti nell’ambito della previsione dell’art. 2117 c.c. con la
contribuzione sia del datore di lavoro che dei lavoratori, ove non abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica, sono assoggettati alla disciplina comune dettata per le associazioni non riconosciute. Sono quindi soggetti giuridici, ancorché privi di personalità, che costituiscono centri di imputazione di rapporti giuridici con altri soggetti dell’ordinamento, compreso tra loro il datore di lavoro che assume l’obbligo di contribuzione, e sono retti da statuti, aventi natura negoziale, la cui interpretazione è riservata al giudice del merito (Cass. n. 5362/2001). E, qualora si trattasse di un soggetto giuridico distinto, dovrebbe essere evocato in giudizio. Non si ravvisano inoltre elementi per escludere la sussistenza dell’interesse i n capo al COGNOME ad accedere alle prestazioni scaturenti da forme di previdenza complementari. La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio anche per l’ accertamento de ll’autonoma soggettività giuridica del fondo PREVINDAI , con tutte le conseguenze in termini di integrazione del contraddittorio nei suoi confronti.
RICORSO INCIDENTALE
5.- Con l’unico motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente incidentale lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ degli artt. 2095, 2103 e 2697 c.c., 115 c.p.c., nonché del CCNL per i dipendenti dlll gruppo Poste Italiane spa del 2001 per avere la Corte territoriale ritenuto provato che nel periodo dal 2003 al 2010 il COGNOME fosse stato adibito a mansioni inferiori a quelle corrispondenti alla categoria formale di inquadramento come quadro, essendo mancata l’attribuzione de lla responsabilità di un gruppo di lavoro.
Il motivo è a tratti infondato e a tratti inammissibile.
E’ infondato laddove postula che l’onere della prova del demansionamento gravi sul lavoratore (v. ricorso incidentale, p. 49), mentre come è noto grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare il rispetto dell’art. 2103 c.c. e quindi l’adempimento dell’obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali è stato assunto o comunque equivalenti (nell’originaria formulazione della norma) alle ultime svolte, trattandosi di responsabilità contrattuale e quindi sottoposta al regime probatorio dettato dal l’art. 1218 c.c. ( ex multis e da ultimo Cass. ord. n. 48/2024).
Il motivo è poi inammissibile, laddove sollecita a questa Corte un diverso
apprezzamento complessivo delle risultanze istruttorie, riservato invece al giudice di merito.
P.Q.M.
La Corte rigetta il primo, il secondo e il terzo motivo del ricorso principale, nonché il ricorso incidentale; accoglie per quanto di ragione il quarto motivo del ricorso principale, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Roma, in diversa composizione, in relazione al motivo accolto,