Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 48 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 48 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso 33192-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato COGNOME
Oggetto
Risarcimento danni da demansionamento
R.G.N. 33192/2019
COGNOME
Rep.
Ud. 21/11/2023
CC
COGNOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 328/2019 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 18/07/2019 R.G.N. 123/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/11/2023 dalla Consigliera NOME COGNOME.
Rilevato che :
La Corte d’appello di Genova ha respinto l’appello proposto dalla RAGIONE_SOCIALE confermando la pronuncia di primo grado che, accertato il demansionamento del dipendente NOME COGNOME a far data dal 27.1.2014, aveva condannato la società ad adibire il lavoratore a mansioni compatibili col suo livello di inquadramento (terzo livello del c.c.n.l. Terziario) e a risarcirgli il danno, patrimoniale e non patrimoniale.
La Corte territoriale ha accertato che il dipendente, all’epoca di conferimento del terzo livello, svolgeva mansioni di responsabile informatico dell’ufficio CED; che successivamente (a seguito della chiusura dell’ufficio CED) era stato spostato nel reparto assistenza post vendita, dove aveva svolto mansioni meno qualificanti ma, comunque, rientranti nel livello di inquadramento; che, a partire dal 20 gennaio 2014, era stato addetto al Team Scanning con mansioni ‘meramente esecutive e
standardizzate’, inferiori rispetto al terzo livello contrattuale.
Avverso la sentenza RAGIONE_SOCIALE, incorporante per fusione di RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi. NOME COGNOME ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’a rt. 380 bis c.p.c.
Il Collegio si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Considerato che :
Con il primo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2103 c.c., nonché degli artt. 115, 116 e 416 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.
La società ricorrente censura la decisione d’appello nella parte in cui, di fronte alla deduzione del lavoratore di demansionamento, ha ritenuto che fosse onere della società provare l’esatto adempimento, cioè il legittimo esercizio dello ius variandi , ai sensi dell’art. 2103 c.c.; sostiene che grava sul lavoratore l’onere di allegare e provare circostanze significative dell’inadempimento datoriale; che, a causa della erronea distribuzione dell’onere probatorio, la Corte di merito ha omesso di verificare se il lavoratore avesse adempiuto al proprio
onere di allegazione e prova; che, comunque, la società aveva preso analitica posizione sui fatti allegati dal ricorrente in primo grado, contestandoli specificamente e fornendo una esposizione volta a dar conto del legittimo esercizio dello ius variandi ; che, in particolare, la società aveva contestato il ruolo e le mansioni espletate dall’COGNOME sia presso il CED, sia presso il servizio di assistenza post vendita e sia presso il Team RAGIONE_SOCIALE (v. ricorso, pagg.1618); che il lavoratore aveva contestato solo alcune delle circostanze allegate da essa società; che la sentenza d’appello, in violazione dell’art. 115 c.p.c., si fonda sui fatti allegati dal lavoratore, non oggetto di istruttoria, ed anzi specificamente contestati dalla datrice; che la sentenza impugnata ha errato, inoltre, nel porre a confronto le mansioni di Team Scanning con quelle svolte dal dipendente presso il CED e cessate nel 2006, mentre avrebbe dovuto fare riferimento alle mansioni di assistenza post vendita, esercitate nel periodo precedente l’assegnazione al Team RAGIONE_SOCIALE; che i giudici di appell o, non solo non hanno considerato il contenuto di queste ultime mansioni come descritto dalla società e non contestato da controparte, ma hanno errato nella lettura delle deposizioni testimoniali, utilizzando la loro scienza personale (ritenendo che la ‘analisi della rottura di stock’ equivalesse alla ‘verifica che un determinato prodotto è esaurito dal magazzino o dal punto vendita’).
7. Il motivo è infondato.
Secondo i principi affermati da questa Corte, quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esatto adempimento del proprio obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (v. Cass. n. 4766 del 2006; n. 4211 del 2016; v. in motivazione Cass. n. 1169 del 2018; n. 17365 del 2018; n. 22488 del 2019).
La Corte di appello si è attenuta a tali principi e, escluso che ‘lo spostamento al Team Scanning (fosse) necessitato da riorganizzazioni aziendali’ (sentenza pag. 12, ultimo cpv. e 13 primo cpv.), ha ritenuto il demansionamento dimostrato in base alle prove testimoniali raccolte (‘il contenuto delle mansioni di addetto al team Scanning nei termini descritti in ricorso è stato confermato dai testi COGNOME NOME e COGNOME NOME Vanno poi richiamate le dichiarazioni del teste COGNOME che appaiono non coincidenti rispetto a quelle dei testi COGNOME e COGNOME ma che, in realtà, descrivono più o meno la
stessa situazione sebbene con parole diverse’, sentenza appello, pag. 113, terzo e quarto cpv.).
10. La decisione della Corte di merito si basa sulla valutazione delle prove raccolte e non sul principio di non contestazione e ciò rende infondati i rilievi della società ricorrente di violazione dell’art. 115 c.p.c., dovendosi peraltro escludere che gra vi sull’attore l’onere di contestare l’altrui contestazione (v. Cass. n. 6183 del 2018).
11. Infondate sono le ulteriori censure atteso che la Corte d’appello ha correttamente operato mettendo a confronto le mansioni da ultimo svolte (di addetto al Team Scanning) con quelle immediatamente precedenti (di assistenza postvendita), oltre che con quelle pregresse di responsabile del CED. Inoltre, altrettanto correttamente e in sintonia con i principi espressi da questa S.C. in materia di tutela della professionalità raggiunta, la sentenza ha accertato che ‘la modifica delle mansioni disposta dalla datrice non ha tenuto conto del bagaglio professionale acquisito dal lavoratore che comprendeva sia le competenze acquisite con il servizio post vendita, sia quelle, ancor più pregnanti, di responsabile informatico dell’ufficio CED’ (sentenza pag.12, se condo cpv.).
È stato infatti costantemente ribadito che, in tema di esercizio dello ius variandi , il giudice di merito deve accertare, in concreto, se le nuove mansioni siano aderenti
alla competenza professionale specifica acquisita dal dipendente e ne garantiscano, al contempo, lo svolgimento e l’accrescimento del bagaglio di conoscenze ed esperienze, senza che assuma rilievo l’equivalenza formale fra le vecchie e le nuove mansioni (Cass. n. 1916 del 2015; n. 16594 del 2020).
13. Neppure è fondato l’assunto secondo cui i giudici di appello avrebbero fatto ricorso alla loro scienza personale, avendo essi unicamente interpretato le deposizioni testimoniali (v. sentenza, pag. 11 penultimo cpv. a proposito delle ‘analisi rotture stock’) e attraverso queste ricostruito il contenuto dell’attività svolta dall’Orisi, senza fare ricorso ad ulteriori e personali acquisizioni di natura tecnica oppure ad elementi valutativi implicanti cognizioni estranee al materiale di causa (cfr. Cass. n. 6299 del 2014; 33154 del 2019).
14. Con il secondo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 414 e 421 c.p.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., nonché la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2043 e 2059 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. 15. La società fa valere il vizio di omessa pronuncia in ordine alle censure dalla stessa mosse sulla personalizzazione del danno biologico riconosciuto al lavoratore; assume che l’indagine istruttoria sul punto è avvenuta in violazione dell’art. 414 c.p.c . per mancanza di
specifiche allegazioni del lavoratore, e in violazione dell’art. 421 c.p.c., al di fuori dei limiti posti all’esercizio dei poteri ufficiosi, avendo il tribunale provveduto a riformulare il capitolo di prova che era stato redatto dalla parte in modo generico e valutativo, quindi inammissibile. 16. Il secondo motivo è per alcuni aspetti inammissibile, per altri aspetti infondato.
17. La prima censura, di omessa pronuncia, è così articolata nel ricorso per cassazione: ‘In sede di appello la Società ha contestato la correttezza della decisione del Tribunale che, oltre a liquidare il danno biologico nella misura del 5% indicata dal c.t.u., lo ha maggiorato del 30%, portandolo da euro 7.251,00 a euro 9.426,30, in ragione dei riflessi che il comportamento datoriale avrebbe avuto sulla esistenza del lavoratore. In merito a tale motivo di impugnazione, la Corte d’appello non si è pronuncia ta, in violazione dell’art. 112 c.p.c., né ha dichiarato lo stesso assorbito’ (ricorso, pag. 26).
18. La società ha ‘reitera(to)’ (così nel ricorso per cassazione pag. 27, primo cpv.) le censure svolte in sede di appello e tra queste la critica per cui ‘il danno esistenziale o morale è già preso in considerazione nella determinazione del punto percentuale per il risarcimento del danno biologico che ha pertanto portata onnicomprensiva’ (ricorso, pag. 27 ultimo cpv., pag. 28 primo cpv.). Tuttavia, ha omesso di trascrivere le censure
come esattamente formulate nel ricorso in appello, adempimento necessario in relazione al vizio denunciato.
19. La deduzione, in sede di legittimità, del vizio di omessa pronuncia postula che il giudice di merito sia stato investito di una domanda o eccezione o di un motivo di impugnazione autonomamente apprezzabili e ritualmente e inequivocabilmente formulati e, per altro verso, che tali istanze o motivi siano puntualmente riportati nel ricorso per cassazione nei loro esatti termini, con l’indicazione specifica dell’atto o del verbale di udienza in cui sono stati proposti (v. recentemente Cass. n. 28072 del 2021; n. 16899 del 2023). Nel caso in esame, non solo difettano tali indispensabili requisiti, ma nello storico della sentenza d’appello (pag. 9), che riassume il secondo motivo di impugnazione sui danni, non è riportata alcuna censura sul punto specifico della personalizzazione del danno non patrimoniale.
20. Il motivo è infondato quanto alla seconda censura, di violazione degli artt. 414 e 421 c.p.c. (il capitolo di prova come originariamente formulato e come poi ammesso dal tribunale è riportato alle pag. 28-29 del ricorso).
21. La Corte d’appello ha ritenuto che il ricorrente avesse ‘capitolato la prova (testimoniale) indicando specificamente i disturbi manifestatisi a seguito del demansionamento, disturbi poi effettivamente confermati dai testi’ (sentenza d’appello, pag. 14, secondo cpv.) e ciò
esclude ogni violazione dell’art. 414 c.p.c.; ha giudicato tale prova utilizzabile ‘a prescindere da ogni considerazione circa la diversa capitolazione effettuata dal giudicante’.
22. Neppure il vizio di cui all’art. 421 c.p.c. appare configurabile. La riformulazione dei capitoli di prova testimoniale mediante eliminazione degli aspetti valutativi e suggestivi, e ferma la deduzione di fatti oggettivi rilevanti ai fini di causa, rientra certamente nei poteri istruttori del giudice del lavoro come ampiamente delineati dall’art. 421 c.p.c., in funzione dell’esigenza di contemperamento del principio dispositivo con la ricerca della verità, e comprensivi, tra l’altro, della facoltà di assegnare alle parti un termine per rimediare alle irregolarità degli atti e documenti (v. ad esempio, Cass. n. 19915 del 2016 relativa alla concessione di un termine per la formulazione delle prove in capitoli separati rispetti ai fatti allegati; Cass. n. 12573 del 2020 sulla concessione di un termine per l’indicazione delle generalità dei testimoni ove omesse), della facoltà di porre al testimone domande ulteriori o chiedere precisazioni al di fuori delle circostanze capitolate (Cass. 9823 del 2021), nonché della facoltà di disporre d’ufficio l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dai limiti stabiliti dal Codice civile.
23. Con il terzo motivo si imputa alla sentenza la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2103, 1218, 2697 e
2729 c.c. per avere riconosciuto un danno alla professionalità sulla base del mero demansionamento, in assenza di specifiche allegazioni e prove sul punto (avendo il primo giudice riformulato gli inammissibili capitoli di prova) e in violazione anche dei criteri di prova presuntiva. 24. Il motivo è inammissibile in quanto, pur nella formale deduzione del vizio di violazione di plurime disposizioni di legge, investe nella sostanza l’apprezzamento del materiale probatorio e sollecita null’altro che una revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, ovvero una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.
25. La Corte di merito ha fatto leva sugli indici presuntivi già valorizzati dal tribunale, tra cui la ‘notevole durata del demansionamento con conseguente perdurante impoverimento della capacità professionale del lavoratore, l’elusivo comportamento aziend ale e la mortificazione dell’immagine professionale’ (pag. 14), ed ha ritenuto che gli stessi fossero ‘idonei a fondare la prova di un danno alla professionalità’, precisando come quest’ultimo ‘non (potesse) ritenersi compreso nel danno biologico’ e, in generale, nel danno non patrimoniale (la sentenza impugnata giudica inconferente il richiamo della società a precedenti giurisprudenziali relativi al danno morale e esistenziale).
Anche in tale passaggio la sentenza impugnata si è conformata alla giurisprudenza di legittimità secondo cui, in tema di dequalificazione professionale, il danno – avente natura patrimoniale -può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, il tipo di professionalità colpita, la durata del demansionamento, l’esito finale della dequalificazione e le altre circostanze del caso concreto (v. Cass. n. 19923 del 2019; n. 21 del 2019; n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014).
Per le ragioni finora esposte, il ricorso deve essere respinto.
La regolazione delle spese del giudizio di legittimità segue il criterio di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo.
Il rigetto del ricorso costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (cfr. Cass. S.U. n. 4315 del 2020).
P.Q.M .
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00
per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 21.11.2023