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Danno da demansionamento: onere della prova e risarcimento

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11586/2025, interviene su un caso di presunto danno da demansionamento. Una lavoratrice, dopo aver ottenuto in appello il riconoscimento di un inquadramento superiore e il risarcimento, vede la sentenza parzialmente annullata. La Suprema Corte ribadisce che il danno da demansionamento non è automatico (in re ipsa), ma deve essere allegato e provato dal lavoratore, anche tramite presunzioni. Il giudice non può liquidarlo equitativamente basandosi solo sulla dequalificazione, ma deve indicare gli elementi di fatto concreti che dimostrano l’esistenza di un pregiudizio.

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Pubblicato il 22 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Danno da demansionamento: non basta la dequalifica per il risarcimento

Il danno da demansionamento è una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro. Ma la semplice assegnazione a mansioni inferiori è sufficiente per ottenere un risarcimento? Con l’ordinanza n. 11586/2025, la Corte di Cassazione torna sul tema, specificando i contorni dell’onere della prova a carico del lavoratore e i limiti del potere del giudice nella liquidazione equitativa del danno. Vediamo nel dettaglio la vicenda e i principi affermati.

I Fatti di Causa

Una lavoratrice, impiegata presso un’impresa di restauro, ricorreva in giudizio per ottenere il riconoscimento di un inquadramento superiore (6° livello del CCNL Edilizia) e il pagamento delle relative differenze retributive. Lamentava inoltre di aver subito un demansionamento, essendo stata adibita a mansioni inferiori di restauratrice dopo aver ricoperto il ruolo di responsabile di un importante cantiere. A seguito di ciò, si era dimessa per giusta causa.

La Corte d’Appello, in riforma della sentenza di primo grado, accoglieva le richieste della lavoratrice, condannando la società al pagamento di cospicue somme a titolo di differenze retributive e di risarcimento del danno da demansionamento, liquidato in via equitativa.

Il Ricorso in Cassazione e la questione del danno da demansionamento

L’azienda ha impugnato la decisione dei giudici di secondo grado davanti alla Corte di Cassazione, sollevando diverse censure. Le più rilevanti riguardavano proprio la liquidazione del danno da demansionamento. Secondo la società, la Corte d’Appello aveva errato nel:

1. Quantificare il danno in modo automatico, come una quota della retribuzione, senza individuare le circostanze concrete che provassero l’effettiva esistenza di un pregiudizio professionale.
2. Riconoscere un’indennità speciale prevista dal CCNL basandosi solo sull’inquadramento, senza verificare la sussistenza degli ulteriori requisiti richiesti dalla norma contrattuale (funzioni direttive, esclusione dall’orario di lavoro, ecc.).
3. Considerare le dimissioni sorrette da giusta causa senza una motivazione adeguata che spiegasse perché la modifica delle mansioni fosse così grave da non consentire la prosecuzione del rapporto.

Le Motivazioni della Suprema Corte

La Corte di Cassazione ha accolto i motivi di ricorso relativi al danno da demansionamento, all’indennità speciale e alla giusta causa, cassando con rinvio la sentenza d’appello.

I giudici di legittimità hanno ribadito un principio consolidato: l’inadempimento del datore di lavoro, consistente nell’assegnazione a mansioni inferiori, è certamente un fatto idoneo a produrre un danno, sia patrimoniale (perdita di professionalità, di chance) sia non patrimoniale. Tuttavia, l’esistenza del danno non è in re ipsa, cioè non consegue automaticamente dall’illecito. Spetta al lavoratore che si ritiene danneggiato l’onere di allegare e provare, anche attraverso presunzioni, il pregiudizio subito.

Il giudice può liquidare il danno in via equitativa, ma solo dopo aver accertato la sua esistenza sulla base di elementi concreti. Nella specie, la Corte d’Appello si era limitata a quantificare il risarcimento come una frazione della retribuzione, senza indicare alcun elemento fattuale (qualità e quantità dell’esperienza pregressa, durata del demansionamento, esito della dequalificazione) da cui desumere la prova del danno. Questo modo di procedere, secondo la Cassazione, si traduce in una forma non consentita di risarcimento automatico.

Analogamente, la Corte ha censurato la decisione sull’indennità speciale, poiché era stata concessa senza verificare se la lavoratrice possedesse i requisiti specifici richiesti dal CCNL, e quella sulla giusta causa delle dimissioni, per l’assenza di un’argomentazione che ne spiegasse la gravità.

Conclusioni

Questa ordinanza riafferma con forza che nel processo del lavoro, come in quello civile, chi chiede un risarcimento deve provare il danno subito. Il demansionamento è un illecito contrattuale, ma il danno che ne deriva non è una conseguenza inevitabile e automatica. Il lavoratore deve fornire al giudice elementi, anche indiziari, che dimostrino un concreto impoverimento della sua professionalità o la perdita di opportunità future. Il giudice, a sua volta, deve fondare la sua valutazione equitativa su queste prove, esplicitando il percorso logico che lo ha portato a ritenere esistente e a quantificare il danno, per evitare decisioni arbitrarie o basate su un inammissibile automatismo risarcitorio.

Il danno da demansionamento è automatico e va sempre risarcito?
No. Secondo la sentenza, l’inadempimento del datore di lavoro non comporta automaticamente l’esistenza di un danno risarcibile. Il lavoratore ha l’onere di allegare e provare, anche tramite presunzioni, il pregiudizio subito alla propria professionalità o per la perdita di chance.

Per ottenere un’indennità speciale prevista dal CCNL è sufficiente l’inquadramento in un certo livello?
No. La Corte ha stabilito che non basta il mero riconoscimento dell’inquadramento superiore per avere diritto a indennità speciali. È necessario verificare e provare la sussistenza di tutti i requisiti specifici richiesti dalla norma contrattuale (es. svolgimento di funzioni direttive, esclusione dalla limitazione dell’orario di lavoro, ecc.).

Una modifica delle mansioni giustifica sempre le dimissioni per giusta causa?
No. La sentenza chiarisce che la valutazione sull’idoneità del demansionamento a costituire giusta causa di dimissioni è un accertamento di fatto. Il giudice deve fornire un’argomentazione chiara e logica per spiegare perché la modifica delle mansioni sia così grave da non consentire la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto di lavoro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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