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Danno da demansionamento: onere della prova del lavoratore

La Corte di Cassazione rigetta il ricorso di una lavoratrice per danno da demansionamento, chiarendo che il pregiudizio non è mai automatico (in re ipsa). La sentenza sottolinea che il lavoratore ha l’onere di allegare e provare in modo specifico e non generico il danno professionale, biologico o morale subito, altrimenti la domanda di risarcimento non può essere accolta.

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Danno da demansionamento: non basta lamentarsi, serve la prova specifica

Il danno da demansionamento non è una conseguenza automatica dell’assegnazione a mansioni inferiori. Affinché un lavoratore possa ottenere un risarcimento, non è sufficiente denunciare l’illecito del datore di lavoro; è indispensabile fornire prove concrete e specifiche del pregiudizio subito. Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con una recente ordinanza, che rigetta il ricorso di una dipendente di una società di telecomunicazioni, sottolineando la centralità dell’onere della prova.

I Fatti del Caso

Una lavoratrice citava in giudizio la propria azienda, una grande società di telecomunicazioni, sostenendo di essere stata assegnata a mansioni inferiori rispetto al suo livello per un periodo di circa quattro anni. La dipendente chiedeva l’accertamento del demansionamento e il conseguente risarcimento del danno professionale, biologico e morale.

La Corte d’Appello, riformando la decisione di primo grado, respingeva la domanda. Secondo i giudici di merito, le allegazioni della lavoratrice erano troppo generiche e stereotipate. La ricorrente si era limitata a fare riferimenti generici al mercato delle telecomunicazioni e alla durata della condotta datoriale, senza però delineare in modo specifico e concreto in cosa fosse consistito il suo depauperamento professionale. Inoltre, per quanto riguarda il danno biologico (stress, ansia, depressione), la documentazione medica prodotta è stata ritenuta insufficiente a provare il nesso di causalità con l’attività lavorativa, in quanto basata unicamente sulle dichiarazioni della stessa lavoratrice.

Il Ricorso per Cassazione e le contestazioni sul danno da demansionamento

La lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione, lamentando principalmente che la Corte d’Appello avesse errato nel valutare la prova, sovvertendo l’ordine logico e giuridico. A suo dire, il giudice avrebbe dovuto prima accertare l’inadempimento del datore di lavoro (il demansionamento) e solo successivamente valutare l’esistenza del danno. Invece, la Corte territoriale aveva saltato il primo passaggio, concentrandosi direttamente sulla presunta insufficienza probatoria del danno, finendo per negare il risarcimento.

Le Motivazioni della Decisione della Corte

La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso infondato, confermando in pieno la decisione della Corte d’Appello. Gli Ermellini hanno chiarito alcuni principi fondamentali in materia di danno da demansionamento.

Innanzitutto, è stato ritenuto corretto l’uso del cosiddetto principio della “ragione più liquida”. Questo criterio permette al giudice di decidere la causa partendo dalla questione che appare di più facile e rapida soluzione, per ragioni di economia processuale. Nel caso specifico, la Corte d’Appello ha legittimamente ritenuto più semplice verificare se la lavoratrice avesse provato il danno, prima ancora di stabilire se un demansionamento fosse effettivamente avvenuto. Poiché la prova del danno era palesemente insufficiente, diventava superfluo accertare l’illecito datoriale.

Il punto cruciale della sentenza risiede nella riaffermazione che il danno da demansionamento non è in re ipsa, cioè non si può considerare esistente per il solo fatto che vi sia stato un demansionamento. L’inadempimento del datore di lavoro (l’assegnazione a mansioni dequalificanti) e il danno risarcibile sono due elementi distinti. Il lavoratore che chiede un risarcimento ha l’onere, ai sensi dell’art. 2697 c.c., di allegare e provare non solo la condotta illecita, ma anche il danno non patrimoniale che ne è derivato e il nesso di causalità tra i due.

La Corte ha specificato che le allegazioni della lavoratrice erano “prive del carattere di specificità, generiche e stereotipate”, e quindi inidonee a fondare una prova, nemmeno quella presuntiva. Per ottenere un risarcimento, il lavoratore deve indicare fatti storici precisi: quali competenze ha perso, quali opportunità di carriera sono state precluse, quali sofferenze psicofisiche concrete ha subito a causa della dequalificazione. Affermazioni generiche sulla “frustrazione professionale” o “l’ansia” non bastano.

Conclusioni e Implicazioni Pratiche

La decisione della Cassazione offre un’importante lezione pratica per lavoratori e datori di lavoro. Per un lavoratore che si ritiene demansionato, non è sufficiente intentare una causa basata su lamentele generali. È fondamentale raccogliere e presentare prove dettagliate e specifiche che dimostrino concretamente le conseguenze negative della dequalificazione sulla propria professionalità e sul proprio benessere psicofisico. Allegare certificati medici che si limitano a riportare le dichiarazioni del paziente, senza un’oggettiva diagnosi del nesso causale con il lavoro, ha scarsa valenza probatoria. Per le aziende, la sentenza conferma che, pur rimanendo l’obbligo di adibire il lavoratore a mansioni adeguate, una richiesta di risarcimento infondata perché generica può essere respinta senza nemmeno entrare nel merito dell’esistenza del demansionamento.

In un caso di demansionamento, il danno è automatico e non necessita di prova?
No, la Corte di Cassazione chiarisce che il danno da demansionamento non è mai ‘in re ipsa’, cioè non può essere considerato implicito nell’atto stesso. Il lavoratore deve sempre fornire la prova specifica del pregiudizio subito.

Cosa deve fare un lavoratore per dimostrare di aver subito un danno da demansionamento?
Il lavoratore deve allegare fatti storici precisi e concreti. Non sono sufficienti lamentele generiche e stereotipate. Deve dimostrare, ad esempio, quale impoverimento professionale ha subito, quali opportunità ha perso e quali sofferenze specifiche (biologiche, morali, esistenziali) sono derivate dalla dequalificazione, provando il nesso di causalità.

Può un giudice esaminare la prova del danno prima di accertare se c’è stato il demansionamento?
Sì, il giudice può applicare il principio della ‘ragione più liquida’. Se la prova del danno appare chiaramente insufficiente, il giudice può rigettare la domanda di risarcimento basandosi su questo aspetto, senza necessità di accertare se l’inadempimento del datore di lavoro (il demansionamento) sia effettivamente avvenuto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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