Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20377 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 20377 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 21/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 17051-2021 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3229/2020 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/12/2020 R.G.N. 5084/2014 ; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14/05/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Napoli, in accoglimento dell’appello principale proposto dal
Oggetto
RISARCIMENTO DEL
DANNO DA
DEMANSIONAMENTO
R.G.N. 17051/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 14/05/2025
CC
datore di lavoro e rigettando l’appello incidentale depositato dalla lavoratrice, ha respinto la domanda di NOME NOME nei confronti di Vodafone RAGIONE_SOCIALE per l’accertamento dell’assegnazione a mansioni inferiori nel periodo giugno 2008 -maggio 201 2 e per la condanna all’adibizione a mansioni corrispondenti al livello rivestito nonché al risarcimento del danno biologico, morale e professionale.
2. La Corte territoriale ha rilevato che, anche volendo ipotizzare un avvenuto demansionamento, il ricorso introduttivo del giudizio non conteneva allegazioni sufficienti a verificare un danno alla professionalità, posto che l’atto conteneva «generici riferimenti alla particolarità del mercato delle telecomunicazioni, alla durata e alla ritenuta gravità dell’inadempimento datoriale senza tuttavia delineare, e quindi offrire come prova, al di là di una impostazione stereotipata, lo specifico e concreto depauperamento, definitivo e irreversibile, subito dalla lavoratrice, salvo mascherare, attraverso il ricorso a formule generiche e generali, un danno che di fatto, ma inammissibilmente, si configura come in re ipsa»; con riguardo alla richiesta di assegnazione a mansioni non dequalificanti, la necessità di una pronuncia era superata dall’accordo concluso tra le parti (in pendenza del grado di appello) presso gli Uffici della Consigliera di parità della città metropolitana di Napoli (in base al quale, la lavoratrice era stata assegnata alle mansioni di addetta alla consolle); in ordine al danno biologico, la Corte territoriale rilevava che l’onere della prova gravante sulla lavoratrice non poteva ritenersi soddisfatto dalla produzione di una consulenza medica di parte e da certificazione di una struttura pubblica, ove il nesso di causalità tra condizioni di stress, ansia e umore depresso risultava ricondotto all’attività lavorativa esclusivamente sulla base delle notizie riferite dalla
stessa lavoratrice; infine, anche con riguardo al richiesto danno morale, mancava qualsivoglia deduzione.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la lavoratrice con tre motivi; la società ha resistito con controricorso, illustrato da memoria.
Al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei successivi sessanta giorni.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 c.c. in relazione agli artt. 2103 c.c., 13 legge n. 300 del 1970, 32 e 37 Cost. , 1176, 1218 c.c., 115 e 116 c.p.c. avendo, la Corte territoriale, soprasseduto a statuire sull’inadempimento del datore di lavoro per valutare, sovvertendo ogni criterio logico oltre che giuridico, la sussistenza dei danni richiesti dalla lavoratrice; va, invece, rilevato che la prova, anche presuntiva, dei danni (biologico, morale, esistenziale, professionale) dipende innanzitutto dalla prova della condotta illecita del datore di lavoro e dalla sua portata, posto che inadempimento (agli obblighi di legittima assegnazione delle mansioni) e danno risarcibile sono due elementi del tutto diversi.
Con il secondo motivo di ricorso si denunzia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., avendo, la Corte territoriale, trascurato di pronunciarsi sulla sussistenza di un inadempimento datoriale.
Con il terzo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 c.c. in relazione agli artt. 2103 c.c., 115 c.p.c., 2043, 2059, 2087 c.c., avendo, la Corte territoriale,
trascurato che il ricorso introduttivo del giudizio allegava -con riguardo al danno professionale -elementi di prova, quantomeno presuntiva, sufficienti, quali la forzata inattività e dequalificazione della lavoratrice, l’impossibilità di utilizzare le conoscenze ed accrescerle, la durata della condotta datoriale (4 anni), il settore delle ‘telecomunicazioni’ in evoluzione, l’anzianità di servizio, la conoscibilità della situazione all’interno e all’esterno dell’azienda; con riguardo al danno biologico, i l ricorso introduttivo del giudizio segnalava il sentimento di inadeguatezza avvertito dalla lavoratrice rispetto ai suoi colleghi, l’insonnia, la tachicardia, l’ansia, le crisi di pianto, e sono stati depositati diversi documenti provenienti da struttura pubblica specialistica, che la Corte territoriale non ha ritenuto di sottoporre ad un consulente tecnica d’ufficio.
I motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente, vista la stretta connessione, non sono fondati.
In disparte i pur decisivi aspetti di difetto di specificità (mancando del tutto la trascrizione anche delle parti rilevanti del ricorso introduttivo del giudizio ritenuto carente dalla Corte territoriale) e di esposizione delle argomentazioni tramite la tecnica dell’assemblaggio (essendo trascritti numerose pagine sia dell’atto di appello della società sia della memoria di costituzione e dell’appello incidentale della lavoratrice), come correttamente precisato dal ricorrente, il profilo dell’inadempimen to degli obblighi posti in capo al datore di lavoro dagli artt. 2087 e 2103 c.c. è distinto dal successivo (ed eventuale) profilo risarcitorio di cui agli artt. 1218 e 1223 c.c. cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire la
prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l’inadempimento datoriale.
Ebbene, la pronuncia impugnata, una volta effettuata la scelta di anteporre ad ogni altra valutazione l’esame della “ragione più liquida” – in conformità ad esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, privilegianti il profilo dell’evidenza rispetto a quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (su tale modalità argomentativa cfr. Cass. n. 17214/2016) – ha applicato correttamente i principi ripetutamente affermati da questa Corte relativi alla prova del danno da demansionamento, ritenendo tuttavia, con riguardo alla fattispecie esaminata, che i fatti allegati dalla ricorrente non fossero stati sufficientemente specifici.
La Corte distrettuale ha ritenuto di soprassedere in ordine alla valutazione del dedotto demansionamento escludendo che fosse conseguibile il risarcimento del danno asseritamente derivatone sul rilievo che i fatti storici allegati (caratteristiche, durata, gravità del demansionamento, frustrazione professionale) fossero privi del carattere di specificità, generici e stereotipati, e come tali inidonei anche a fondare la base del ragionamento presuntivo, che avrebbe consentito di ritenere raggiunta la prova del pregiudizio attraverso l’inferenza del fatto ignoto da quelli noti, ove opportunamente dimostrati.
Nella prova presuntiva, invero, la parte danneggiata ha l’onere di fornire la prova diretta di tutto ciò che può costituire il fatto-base e proprio quest’onere indefettibile è ciò che costituisce il tratto distintivo del piano del danno evento da quello del danno in re ipsa, in quanto per il secondo lo sforzo probatorio si arresta alla lesione del diritto, nell’altro si estende a circostanze ulteriori, benché possa trattarsi di circostanze
vicine all’evento lesivo; il fatto noto non può essere l’ingiustizia sic et simpliciter , ma, quanto meno, l’ingiustizia circostanziata, esaminata, cioè, nel suo contesto particolare.
Sulla censurabilità della decisione di merito in tema di valutazione delle presunzioni con riguardo alla natura dei fatti dedotti, a supporto del pregiudizio conseguente al demansionamento, questa Corte ha sottolineato la necessità che le presunzioni siano ancorate a circostanze precise e puntuali (Cass. n. 2056/2018; negli stessi termini Cass. n. 4100/2020 e 9295/2020, nonchè Cass. n. 23144/2020); alcune pronunce (Cass. n. 32982/2019 e Cass. n. 25743/2018) ritengono che vi sia un alleggerimento del carico probatorio in tema di presunzioni con riferimento all’ipotesi della inattività in cui venga lasciato il lavoratore, prima adibito a mansioni che fossero espressione di una rilevante o specifica professionalità.
Ebbene, la sentenza impugnata -sottolineato che la lavoratrice ha allegato una dequalificazione ma non una totale inattività – afferma che le circostanze dedotte in funzione asseverativa della sussistenza di un danno non patrimoniale (professionale, biologico, morale) quale conseguenza del demansionamento subìto sono astratte e generiche e prive di riferibilità alla vicenda concreta; tale giudizio, idoneamente argomentato e frutto di una valutazione di merito, non è sindacabile, per quanto sopra indicato, nella presente sede di legittimità sul piano della diversa rilevanza attribuibile alle circostanze allegate a fini probatori rispetto al pregiudizio e non al dedotto demansionamento, e ciò è sufficiente ad escludere la idoneità delle critiche avanzate a scalfire la conclusione cui è pervenuto il giudice del gravame, posto che, al di là del richiamo alla violazione delle norme rubricate – rispetto al quale l’omissione dedotta si pone come consequenziale -, nella
sostanza le stesse mirano a confutare la valutazione di inadeguatezza delle prospettazioni del ricorrente, espressa dalla Corte distrettuale, a costituire la base di un valido ragionamento presuntivo, che presuppone la sicura identificazione dei fatti noti dai quali risalire, in virtù di tale percorso logico giuridico, a quello ignoto.
In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese di lite seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 cod.proc.civ.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002;
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 4.500,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14 maggio 2025.
Il Presidente dott.ssa NOME COGNOME