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Danno da demansionamento: guida alla liquidazione

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un lavoratore che contestava la quantificazione del danno da demansionamento. La Corte ha ribadito che la liquidazione equitativa del danno è un potere discrezionale del giudice di merito, sindacabile solo in caso di motivazione assente o palesemente illogica. Il ricorso è stato respinto anche per difetto di autosufficienza, poiché non specificava in modo concreto gli elementi di fatto che si assumevano trascurati.

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Pubblicato il 11 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile, Procedura Civile

Danno da demansionamento: quando la liquidazione del giudice è insindacabile

Il danno da demansionamento rappresenta una delle lesioni più significative che un lavoratore possa subire nel corso della sua carriera. Ma come si quantifica questo danno e quali sono i limiti per contestare la decisione del giudice? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre importanti chiarimenti, sottolineando la discrezionalità del giudice di merito nella liquidazione equitativa e l’importanza del principio di autosufficienza nel ricorso.

I Fatti del Caso: Dalla Gestione di una Stazione alla Biglietteria

Il caso riguarda un dipendente di un’importante azienda di trasporti, inquadrato come “Capo Stazione Superiore”, che per oltre dieci anni, a partire dal 1993, è stato adibito a semplici mansioni di bigliettaio. Il lavoratore ha agito in giudizio per ottenere il risarcimento del danno derivante da questo palese demansionamento, che lo aveva privato di compiti complessi e di responsabilità per relegarlo a un’attività meramente esecutiva.

Il Percorso Giudiziario e la Quantificazione del Danno

Il percorso giudiziario è stato lungo e complesso. Dopo una prima sentenza che aveva respinto la domanda, la Corte d’Appello aveva riconosciuto il demansionamento, liquidando il danno. Questa decisione, tuttavia, è stata annullata dalla Cassazione perché la quantificazione era stata ritenuta non sufficientemente motivata.

La causa è tornata quindi a una diversa Corte d’Appello, la quale ha nuovamente condannato l’azienda, liquidando il danno professionale in una misura pari al 20% della retribuzione mensile percepita in un anno di riferimento, moltiplicata per tutti i mesi del demansionamento. La Corte ha basato la sua decisione sulla lunga durata della dequalificazione (oltre un decennio), sull’anzianità di servizio del lavoratore e sulle dimensioni dell’impresa.

Il Ricorso in Cassazione e l’Importanza dell’Autosufficienza

Non soddisfatto della quantificazione, il lavoratore ha presentato un nuovo ricorso in Cassazione, lamentando che la Corte d’Appello avesse operato una valutazione superficiale, non considerando adeguatamente la “gravità” e la “qualità” del demansionamento.

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per due ragioni fondamentali.

In primo luogo, ha riscontrato un difetto di autosufficienza. Il ricorrente si era limitato a contestazioni generiche, senza riportare puntualmente le allegazioni specifiche fatte nei precedenti gradi di giudizio, né i contenuti della declaratoria contrattuale che avrebbero dovuto dimostrare la complessità delle mansioni originarie. In pratica, il ricorso non forniva alla Corte tutti gli elementi necessari per valutare la fondatezza delle censure, costringendola a una ricerca inammissibile tra gli atti di causa.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha colto l’occasione per ribadire principi consolidati in materia di danno da demansionamento. La liquidazione equitativa del danno, prevista dall’art. 1226 c.c., è un potere discrezionale del giudice di merito. Questo potere non è sindacabile in sede di legittimità se non in casi estremi: totale mancanza di motivazione, motivazione solo apparente, palesemente illogica o contraddittoria.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva fornito una motivazione, seppur sintetica, indicando i criteri utilizzati (durata del demansionamento, anzianità). Non si trattava, quindi, di una decisione arbitraria. Inoltre, gli elementi che il ricorrente lamentava come non considerati (la “gravità” e la “qualità” del demansionamento) non costituiscono “fatti storici” il cui omesso esame possa essere denunciato ai sensi dell’art. 360, n. 5 c.p.c., ma rappresentano elementi valutativi che il giudice aveva già preso in considerazione nel formare il suo convincimento.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame offre due importanti lezioni pratiche. Per i lavoratori che subiscono un demansionamento, è fondamentale allegare e provare in modo dettagliato, fin dal primo grado di giudizio, ogni singolo aspetto del pregiudizio subito: la differenza di complessità delle mansioni, le perse opportunità di formazione, la frustrazione delle aspettative di carriera. Per gli avvocati, la decisione ribadisce il rigore del principio di autosufficienza: un ricorso per cassazione deve essere un documento completo, che metta la Corte nelle condizioni di decidere la controversia sulla base di quanto in esso riportato, senza necessità di integrazioni esterne.

Quando un giudice può liquidare il danno da demansionamento in via equitativa?
Il giudice può procedere a una liquidazione equitativa quando il danno è certo nella sua esistenza ma è impossibile o particolarmente difficile provarne il preciso ammontare. In tal caso, il giudice lo determina secondo un criterio di equità, basandosi su elementi come la durata, la gravità della dequalificazione e altre circostanze del caso concreto.

È possibile contestare in Cassazione la quantificazione del danno da demansionamento?
Sì, ma solo entro limiti molto ristretti. Non è possibile contestare l’importo semplicemente perché lo si ritiene inadeguato. Il ricorso è ammissibile solo se la motivazione del giudice di merito è totalmente assente, solo apparente, manifestamente illogica o contraddittoria, oppure se l’importo liquidato è puramente simbolico e slegato dalla reale entità del danno.

Cosa significa che un ricorso per cassazione deve essere ‘autosufficiente’?
Significa che l’atto di ricorso deve contenere tutti gli elementi di fatto e di diritto necessari per consentire alla Corte di Cassazione di comprendere e decidere la questione senza dover consultare altri atti del fascicolo processuale. Il ricorrente deve riportare specificamente le parti degli atti o dei documenti su cui si fonda la sua censura.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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