Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 11747 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 11747 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 05/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso 11337-2023 proposto da:
COGNOME elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
principale –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliati presso l’indirizzo PEC degli avvocati COGNOME, NOME COGNOME che la rappresentano e difendono;
– controricorrente –
ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 3714/2022 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/11/2022 R.G.N. 311/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/12/2024 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Oggetto
Danno
professionale da demansionamento
R.G.N. 11337/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 03/12/2024
CC
FATTI DI CAUSA
1. Con sentenza n. 13904/2013 il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento del ricorso proposto da COGNOME NOME, aveva dichiarato l’illegittimità del demansionamento subito da quest’ultimo nel periodo da ottobre 2003 a febbraio 2008 e nel periodo dal 14/12/2009 al 31/05/2011, condannando per l’effetto la società convenuta RAGIONE_SOCIALE (in seguito RAGIONE_SOCIALE al pagamento: – di un importo pari al 70% delle retribuzioni maturate in relazione alla qualifica di appartenenza, per il periodo dall’ottobre 2003 al febbraio 2008, e di un importo pari al 50% delle retribuzioni maturate in relazione alla qualifica di appartenenza nel periodo dal 14/12/2009 al 31/05/2011 a titolo di danno alla professionalità; – della somma di € 10.640,00 a titolo di danno biologico da invalidità temporanea assoluta, oltre rivalutazione ed interessi al tasso legale sulle somme annualmente rivalutate, dalla maturazione del credito al saldo; – della somma di € 265,84 a tito lo di danno biologico da invalidità permanente, oltre rivalutazione ed interessi al tasso legale sulle somme annualmente rivalutate, dalla maturazione del credito al saldo; della somma di € 11.382,00 a titolo di danno biologico da invalidità temporanea parziale, oltre rivalutazione ed interessi al tasso legale sulle somme annualmente rivalutate, dalla maturazione del credito al saldo; della somma di € 4.610,67 per le ulteriori voci di danno non patrimoniale (danno morale ed alla vita di relazione), oltre rivalutazione ed interessi al tasso legale sulle somme annualmente rivalutate, dalla maturazione del credito al saldo; mentre dichiarava cessata la materia del
contendere con riguardo alla domanda del ricorrente di essere adibito a mansioni proprie della qualifica di appartenenza, essendo nelle more (dal 01/11/2012) cessato il rapporto di lavoro, e dichiarava la illegittimità delle valutazioni contenute nelle note di qualifica del ricorrente per gli anni 2005 e 2006.
Con la sentenza n. 4280/2017 la Corte di appello di Roma riformava la sentenza di primo grado, ed in particolare: I) in accoglimento dell’appello incidentale proposto dal Salvatori, riteneva provato il demansionamento di quest’ultimo per l’intero arco temporale indicato nel ricorso introduttivo, ossia, compresi i periodi maggio 2002ottobre 2003 e settembre 2008-14/12/2009; II) in accoglimento dell’appello principale proposto da Unicredit Business Solutions s.c.p.a., rigettava la domanda di risarcimento del danno alla professionalità, nonché del danno morale ed esistenziale, riducendo l’importo del risarcimento del danno biologico derivato dal demansionamento ad € 6.533,13; rigettava, altresì, la domanda di annullamento delle note di qualifica degli anni 2002, 2005 e 2006; III) condannava, infine, il COGNOME alla restituzione in favore della società datrice di lavoro della somma di € 250.000,00, oltre accessori e disponeva la compensazione al 50% delle spese processuali del doppio grado, ponendo la restante metà a carico di RAGIONE_SOCIALE
Con ordinanza n. 34073/2021 questa Corte Suprema accoglieva il primo ed il secondo motivo del ricorso principale del Salvatori avverso la sentenza di secondo grado, rigettato il terzo motivo; respingeva il ricorso
incidentale; cassava la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti del ricorso principale e rinviava, anche per le spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello di Roma, in sede di rinvio, così provvedeva: ‘condanna RAGIONE_SOCIALE al pagamento in favore di RAGIONE_SOCIALE, fermo quanto già liquidato dalla Corte di appello di Roma con sentenza n. 4280/2017 a titolo di risarcimento del danno biologico, e detratta la somma già corrisposta comprensiva degli accessori come in motivazione, della somma di € 8.408,00 a titolo di risarcimento del danno alla professionalità, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della presente pronuncia al saldo. Condanna RAGIONE_SOCIALE a rifondere le spese di lite in favore di COGNOME NOME, che si liquidano in € 3.800,00 per il primo grado, in € 3.307,00 per il secondo grado, in € 2.200,00 per il giudizio di Cassazione e in € 3.307,00 per il presente grado, oltre rimborso 15%, iva e cpa’.
La Corte anzitutto dava ampiamente conto di quanto considerato e deciso nei precedenti due gradi di giudizio e nel giudizio di legittimità, nonché delle posizioni assunte dalle parti in sede di rinvio, a seguito di ricorso in riassunzione del lavoratore.
Premetteva ancora che l’oggetto del giudizio di rinvio, con riguardo alle statuizioni di questa Suprema Corte, concerneva esclusivamente la verifica di sussistenza di un danno c.d. alla professionalità, derivato al ricorrente in riassunzione in ragione della condotta posta in essere dalla
società datrice di lavoro.
6.1. Specificava che non potevano più essere messi in discussione l’accertamento di una condotta datoriale di demansionamento del lavoratore nei periodi maggio 2002febbraio 2008 e settembre 2008-31/05/2011, né tantomeno le ulteriori statuizioni dei precedenti gradi di giudizio, attinenti il danno biologico ed il danno non patrimoniale; mentre -alla luce del principio di diritto formulato dalla Suprema Corte -occorreva accertare il diritto del Salvatori al risarcimento del danno alla professionalità conseguente al demansionamento, esaminando le allegazioni della parte ricorrente e tutte le risultanze del giudizio, al fine di verificare -come precisato nell’ordinanza di questa Corte n. 34073/2021 -‘ l’idoneità delle stesse a costituire la base di un ragionamento inferenziale che consenta di risalire in modo attendibile e coerente all’eventuale configurabilità di un danno risarcibile derivante da demansionamento e dequalificazione professionale ‘.
Procedendo, quindi, all’ampia verifica come ad essa demandata, e richiamati taluni precedenti di legittimità, riteneva la Corte d’appello che doveva procedersi ad una valutazione necessariamente equitativa del danno alla professionalità subito dal lavoratore, utilizzando quale parametro del danno da dequalificazione professionale l’entità della retribuzione, a sua volta espressiva del contenuto professionale della prestazione, al fine di compiere una valutazione adeguata e proporzionata, che tenesse conto di tutte le circostanze concrete del caso specifico, nonché al fine di ristorare il pregiudizio effettivamente subito dal danneggiato e permettere la
personalizzazione del risarcimento.
7.1. Riteneva, dunque, la Corte del rinvio di procedere ad una liquidazione equitativa del danno alla professionalità utilizzando il parametro del 50% della retribuzione media mensile percepita dal lavoratore nel periodo del demansionamento, criterio valutato come equo alla luce della durata e del tipo della dequalificazione professionale subita e della compromissione della possibilità di accrescimento professionale e di avanzamento di carriera.
Esposti, quindi, i relativi calcoli, concludeva che, detratto l’importo in precedenza ricevuto dal lavoratore, fosse ancora dovuta a quest’ultimo la somma di € 8.408,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della stessa sua pronuncia al saldo.
Avverso tale decisione COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso, contenente anche ricorso incidentale a mezzo di due motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia: ‘violazione di legge artt. 429 cpc e 1126 cod. civ. (ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.) e nullità della sentenza per motivazione apparente -art. 132 co. 2 n. 4 cod. proc. civ. (ai sensi dell’art. 360 n. 4 cod. proc. civ.)’. Deduce che ‘la Corte distrettuale, pur utilizzando gli stessi elementi già valutati dal giudice di primo grado per la valutazione del danno da dequalificazione, lo ha quantificato in modo del
tutto arbitrario attraverso il ricorso al 50% della retribuzione media, equitativamente ed all’attualità, somma comprensiva di rivalutazione ed interessi legali, decurtando la liquidazione che, nel 2013, era stata già effettuata dal Tribunale della maggior percentuale (70% da ottobre 2003 a febbraio 2008), importo che ha inoltre stabilito debba calcolarsi oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della pronuncia al saldo. L’impugnata sentenza così statuendo ha proceduto alla liquidazione del danno, sia pure in via equitativa, senza adeguata motivazione avendo omesso di indicare elementi ulteriori rispetto a quelli considerati dal primo giudice che giustificavano una tale decurtazione del danno liquidato’.
Con un secondo motivo denuncia: ‘violazione di legge, artt. 1223, 1277, 1219 cod. civ. (ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.)’. Assume che: ‘E’ stato violato il cd. principio di indifferenza, in ossequio del quale il patrimonio del danneggiato da fatto illecito va reintegrato ponendo quest’ultimo nella medesima posizione in cui si sarebbe trovato se non fosse stato commesso il fatto illecito. La Corte distrettuale non ha tenuto conto che il potere d’acquisto del denaro ha subito un deprezzamento t ra il momento del fatto illecito (2002-2011) e quello della liquidazione del danno (2022) e non ha rivalutato la perdita in base ad un coefficiente che restituisca il valore dell’importo perduto espresso in moneta dell’epoca della liquidazione. La Corte di appello ha disposto condanna ad un importo di valore solo nominalmente equivalente a quello perduto, ed ha violato così anche l’art. 1277 cod. civ., per il quale il principio nominalistico si applica solo alle obbligazioni di valuta e non di valore, quale quello del
risarcimento da fatto illecito. La Corte d’appello, oltre a non rivalutare il credito risarcitorio, ha erroneamente rivalutato l’acconto versato dalla società e lo ha detratto dal risarcimento, quando avrebbe dovuto limitarsi a considerare l’acconto ai fini degli effetti della mora’.
Con un terzo motivo denuncia: ‘violazione di legge, art. 1219 cod. civ. (ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.)’. Sostiene che: ‘La Corte distrettuale, nel liquidare il danno a distanza di tempo dal suo prodursi, ha violato l’art. 1219 cod. civ. per non aver risarcito l’ulteriore pregiudizio rappresentato dagli effetti della mora, causando così al lavoratore una reintegrazione incompleta del patrimonio perché egli non si vedrebbe riconoscere i frutti finanziari teoricamente derivanti dall’investime nto del capitale risarcitorio’.
Con un quarto motivo denuncia: ‘violazione di legge (ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ.). Articoli 10, 14 e 91 c.p.c., articolo 24 legge 13 giugno 1942, n. 794, del decreto Ministro della giustizia 55/2014’. Secondo il ricorrente principale, ‘La Corte distrettuale, nell’individuare i criteri per la determinazione del valore della controversia e nel liquidare spese processuali e onorari di ognuno dei giudizi, ha violato gli articoli in rubrica in quanto la liquidazione delle spese di giudizio a carico della parte soccombente deve avvenire secondo il criterio del decisum o quello del disputatum e mai al di sotto dei minimi tariffari’.
Con il primo motivo del ricorso incidentale Unicredit RAGIONE_SOCIALE.aRAGIONE_SOCIALE denuncia: ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 2729, 2103, 2697 c.c., nonché degli artt. 414, 115 e 116 c.p.c., ex art. 360, n. 3, c.p.c., per aver ritenuto sussistenti
gli indici presuntivi sulla cui base un ragionamento inferenziale che consentisse di risalire alla configurabilità di un danno risarcibile’.
Con il secondo motivo di ricorso incidentale è denunciata: ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 1226, 1227, 1175 e 1375 c.c. ex art. 360, n. 3, c.p.c., con riguardo alla liquidazione del preteso danno alla professionalità’; nonché: ‘nullità della sentenza per omessa pronuncia in relazione alla totale carenza di considerazione dell’eccezione di questa difesa circa l’inesistenza di un danno risarcibile ovvero di un suo più sostanziale ridimensionamento: violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, n. 4, c.p.c.’.
All’esame dei contrapposti ricorsi giova premettere che nell’ordinanza rescindente questa Corte, nell’accogliere il primo ed il secondo motivo del ricorso principale del lavoratore (esaminati congiuntamente), aveva osservato che la Corte di appello di Roma, nella sentenza di secondo grado, ‘riesaminato il materiale probatorio e ritenuto che fosse stato provato il demansionamento del Salvatori per l’intero arco temporale indicato nel ricorso introduttivo, si è poi limitata, nel pronunciare sulla domanda risarcitoria relativa al danno professionale, a richiamare l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, per il quale il riconoscimento del diritto del lavoratore a vedersi accertata tale voce di danno non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, e peraltro senza procedere in alcun modo a quella verifica delle circostanze di fatto allegate dal ricorrente, e più in generale dagli elementi acquisiti al giudizio, che la stessa giurisprudenza (Sez. U n.
6572/2006 e successive numerose conformi ) richiede di considerare’.
7.1. Aveva, quindi, ribadito l’orientamento di legittimità, secondo il quale, se il danno da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre in modo automatico in ogni caso di inadempimento datoriale, esso può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell’art. 2729 cod. civ., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e la quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione; erano state, altresì, richiamate le precisazioni a riguardo espresse in precedente di questa Corte (Cass. n. 24585/2019) reso ‘in un caso sovrapponibile al presente’ (cfr. in extenso pag. 3 dell’ordinanza n. 34073/2021).
7.2. Questa Corte, quindi, nel cassare la sentenza allora impugnata in relazione ai due motivi accolti del ricorso principale del lavoratore, aveva specificato che la Corte del rinvio, ‘nel procedere all’esame delle allegazioni di parte ricorrente, unitamente alle altre risultanze del giudizio, si atterrà al principio di diritto richiamato, in particolare verificando l’idoneità delle stesse a costituire la base di un ragionamento inferenziale che consenta di risalire in modo attendibile e coerente all’event uale configurabilità di un danno risarcibile derivante da demansionamento e dequalificazione professionale’.
Ciò premesso, occorre esaminare prioritariamente e congiuntamente i due connessi motivi del ricorso incidentale
di Unicredit s.p.a., perché -diversamente dai primi tre motivi del ricorso principale -pongono di nuovo in discussione la stessa configurabilità di un danno professionale risarcibile.
Ebbene, nell’ambito di tale scrutinio, si deve prendere in considerazione anzitutto il secondo profilo del secondo motivo del ricorso incidentale in quanto vi si prospetta un error in procedendo asseritamente produttivo della nullità dell’impugnata sentenza.
9.1. Ritiene, però, il Collegio che non ricorra assolutamente il vizio di omessa pronuncia che nella rubrica del profilo di censura ora in esame la ricorrente incidentale delinea in chiave di ‘totale carenza di considerazione dell’eccezione di questa difesa circa l’inesistenza di in danno risarcibile ovvero di un suo più sostanziale ridimensionamento’.
9.2. In primo luogo, si nota che la Corte d’appello, come già accennato in narrativa, ha dato, tra l’altro, estesamente conto della posizione assunta dalla società nel costituirsi in sede di rinvio, e delle sue difese (cfr. §§ 5. e 5.1. alle pagg. 8-9 della sua sentenza).
9.3. La Corte del rinvio, inoltre, ha dato conto in modo ampio e preciso di quanto considerato e deciso nell’ordinanza n. 34073/2021 di questa Corte (cfr. §§ 3., 3.1., 3.2., 3.3. e 3.4. alle pagg. 4-7 della sentenza).
E -nell’evidenziare ciò che era ormai coperto da giudicato interno, anzitutto circa ‘l’accertamento di una condotta datoriale di demansionamento del lavoratore nei periodi maggio 2002-febbraio 2008 e settembre 2008-
31/05/2011′, e quello che era quindi il precipuo e circoscritto oggetto del giudizio di rinvio -, ha ribadito quale fosse il principio di diritto cui doveva uniformarsi e quale fosse il compito affidatole da questa Corte di legittimità (cfr. §§ 7. e 7.1. alle pagg. 9-10 della sentenza impugnata).
9.4. Uniformandosi a tali statuizioni dell’ordinanza rescindente, la Corte distrettuale ha anzitutto diffusamente esaminato ‘gli elementi di fatto allegati dal lavoratore’, ‘nel contesto dei propri atti difensivi ritualmente depositati’ (cfr. § 8 alle pagg. 10-11), e li ha quindi valutati, concludendo che ‘le allegazioni di parte risultano adeguate e complete anche con riguardo al parametro del tipo e della natura della professionalità coinvolta, che, come sopra specificato, era di un livello molto elevato, tenuto conto della qualifica posseduta e della concreta attività svolta’ (cfr. § 8.1. e 8.2.).
9.5. Si è, poi, soffermata la Corte sulla ‘durata del demansionamento’, evidenziando che ‘la parte ha indicato in dettaglio i periodi del subito demansionamento, che ben possono essere definiti di considerevole consistenza, trattandosi di un primo periodo di circa sei anni (maggio 2002-febbraio 2008) e di un secondo periodo di quasi tre anni (settembre 2008maggio 2011)’ (cfr. in extenso § 8.3.).
9.6. Ha, altresì, notato che ‘la sentenza di primo grado, nell’escludere che nell’accertare ipotesi di demansionamento potesse configurarsi un danno ‘ in re ipsa ‘ alla professionalità del lavoratore, aveva valorizzato -ai fini della prova diretta e per presunzioni del pregiudizio consistente nella riduzione della capacità lavorativa e nel
depauperamento del bagaglio professionale -proprio gli elementi allegati dal lavoratore con riguardo ai profili sopra evidenziati’ (v. § 8.4.).
9.7. La Corte del rinvio è passata a considerare ampiamente le ‘risultanze del giudizio’, tra l’altro, tenendo conto dell’intera istruttoria orale e, segnatamente, di dichiarazione giudicata ammissiva del procuratore speciale della società convenuta (cfr. nel § 9.1. a pag. 13), e giudicando ‘non efficacemente contestata dalla società datrice di lavoro’ ‘la circostanza dell’aver concluso la carriera svolgendo attività di c.d. retrosportello’ (così a pag. 14, ma v. in extenso pagg. 13-15 circa le valutazioni sulle risultanze processuali).
Secondo questa Corte, il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132, n. 4, c.p.c., che esponga, in maniera concisa, gli elementi di fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito. Ne consegue che il vizio di omessa pronuncia -configurabile allorché risulti completamente omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto -non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto (così, tra le altre, Cass. n. 12652/2020).
Ebbene, ciò che la ricorrente incidentale assume pretermesso non costituisce un’eccezione sulla quale la Corte del rinvio dovesse pronunciarsi, ma una serie di deduzioni ed allegazioni (cfr. pagg. 33-34 del controricorso), che – tenendo conto che, come già rilevato, la Corte stessa aveva ben considerato la posizione assunta in sede di rinvio dalla società e aveva poi valutato le emergenze probatorie indotte dalle parti, in rapporto anche a quanto sostenuto dalla medesima -devono reputarsi quantomeno implicitamente disattese.
Dai rilievi che precedono discende l’infondatezza sia del primo motivo di ricorso incidentale che del primo profilo in cui si articola il secondo motivo dello stesso ricorso.
12.1. In particolare, per quanto già considerato, non è affatto vero che il ragionamento decisorio dell’impugnata sentenza ‘si risolve in una mera registrazione di mere allegazioni senza scrutinio alcuno sull’effettiva sussistenza di quanto allegato ed ignorando le ‘risultanze’ di causa e, in particolare, …, omettendo ogni valutazione degli elementi offerti da questa difesa’, come invece sostenuto dalla ricorrente incidentale (a pag. 28 del controricorso).
12.2. Al contrario, nella sentenza resa in sede di rinvio, le allegazioni del lavoratore, prima, sono state esposte compiutamente e in dettaglio e, poi, sono state valutate come tali; infine, sono state riconsiderate in relazione alle risultanze processuali per affermarne la dimostrazione.
12.3. D’altronde, sempre nel primo motivo di ricorso incidentale si contrappone al giudizio della Corte territoriale una diversa valutazione in particolare delle avverse
allegazioni (cfr. pagg. 28-30 del controricorso).
Per analoghe ragioni, si appalesa infondato il primo profilo del ricorso incidentale.
13.1. Esso s’incentra essenzialmente sull’assunto che il lavoratore, ‘pur avendo lamentato un demansionamento risalente addirittura al 2002 e pur avendo sostenuto di avere subito non meglio specificati danni professionali, nell’immediatezza del primo mutamento di mansioni oggi ritenuto illegittimo, così come negli anni a seguire, non solo non ha cercato altre opportunità lavorative che potessero impedire la perdita oggi lamentata per almeno 8 anni, ma non ha mai lamentato alcunché, così consapevolmente e volontariamente provocando, o comunque contribuendo a determinare, il danno che oggi invoca. E ciò ancor più se si considera che le vicende societarie che hanno caratterizzato nel periodo di riferimento il suo rapporto di lavoro, con il subentro di soggetti diversi -sia pure per effetto di fusioni societarie o di cessioni di aziende e/o rami aziendali -avrebbero dovuto imporre al ricorrente medesimo, in ossequio ai principi elementari e fondamentali di correttezza e buona fede, oltre che a quanto disposto d all’art. 1227 c.c., di segnalare a chi di competenza il suo malcontento per le mansioni esercitate: sennonché egli ha preferito godere del beneficio di una sorta di sine cura, nella quale ha finito volontariamente per crogiolarsi, per poi presentare a momento venuto -in buona sostanza a pensione maturata -una cambiale in bianco prefabbricata e poi riempita con cura’ (così a pag. 32 del ricorso).
13.2. Tutte tali suggestive e impressive deduzioni della ricorrente incidentale si basano, però, su una sua lettura
delle risultanze processuali, in parte generica, e diversa comunque da quella operata dalla Corte in sede di rinvio.
Il primo motivo del ricorso del lavoratore non è fondato.
E’ sufficiente in tal senso considerare che, benché i giudici del rinvio nella loro valutazione del caso abbiano talvolta richiamato in chiave adesiva apprezzamenti già espressi nella sentenza di primo grado del Tribunale, non erano di certo vincolati, ai fini della liquidazione del danno in questione, alla medesima percentuale del 70% della retribuzione, che peraltro il primo giudice aveva utilizzato, come premesso dalla Corte del rinvio (cfr. pag. 2 della sentenza), solo per la liquidazione del danno professionale relativo al primo periodo di demansionamento (dall’ottobre 2003 al febbraio 2008), mentre per l’ulteriore periodo era stato adoperato ‘un importo pari al 50% delle retribuzioni maturate in relazione alla qualifica di appartenenza’, vale a dire, il medesimo parametro utilizzato dalla Corte in sede di rinvio.
Né quest’ultima era tenuta a fornire a riguardo specifica motivazione sul perché si fosse parzialmente discostata dai parametri cui aveva fatto ricorso il giudice di primo grado.
Osserva, inoltre, il Collegio che neppure sussiste il vizio di motivazione apparente che il ricorrente principale denuncia, peraltro promiscuamente, nell’ambito del primo motivo.
15.1. Difatti, la Corte del rinvio comunque ha certamente dato conto in modo ampio di elementi e criteri
della propria valutazione necessariamente equitativa del danno alla professionalità, anche attraverso plurimi richiami alla giurisprudenza di questa Corte a riguardo (cfr. i §§ 9.4., 10., 10.1. e 10.2. della sua motivazione tra la pag. 14 e la pag. 16). Tra l’altro, ha citato Cass. n. 12253/2015, la quale aveva ritenuto ammissibile a tal fine il ricorso al parametro della retribuzione, rispetto a caso in cui la sentenza di merito aveva assunto a parametro della liquidazione del danno proprio l’importo pari alla metà delle retribuzioni dovute per il periodo di demansionamento.
Possono essere congiuntamente esaminati, in quanto connessi, il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale, che risultano infondati.
La Corte del rinvio ha anzitutto calcolato una retribuzione media mensile nel periodo considerato, che, al netto di arrotondamenti e ridotta del 50%, è risultata pari ad € 2.900,00 (cfr. § 10.3. della motivazione).
Quindi, ha considerato:
‘10.4. Moltiplicando tale importo per il numero delle mensilità del periodo, rectius dei periodi (maggio 2002febbraio 2008 70 mensilità + settembre 2008-maggio 2011 33 mensilità), si ottiene l’importo di € 298.700,00, da cui deve essere detratta la somma già versata dalla società resistente, ossia € 250.000,00, oltre rivalutazione ed interessi dal 12/08/2014 (data entro la quale avrebbe dovuto essere effettuato il pagamento della somma di € 250.000,00 di cui al verbale di conciliazione in atti datato 31/07 /2014), per un importo totale di € 290.292,00.
10.5. Dunque, e conclusivamente, la RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE deve essere condannata al pagamento in favore di Salvatori NOME, fermo quando già liquidato dalla Corte di appello di Roma con sentenza n. 4280/2017 a titolo di risarcimento del danno biologico, della somma di € 8.408,00 (298.700,00 -290.292,00), a titolo di risarcimento del danno alla professionalità, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della presente decisione al saldo’.
Nel dispositivo di sentenza, in narrativa trascritto, è stata ribadita la medesima impostazione, con decorrenza, cioè, di ‘interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data della presente pronuncia al saldo’ sulla somma come liquidata, ottenuta dalla detrazione della ‘somma già corrisposta comprensiva degli accessori come in motivazione’.
Osserva allora il Collegio che tutte le considerazioni svolte dal ricorrente nel secondo e nel terzo motivo di ricorso si basano su un’errata percezione dell’effettivo decisum in proposito della Corte del rinvio.
18.1. In tal senso nota anzitutto questa Corte che nell’ambito del primo motivo lo stesso ricorrente principale aveva riconosciuto che la quantificazione del danno alla professionalità operata dai giudici del rinvio era, oltre che equitativa, ‘all’attualità’ (cfr. la rubrica a pag. 17 del ricorso).
18.2. Ebbene, dal complesso dell’intera sentenza resa in sede di rinvio si trae la conclusione che l’importo di € 298.700,00, calcolato dalla Corte, rispecchi una liquidazione effettivamente all’attualità, vale a dire, operata all’atto della
decisione adottata, del danno professionale risentito dal lavoratore.
18.3. Più nello specifico, la Corte del rinvio si è mostrata sicuramente consapevole che si trattava di liquidare il danno alla professionalità derivante da un illecito datoriale costituito dal demansionamento del lavoratore in diversi anni parecchio precedenti alla data della propria decisione.
18.4. Soprattutto, depone nel senso che la quantificazione dell’importo di € 298. 700,00 rifletta una liquidazione all’attualità proprio il rilievo che, nel detrarre da tale importo quello corrisposto all’esito del verbale di conciliazione in data 31.7.2014, ha considerato quello comprensivo di rivalutazione ed interessi, che ha calcolato in € 290.292,00. Operazione, quest’ultima, in cui è insito, ma chiaro, l’intento di far sì che la sottrazione del secondo importo dal primo operasse tra entità matematicamente e giuridicamente omogenee nella loro composizione; vale a dire, quello di € 298. 7 00,00, liquidato all’attualità, e perciò comprensivo di interessi e rivalutazione monetaria maturati medio tempore, rispettivamente, dalla fine del primo periodo di demansionamento e dalla fine del secondo periodo di demansionamento, e l’importo di € 290 .292,00, parimenti comprensivo di rivalutazione ed interessi dal 12.8.2014 sino all’atto della decisione in sede di rinvio.
18.5. Tutto ciò, a sua volta, è coerente con il dato che per l’importo ottenuto dalla suddetta sottrazione, pari ad € 8.408,00, sia in motivazione che in dispositivo, è stato specifica to: ‘oltre interessi legali e rivalutazione monetaria
dalla data della presente pronuncia al saldo’.
Invero, anche detto importo ancora da corrispondere, come quelli da cui deriva (per detrazione), è liquidato all’atto della stessa sentenza di rinvio, ed include perciò i ridetti accessori, sicché gli accessori ulteriori sono stati stabiliti ‘dalla data della presente pronuncia al saldo’.
Così intesa e spiegata la sentenza in parte qua gli errores in iudicando sostenuti dal ricorrente principale nel secondo e nel terzo motivo non sussistono.
Il quarto motivo del ricorso principale è fondato per quanto di ragione e, giusta l’art. 384, comma secondo, seconda parte, c.p.c., non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, in punto di regolamento delle spese processuali per gradi e fasi precedenti si può decidere nel merito nei termini che si passa ad illustrare.
In primo luogo, occorre ricordare che, secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, a termini del d.m. n. 55 del 2014, art. 5, comma 1, nella liquidazione dei compensi a carico del soccombente, si ha di norma riguardo, nei giudizi di pagamento di somme di denaro, alla somma attribuita alla parte creditrice piuttosto che a quella domandata ( ex multis Cass. n. 18942/2020).
Ebbene, il valore della causa in primo grado, in cui fu svolta fase istruttoria, in complesso era certamente e non di poco superiore ad € 260.000,00, in relazione alle varie domande del lavoratore, che vi trovarono parziale, ma oltremodo consistente accoglimento (cfr. punto 1 della narrativa di questa ordinanza); un accoglimento che, tenendosi conto degli sviluppi successivi del procedimento
sino a questa sede di legittimità, afferisce alla somma complessiva di € 298.700,00 (come liquidato all’attualità nella sentenza qui impugnata, secondo quanto già rilevato) per il solo danno alla professionalità del lavoratore.
Dunque, la Corte in sede di rinvio, facendo riferimento in motivazione al criterio della soccombenza (cfr. § 11 a pag. 17), e senza ulteriore motivazione a riguardo, erroneamente ha liquidato per il primo grado l’importo complessivo di € 3.800,00 , sensibilmente inferiore ai minimi tabellari previsti per le cause di lavoro innanzi al tribunale dal cit. d.m. di valore superiore ad € 260.000,00.
22.1. In particolare, avuto riguardo al dato che all’origine si trattava di accoglimento parziale e che talune statuizioni della sentenza di primo grado sono poi venute meno (cfr. punto 2 della narrativa di questa ordinanza), e sono coperte da giudicato interno di rigetto, appare congrua una liquidazione di € 9.459,00 (di cui € 3.334,00 per la fase di studio della controversia, € 1.168,00 per la fase introduttiva, € 1.812,00 per la fase istruttoria ed € 3.145,00 per la fase decisionale).
Per il secondo grado, nel quale non risulta essere stata svolta attività istruttoria, la Corte territoriale in sede di rinvio ha liquidato il complessivo importo di € 3.307,00, che può essere in questa sede confermato. Infatti, il valore economico del decisum favorevole al lavoratore nell’occasione si era notevolmente ridimensionato. Più nello specifico, in disparte il richiesto risarcimento del danno alla professionalità (capo di domanda sul quale il lavoratore è risultato definitivamente vittorioso in sede di rinvio con statuizione qui confermata), erano state respinte le pretese
risarcitorie relative al danno morale ed esistenziale, era stato ridimensionato l’importo del risarcimento a titolo di danno biologico da demansionamento, ed era stata rigettata la domanda di annullamento delle note di qualifica degli anni 2002, 2005 e 2006; statuizioni, queste ultime, sulle quali si è ormai formato giudicato interno.
Può essere, altresì, approvato l’importo di € 2.200,00, liquidato dai giudici di rinvio, per il precedente giudizio di cassazione, che, come già riferito in narrativa, segnava l’accoglimento solo di due motivi del ricorso del lavoratore e in relazione esclusivamente alla domanda relativa al risarcimento del danno alla sua professionalità (danno ancora a determinarsi in quel giudizio di legittimità).
Infine, può essere confermata la liquidazione del compenso di € 3.307,00, determinato per la fase di rinvio. In particolare, in base a quanto già in precedenza esposto, nelle more la società resistente aveva versato al lavoratore la complessiva somma di € 250.000,00, sicché il decisum a lui favorevole in sede di rinvio, secondo i calcoli sopra già esposto, è risultato pari ad € 8.408,00.
In definitiva, rigettato il ricorso incidentale e rigettati i primi tre motivi del ricorso principale, trova accoglimento il quarto motivo del ricorso principale per quanto di ragione, con cassazione senza rinvio dell’impugnata sentenza a riguardo, e con decisione nel merito nei termini sopra delineati.
Avuto riguardo alla soccombenza reciproca, ma prevalente in questa sede di legittimità della controricorrente/ricorrente incidentale, le spese di questo
giudizio di cassazione vanno poste a carico di quest’ultima per la metà, nella misura liquidata in dispositivo, con compensazione tra le parti della restante metà.
Inoltre, la ricorrente incidentale è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso incidentale, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il quarto motivo del ricorso principale, rigettati gli altri motivi dello stesso ricorso, e rigetta il ricorso incidentale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto del ricorso principale e, decidendo nel merito, riliquida le spese del primo grado del giudizio, in favore del ricorrente principale, in € 9.459,00, oltre rimborso forfettario nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge; conferma le spese come liquidate per il giudizio di appello e per quello di rinvio; condanna la ricorrente incidentale al pagamento, in favore del ricorrente principale, di € 200,00 per esborsi e di metà delle spese di questo giudizio di legittimità, che liquida per tale misura in € 1.500,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge, compensando tra le parti la restante metà di tali spese.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale, a norma dello
stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del